venerdì 11 dicembre 2009

Formicolio.



Così, senza preavviso, lui prese coraggio e si voltò di scatto. Una mattina invernale come tante, la decadente struttura irrigidita dei rami spogli di un tiglio, nell'indecenza frattale di una giornata qualunque. Non tanto fredda, non tanto luminosa. Non tanto qualsiasi cosa, quella sensazione di mancanza pervasiva che ridimensiona e allontana le percezioni, spegne i sentimenti sul nascere e ti abbandona a te stesso. Allora batté i piedi e anche il rumore delle scarpe sull'asfalto gli suonò falsato, in ritardo, molle. Col passare del tempo, degli anni, anche battere i piedi aveva perso di efficacia nel rompere incantesimi. Non l'aveva mai confessato, il solo parlarne avrebbe compromesso l'essenza magica del gesto. Se pure avesse trovato il coraggio di esporsi al ridicolo, nessuno sarebbe stato disposto a credere nell'esistenza di George. Non sapeva quale fosse il suo vero nome, George era il nome con cui lo chiamava lui, il giorno in cui scoprì che poteva essere cacciato battendo i piedi per terra, uno per volta, come a scacciare un formicolio, riattivare la circolazione. Perché proprio quella era l'impressione che si riceveva quando George trovava un buco o solo un motivo per entrare, per venire a vedere, come sentisse l'odore di una persona temporaneamente vulnerabile e non perdesse l'occasione di approfittarne. Il mondo iniziava a formicolare come un piede sul quale si è rimasti troppo a tempo seduti. Diventava rigido, diventava pesante, si preparava al piacevole dolore di un risveglio nervoso. Quella mattina gli sembrava di sentirlo respirare dietro di sé e battere i piedi serviva solo a farlo respirare più piano, a farlo allontanare di un passo. Forse verrà il giorno, pensò, che non se ne andrà mai più, che batta i piedi o schiocchi le dita niente servirà a farlo svanire. Si incamminò guardando in terra, i cerchi neri di vecchie cicche da masticare buttate sul marciapiede fra le quali anche le sue, era in grado di riconoscerle, ad esempio quella vicino al tubo della grondaia di fianco al civico diciotto, gettata lì una sera di giugno trent'anni prima, un giorno che tutto gli era andato storto. Pisciate di cane, mozziconi di sigaretta. E George poco lontano, a seguirlo di soppiatto, nascondendosi dietro ripari di fortuna, come quel cestino dell'immondizia superato pochi passi prima. Immaginava il ghigno sul volto di George, i canini sporgenti, la peluria arruffata che sporgeva dal colletto aperto della camicia macchiata, e quel suo fastidioso, continuo annusare, arricciando il naso. Adesso mi giro, pensò, lo affronto, e succeda quel che deve succedere. Si sentiva così stanco. Avrebbe tanto voluto ricordare cosa fosse andato storto e come gettare una cicca per terra avesse potuto dargli conforto. Ma si rese conto di non esserne più capace. Eppure qualcosa sulla natura magica di certi sotterfugi gli era rimasta dentro, lo sapeva, non era tanto il gesto, quanto la predisposizione interiore, una forma di energia che George annusava così come si annusa una possibile fuga di gas, solo per accertarsi che il pericolo sia mero frutto di immaginazione e la paura ingiustificata.

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