martedì 31 gennaio 2012

Pilota automatico

Sono cose che non dovrebbero succedere. Nella mia testa non è successo, mi rifiuto di crederlo. Quasi ogni notte mi sveglio di colpo e salto giù dal letto, sicuro che stia cedendo il pavimento, che mi stia risucchiando un vortice dentro al buco di scarico. La probabilità che succeda è infima, è più facile cadere con l'aereo, schiantarsi con la macchina, cadere dalle scale. Adesso che non credo più nemmeno alle statistiche, non credo più ai miei occhi, non mi rimane più nulla in cui credere, vorrei che qualcuno mi dicesse che è stato uno scherzo, che la nave adagiata su un fianco è stato un effetto speciale, non è morto nessuno e io sono ancora quello di prima. Perché ero una persona felice, ero il vincitore, il capobranco, ero il re del mio regno galleggiante, un regno di sudditi ricchi e felici, un regno dotato di tutti i comfort, dove i poveri rimangono a terra e chi è in difficoltà viene sbarcato. Grazie e tanti saluti. Non capisco come sia potuto succedere, ci sono strumentazioni molto avanzate per impedire che accada l'irreparabile, ci sono meccanismo di risposta studiati da scienziati in grado di prevedere l'intero arco dell'eventuale. Indossavo abiti sgargianti, mi radevo due volte al giorno, i miei modi erano sempre all'altezza della situazione, gli ospiti al mio tavolo sempre accuratamente selezionati. Quando ho sentito il rumore gracchiante del metallo in sofferenza mi sono detto non c'è niente di cui preoccuparsi, di qualsiasi cosa si tratti non potrà mai essere niente di grave perché questo è il mio regno e il mio regno è sicuro, è garantito, è assicurato, è simbolico, è la Tour Eiffel all'ingresso dell'esposizione universale della navigazione marittima, è lo schiaffo dell'uomo scientifico sul brutto muso di Nettuno.

Non posso accettarlo, avrebbero dovuto esserci delle paratie, delle clausole nel mio contratto, delle procedure per tornare indietro nel tempo a prima dell'inclinazione oltre il punto di massima tolleranza strutturale. Dico che ci deve essere un responsabile occulto per il quale sto pagando io, il comandante, che ho recuperato la mia dimensione in rapporto alla nave ritrovandola nella scatola di pronto soccorso, dentro alla scialuppa, in mezzo a garze sterili e razzi di segnalazione, era lì, la mia forma umana, il corpo in scala uno a uno. Come si pretende che un uomo da solo, perché io sono solo, dentro di me ho sempre saputo di essere solo, in sala di comando come sul ponte di coperta, chiedete ai membri dell'equipaggio se non stavo tutto il tempo chiuso in cabina, concentrato sul mio ruolo, a sopportare il peso dell'incarico. Uno come me avrebbe potuto dedicarsi alle rotte commerciali, le petroliere, le portacontainer, e invece eccomi qui sulla rotte turistiche a pianificare gli sbarchi e organizzare i turni e sovrintendere agli approvvigionamenti. Un bell'uomo come me, riccioluto, avvenente, ben piazzato, che avvizzisce e ingrassa dentro a questo mostro di metallo, ebbene sì, è ora di confessare, tanto ormai la mia carriera è finita. La odiavo, le sue vibrazioni, la sua deriva a scartamento ridotto, filava più come un treno che come una nave, e la musica i giochi il menu tutto a ripetizione settimanale, come vivere dentro a una replica infinita. I miei anni migliori sono volati senza che mi venisse richiesto il minimo intervento, un parere, niente, solo battute spiritose, le solite, qualche diversivo imbarcato clandestinamente, per il resto ero il nonno che si siede a tavola e ascolta in silenzio cosa succede nella giornata di chi ha una vita.

I miei passeggeri erano solo questo, gente che pagava per dimostrarmi che esistono persone con una vita al di fuori di una dettagliata pianificazione fintomilitare, con tanto di esercitazioni programmate dove gli ospiti si filmano mentre ridono perché trovano buffo incontrarsi al piano bar o al casinò con indosso il giubbetto salvagente. I bambini soffiano nei fischietti, lo sanno tutti che è solo una consuetudine, una formalità obbligatoria per legge, che non succederà mai niente di grave, perché non è un film, questa è una nave vera, è solida, è sicura, è troppo grande per affondare, il mare gli fa il solletico. I passeggeri non mi amavano davvero, ero solo quello vestito strano per farci insieme una foto ricordo, la nave avrebbe navigato anche senza di me, leggevo nei loro occhi il disprezzo latente per un accessorio, una macchietta simpatica compresa nel pacchetto vacanze. Perché mai dovrei sentirmi in debito verso di loro, cosa hanno in comune con me i passeggeri? Sono solo ospiti paganti su una nave che non è nemmeno mia, io sono pagato solo per girare in tondo nei porti turistici dove faccio scendere portafogli con le gambe in cerca di souvenir. Non ho disegnato io le mappe, non ho costruito io la nave, non ero nemmeno al timone quando è successo. E avrei dovuto stare lì a farmi insultare da centinaia di persone che non obbediscono agli ordini, a gestire un naufragio e un ammutinamento, a dare spiegazioni al telefono di un evento impossibile che mi rifiuto di ammettere anche con me stesso? Non sono scappato, ho preso atto della mia inutilità, sono crollato, sono stato detronizzato per un evento da nulla, uno scoglio, un'imprudenza per futili motivi, sono stato contagiato e spinto a un comportamento immaturo su un palcoscenico dove si sale per poter fare gli immaturi a un prezzo accessibile a tutti.


giovedì 26 gennaio 2012

Le storie che non scriveremo (1 di W)

K dice Ho abortito un bambino. È l'ultimo gioco che si è inventato, è convinto che sia un gioco divertente, consiste nel telefonarmi di notte, mentre pranzo, quando sa che sto guidando o facendo la spesa, K mi telefona per darmi notizie spaventose. Lo fa per il mio bene, K sostiene che mi aiuterà a ritrovare la strada di casa, che secondo lui sono stato rovinato dalla cultura mediatica commerciale e il suo dovere è di traghettarmi, Caronte all'incontrario, mi farà tornare nel mondo dei vivi, delle persone normali, mi trascinerà di peso fuori dall'inferno privato che mi sono costruito accumulando materiale letterario e audiovisivo, in cui vivo rannicchiato in attesa di epiloghi a valanga, come un ratto che ha mangiato l'esca avvelenata. L'epilogo, vorrai dire, uno solo, ma lui dice No, dice Gli epiloghi sanno come riecheggiare, hanno imparato, sono diventati molto furbi. Gli dico K ascoltami, non sta funzionando, smettila, gli dico Ammesso che tu abbia ragione sul fatto che, e non ce l'hai, ma se anche fosse non sta accadendo nulla, non mi sento diverso, davvero. K respira nel telefono e dice È ancora presto, devi avere pazienza, devi stare al gioco, parliamo, chiedimi qualcosa sul bambino che ho perso, e a me si riempie la testa di fermo immagini, trasparenze multilivello sovrapposte, colonne sonore deturpate dai sintetizzatori digitali, e sento montare una rabbia nata insieme al big bang nei confronti di K, un'ira che ha avuto molto tempo per crescere nutrendosi di ghiaccio nero, della speranza infondata di K nel trovare sempre una via d'uscita, della fiducia che K ripone nei salvataggi, ma prima che gli gridi nel telefono cose antipatiche, cattiverie affilate, avviene un cedimento mentale da intorpidimento, scatta un relais che interrompe il circuito della violenza primordiale, vengo sommerso da ricordi spiacevoli o ritrovo tesori sepolti, mentre chiedo a K se era maschio o femmina, il bambino, e come l'ha perso, nella mia mente la voce del doppiatore di Stallone mi legge parola per parola una lettera scritta da mia madre che ho smarrito secoli fa.

K dice Non lo so, maschio, sono sicuro che fosse maschio, con gli occhi verdi. Gli dico Non hanno colore gli occhi dei neonati, sono blu, e K dice Non importa, si capisce che non ci stai mettendo la voglia, è inutile giocare se non fai la tua parte. Sta zitto un po', per farmela pesare, e butta lì un Ci devi credere. Sospiro, mi alzo dal letto e accendo tutte le luci, sento l'esigenza di controllare che le stanze risultino deserte, se non mi facesse sentire stupido mi metterei a guardare sotto i mobili, dentro agli armadi. K vuole sapere cosa sto facendo, cosa sono quei rumori, sorrido rispondendo Niente, mi vendico tenendolo all'oscuro e dopo un po' mi dice Visto che ormai sei sveglio ti voglio confessare che secondo me la vita precedente finirà nella scatola delle cose che non scriveremo. Guardo l'ora sul termostato, faccio il conto, ho dormito tre ore. La vita precedente K intende una storia che abbiamo ipotizzato in cui il protagonista nella vita precedente era suo figlio perché bisogna sfatare il postulato del tempo, K dice che nessuno ha mai protestato e non si capisce perché a nessuno è mai venuto in mente che ci si possa reincarnare in una vita passata o che una vita passata si sia svolta nel futuro. Le parole esatte di K sono state Dobbiamo ribellarci al dominio del tempo, al che ho detto Ci faranno un film, e K ha detto Non prendermi in giro, e da quella volta ogni tanto salta fuori La vita precedente e il fatto che sia diventata una delle tante storie che non scriveremo. Gli dico K ho dormito solo tre ore e lui dice Era una bella idea. Dico Può darsi, ma ho dormito solo tre ore, e sono deciso a ripetergli all'infinito quest'unica frase, Ho dormito solo tre ore, fino a quando non dichiarerà la resa, mi chiederà scusa, ammetterà che il gioco è finito, che il gioco era inutile e fine a se stesso. K dice Immagina se fosse vero, se fossi seduto nel mio sangue a chiedermi le w, il cosa, quando, come, perché. Gli dico K sei un maschio, i maschi non abortiscono, tu interrompi la gravidanza che io interrompo la telefonata, e premo con forza il tasto col simbolo rosso.

Spengo le luci e mi sdraio sul divano con la tv accesa, sento in cuffia la voce tranquilla di un narratore professionale, è un documentario di storia, scienza, animali, non m'importa di cosa parla, le immagini scorrono lente e la voce è teatrale, nessuno spara o grida, niente esplode o scoppia in lacrime, va bene così, tanto ormai so che resterei agitato nel letto a rendermi conto di avere le mandibole serrate, i pugni chiusi, le spalle tirate. Vedo che si illumina il telefono, non rispondo, chiudo gli occhi e sogno mia nonna, un donnone quintalesco strizzato nel grembiule a fiori, sogno le chiappe enormi di mia nonna sul sellino della graziella, la faccia rotonda della nonna che mi ordina di stare attento a non mettere i piedi nei raggi, a me che sto seduto sul ferro nudo del portapacchi e non so dove attaccarmi perché il sedere di mia nonna è troppo grande per abbracciarlo, il grembiule a fiori è aderente e teso, non offre appigli, non so dove mettere le mani e nemmeno i piedi, che tengo sparati all'infuori, con gli zoccoli appesi alle dita, e quando la bici prende una buca rimbalzo con dolore e le chiappe della nonna si ravvivano, danno respiro al sellino che compare per un momento alla vista come un naufrago e io rido, sono contento, dico nonna vai, pedala nonna, vai più veloce. Mi sveglia la pubblicità, trenta tacche più udibile del programma in cui è inserita, trenta volte più estatici i sorrisi, mi spaventa la certezza di essere entrato chissà dove senza chiedere permesso, guardo la pubblicità e mi sembra di spiare, di commettere un reato solo per il fatto che sto partecipando di qualcosa che non merito. Guardo il telefono, ho dormito due ore, ci sono quattro chiamate senza risposta, tutte di K. Mi infilo nella doccia pensando a mia nonna, era un sogno in bianco e nero, cerco di ricordare di che colore fossero i fiorellini sul grembiule quando davvero mi portava con sé al mercato, al cimitero, al ricovero per anziani in visita alla prozia novantenne. Celesti come gli occhi di Gesù, fucsia che gli occhi della Madonna, lo stesso fiore in due colorazioni, oppure diafani come occhi di neonati che mi annunciano La scuola è quasi finita, siamo i fiori della nonna, da oggi nei prati migliori.

È ancora buio, dalla finestra vedo lampioni velati da cortine di neve artificiale, fiocchi di smog vetrificato dalle correnti artiche che scorrazzano nel silenzio di un'alba festiva. Oggi è domenica, penso, e mi sento sprecato a non avere progetti per onorare la festa con divertimenti e intrallazzi, mi immagino auto stracariche con dentro bambini che cantano o costretti dall'impazienza a ossessionarsi di Quanto manca, mi immagino camini accesi con vecchine sorridenti sulle sedie a dondolo, mi immagino amanti esausti per la fatica che si sentono in colpa per l'imprevista disaffezione omnicomprensiva e danno la colpa alla fastidiosa insistenza delle lenzuola umide. Immagino amici di fronte alla tv, grandi tavolate, bottiglie di vino frizzante, risate eleganti a battute spiritose, una domenica in grado di abolire tutto ciò che è volgare e feriale, pacchiano e normale, una domenica dove niente avviene sottotono e ogni notizia diventa clamorosa. E mentre cerco di fingere che sia neve vera, che sia un giorno speciale, non riesco a dimenticare mia nonna, sempre indaffarata, i baffi di mia nonna mentre le guardo la bocca per imparare a memoria le preci in latino del rosario serale, gli occhi sempre più chiari sotto l'incalzare del glaucoma, della cataratta, delle malattie con nomi che trovi interessanti solo fino a quando non parlano di te, di come vengono chiamati i passi che fai avanzando in un futuro che non ti trova sulla lista degli invitati. Mi chiedo se i miei occhi saranno altrettanto capaci di una minaccia credibile, una severità inflessibile, o se lacrimeranno irritati dall'aria gelida che arriva a cristallizzaci addosso i veleni. Oppure diverrò cieco come la prozia nella sua stanzetta in condivisione al ricovero per anziani, sempre in attesa di qualcosa, dell'ora di pranzo, dei vespri, del giornale radio, della domenica, giorno di visite, giorno in cui occorre farsi trovare in ordine, preparati, con lo scialle fatto all'uncinetto e il fermacapelli di tartaruga, la prozia che si specchiava per essendo cieca, per fingere di vederci benissimo, che rispondeva annuendo quando ti vedeva muovere le labbra per fingere di sentirci benissimo, e quel bicchiere mezzo vuoto sul comodino che da bambino mi chiedevo il perché di una stranezza del genere. La prozia delle monetine messe da parte per te che quando saltavi una visita si accumulavano, al punto che ricevere una grossa mancia ti faceva sentire in grossa colpa. La prozia che sbagliava i nomi e si preoccupava che la stanzetta fosse pronta per accogliere il proprio cadavere, le tende tirate e le tapparelle mezzo abbassate per una penombra adeguata al riposo della salma, gli armadi intarsiati e smaltati con anta a specchio per moltiplicare la luce delle candele, l'atmosfera raccolta per rafforzare il mormorio delle preci sussurrate.

K dice Non mi interessa, devi ascoltare. Mi racconta la storia di una ragazza che vuole perdere un bambino e si dà i pugni in pancia, corre per le scale, e di come tutti al posto di congratularsi si dispiacciano per lei. Le dicono poveretta, le dicono sei così giovane. Suo padre non la guarda più come prima, non la guarda se non per lanciarle occhiate in mezzo alle scapole, il padre scuote la testa e la madre piange, le dice non ti preoccupare ma i suoi occhi dicono mi hai spezzato il cuore. Mi intrometto, gli dico K basta, è una storia che non scriveremo nemmeno a voce, non voglio starti a sentire mentre racconti tragedie e per fargli dispetto gli parlo sopra, parlo di mia nonna al cimitero che mi ripete ogni volta chi è parente di chi e cosa ha fatto di buono nella vita e di cosa è morto, io da bambino conosco moltissima gente morta che sorride dentro a fotografie marmorizzate, persone che hanno l'aria felice e vivono dentro a un giardino, in piccole case scavate nel terreno. Mentre K va avanti con la storia e io anche se gli parlo sopra lo sento, seguo la vicenda perché non posso evitarlo, è come studiare con la tv accesa, scrivere parlando al telefono, e K dice Di nascosto, scioglie la pillola di ru quattro otto sei dentro a una bibita, non lo sa nessuno, è convinto di agire per il meglio, di fare la cosa giusta, è deciso a portarsi il segreto nella tomba, e il lettore viene reso complice. Intanto io gli parlo della fossa comune, di come le ossa finiscano nella fossa comune, e di quanto mi dispiacessi all'idea di tutte quelle persone che sarebbero finite prima om poi nella fossa comune, un giorno sarei entrato al cimitero e non avrei trovato più nessuno, sarebbero state tutte facce mai viste prima, ognuna con una storia che mi sarebbe rimasta ignota, non avrei avuto la nonna a rivelarmi i segreti del mondo. K dice secondo te si sentono colpevoli tutti? e io sono costretto a spegnermi e cercare una risposta, gli dico Intendi tutti in che senso, tutti anche noi due, tutti anche gli alieni, i neanderthal, tutti anche la natura il cosmo personificato, tutti anche il bambino mai nato? Gli dico Tutti in che senso tutti, tutti, tutti, tutti chi? K dice Hai capito, quando succede qualcosa che non sai se arrabbiarti anche coi muri o chiedere scusa anche per gli altri, ho pensato che il lettore gli facciamo trovare un biglietto dove. Un biglietto scritto da chi? Non si sa, tanto non la scriveremo mai, che ti importa, gli facciamo trovare un biglietto a parte, infilato tra le pagine, con su scritto scusate per i problemi che vi ho causato. Non ho capito, dico. Massì, lo facciamo firmare col nome che avrebbero dato al bambino se non fosse finito giù per il cesso, nell'inceneritore per rifiuti speciali. Gli dico K tu sei malato, se scrivi una cosa del genere ti tiri addosso il mondo, ci saranno persone in fila per la goduria di insultarti, e K dice È così che funziona, sarebbe tutta pubblicità, gli editori vanno matti per la pubblicità gratuita. Mi manca l'aria, dico K perché insisti, non la scriveremo e non ne voglio parlare. Lui sta zitto, mi dice Oggi cosa fai, dico Esco, Dove vai, mi accorgo di averlo sempre saputo, da quando mi sono svegliato, da ieri sera, da tutta la vita, la mia esistenza si risolverà e avrà fine in mezzo alla folla, esploderò gridando qualcosa di definitivo o cantando sulla musica diffusa dagli altoparlanti, gli rispondo Devo andare al centro commerciale. Vengo anch'io, No, Ci vediamo là, No K, Pronto, Pronto? 




lunedì 23 gennaio 2012

Tendenza al limite

C'era una volta un paese dove negozi vendevano matematica. Non c'erano negozi di giocattoli e neppure gelaterie, ma solo negozi di matematica. Un mago di nome Algebrus aveva scoperto come tirare fuori dalla testa delle persone tutti i numeri che avrebbero usato nel corso di una vita e adesso era l'unico che poteva contare senza aver bisogno di comprare dei numeri. Algebrus aveva costruito un computer magico che aveva subito iniziato a raccogliere tutti i numeri del mondo per metterli in ordine dentro ai suoi circuiti. All'inizio le persone facevano piccoli errori, un sarto sbagliò a prendere le misure per un nuovo costume da pagliaccio e lo fece strettissimo al posto che larghissimo, ma il pagliaccio non si lamentò perché faceva ridere lo stesso. Ci fu chi presento un conto di due mila e mille due zeri virgola quasi due virgola e ancora virgola circa due milioni per un panino al prosciutto e nessuno ha mai capito come abbia fatto a calcolare quella cifra. C'è stato uno scienziato che ha lanciato un razzo nel suo giardino di casa al posto che sulla luna e adesso alleva conigli ma è molto più contento di prima. Insomma all'inizio non si lamentava nessuno per un po' di matematica in meno, però col tempo la situazione peggiorò, se chiedevi quanti anni hai non ti sapevano rispondere e quando c'era da fare a metà per uno si sbagliava sempre.

Algebrus aprì i negozi di matematica e divenne ricchissimo, nessuno si domandava come mai una volta non ci fosse bisogno di comprare dei numeri per fare i conti, sembrava normale che nessuno potesse maneggiare i numeri senza prima comprarli in uno dei negozi di Algebrus, come se il mondo funzionasse da sempre così e i negozi di matematica fossero l'invenzione straordinaria che tutti stavano aspettando da secoli. È molto più facile la matematica ora che abbiamo imparato a fabbricare i numeri, chissà come facevano a cavarsela gli uomini dell'antichità, si diceva la gente in attesa del proprio turno per ordinare un pacchetto di numeri sfusi con qualche segno aritmetico a parte. Algebrus ricevette molti premi e la sua faccia era dappertutto, si diceva che a custodire il brevetto segreto per fabbricare i numeri ci fosse un drago perché il drago era il simbolo scelto come marchio aziendale. La pubblicità col drago che sputava numeri sulla folla la conoscevano anche i bambini, la canzone che faceva drago drago che numeri fai, drago drago che numero vuoi, era fischiettata anche per strada. In effetti era molto più comodo usare la matematica senza dover fare la fatica di studiarla. Tutte quelle regolette, le formule, le tabelline, che noia, che fatica, quanto è più semplice e comodo avere tutta la matematica che ti serve al prezzo di una monetina? Senonché la monetina divenne due monetine, poi tre, e a un certo punto la matematica la comprava solo chi ne aveva davvero bisogno.

Infatti Algebrus non aveva pensato che il suo computer magico avrebbe trovato sempre meno numeri dentro alla testa delle persone, nessuno aveva numeri in testa da quando poteva tenerli in tasca. Non aveva pensato al numero dei numeri e quando cerco di usare la magia per costruire un nuovo computer magico capace di contare il numero dei numeri ottenne solo un'esplosione che lo fece starnutire per due giorni di fila e gli fece volare via il cappello così lontano che ci vorrebbero anni di cammino per andarlo a recuperare. In pratica stavano finendo i numeri e se la gente l'avesse scoperto si sarebbe impaurita, bisognava far finta che andasse tutto bene. Algebrus faceva brutti sogni dove i clienti assaltavano i suoi negozi e distruggevano tutto per accaparrarsi i numeri ancora freschi di stampa, e il drago usciva dalla pubblicità e volava da Algebrus per sgridarlo ma non riusciva a dire niente perché anche il drago non aveva più numeri da sputare. Qualcuno iniziava a dubitare, a mettere in giro delle voci, Algebrus riceveva sempre più spesso lettere in cui gli si chiedeva se fosse vero che stavano finendo i numeri. Presto la gente avrebbe cominciato a protestare per la scarsità di numeri e avrebbero dato la colpa a lui, Algebrus, incolpandolo di tenersi i numeri per sé, di negare il diritto ai numeri, di non lasciare i comandi del compuer magico a uno più bravo, in grado di garantire numeri adeguati per tutti.

È qui che nasce la leggenda del bambino geometrico. Noi oggi non usiamo più i numeri e non sappiamo nemmeno cosa fossero di preciso perché non abbiamo mai trovato negli scavi archeologici dei numeri antichi in buono stato di conservazione. I matematici moderni allevano gli scrompli per mutazionare i ghibrilloidi, ma sappiamo che a quei tempi, durante il periodo delle guerre e delle rivolte causate da una drammatica scarsità di matematica, diventò famoso il bambino geometrico, conosciuto anche come Signore delle sezioni coniche e Maestro dei piani proiettivi. Abbiamo trovato frammenti di pergamena che testimoniano la capacità di manipolare concretamente la matematica delle quali non è possibile a tutt'oggi trovare una spiegazione scientifica. Ci sono immagini, la più famosa è la cosiddetta Fonte della numerabilità, in cui il bambino geometrico crea nell'aria con le dita delle linee immaginarie dalle quali scaturiscono formule e numeri come dal nulla. Alcuni studiosi ipotizzano che il bambino geometrico non sia realmente esistito ma rappresenti una figura mitologica ideata per dare un significato mistico alla caduta di Algebrus e alla fine dell'età del magico, per infondere speranza a un mondo scosso dalle spiegazioni razionali, promettendo un futuro idealistico dove i numeri avranno un sapore e apparirà chiaro a tutti il significato delle forme geometriche.


(Parentesi critica: l'ultimo è un paragrafo di cesura, postilla per adulti, ex-fabula. Mi ha chiesto Dario nei commenti il perché di questa entrata nello specchio, un salto invasivo nel campo del lettore, un'aggressione alla sospensione dell'incredulità. Non c'è un perché, ci vedo un equilibrio disarmonico, un tradimento da pochi soldi, una rappresaglia del reale sul fantastico, un contagio logico che infetta il lettore/consumatore/fruitore spingendolo, è forse anche il caso di Dario, a chiedere se ci sia e quale sia un perché, a costo di restare, non potrebbe essere altrimenti, senza risposta.)



mercoledì 18 gennaio 2012

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (46 di N)

Non so se l'ho già detto, il tran tran, quando c'hai un figlio non basta portarlo fuori per fargli fare i bisogni o ricordarsi di nutrirlo e di cambiargli l'acqua. Un po' che dopo i 40 ogni anno è un regalo (di sicuro lo è nell'ottica di un uomo che ha vissuto prima del 19mo secolo o che tuttora vive in zone dove il culmine della scienza medica è un impiastro di erba e fango), un po' che la logorrea grafomaniaca allaga con facilità i moduli di memoria a breve e a lungo termine, cosicché non saprei dire di cosa non ho mai scritto prima d'ora in vita mia. È un tran tran anche quello, a conti fatti, ci si abitua a tutto, e volentieri, purché ci venga dato modo di ripetere l'esperienza un certo numero di volte. L'assuefazione che purtroppo ci rende meno esplosiva la gioia e in generale meno entusiasti della vita, come se un processo in background lavorasse di nascosto per renderci più facile lasciarci tutto alle spalle, cercare qualcosa di nuovo altrove, nell'ignoto, che è poi la spinta che ha governato l'evoluzione naturale e culturale, dal pesce che esce dal mare all'epopea dell'esplorazione, il pionierismo spaziale, tutta quella serie di oggetti materiali e immateriali che ci danno appuntamento a domani, spingendoci a pregare dicendo sì lo so, ma non oggi, non ancora, ho ancora delle cose per cui vale la pena rimandare il fatidico. Ma non del vampirismo emotivo che esercitiamo anche senza volerlo sui nostri figli, succhiando dai loro occhi l'entusiasmo, la genuinità, la purezza, è del tran tran che voglio parlare, perché è una delle cose che cambiano quando c'hai un figlio.

Se non vive con le balie nella dependance o prigioniero di un collegio cinque stelle, tuo figlio con la sola presenza fisica ti cambia gli adorati rituali della quotidianità e diventa lui stesso il fulcro di attività ripetitive in grado di soppiantare tutte le altre. A un certo punto ti rendi conto che le tue giornate sono completamente diverse da come erano prima che arrivasse un figlio e ti chiedi come sia potuto succedere. È un po' come le volte in cui ci si concentra sul profilo dei figli per memorizzarli, per portarli con sé nel futuro e tirarli fuori ogni volta che si avrà la sensazione di aver dimenticato qualcosa, però funziona al contrario: ti chiedi se è un travaso da genitore a figlio che alla fine del processo ti lascerà vuoto come il guscio dei baccelloni di quel film e tutta la tua energia verrà utilizzata per i figli fino al giorno in cui verrai gettato nel contenitore delle batterie scariche. In fondo sarebbe giusto così, il passaggio del testimone, il cerchio della vita, gente che va e gente che viene, se non fosse che a volte ti senti derubato di un presente alternativo, ti immagini un te stesso nell'universo qui a fianco che ha continuato il vecchio tran tran e adesso si gode la tv, il divano, si rilassa, e man mano che lo guardi però ti piace sempre meno, è invecchiato anche lui nel frattempo, ha la pancetta, la casa puzza di cavolo bollito, ha le calze bucate, il fiato pesante, le occhiaie, vive da solo e fa finta di parlare con persone che non ci sono. È un altro di quei numerosi momenti in cui vai di corsa a cercare tuo figlio per abbracciarlo e dirgli grazie di avermi tolto di dosso il peso della mia stessa vita.

Il tran tran però te lo cambia, è il prezzo da pagare per la condanna a vivere per qualcuno diverso da te stesso, perché diciamocelo nell'orecchio, vivere solo per se stessi all'inizio magari è un sogno ma alla fine è sempre un incubo. Se uno ha la fortuna di avere un figlio sano e sereno gli appare la scritta lampeggiante mission accomplished quando preme il tasto di feeedback interiore. Ci si sente bene di riflesso quando l'oggetto dei nostri sforzi matura, diventa grande, fa enormi progressi, e che orgoglio ci viene dall'ignorare apposta che forse li farebbe comunque, anche senza il nostro aiuto. Che però c'è, il nostro aiuto, e scusa se è poco, dato che è un lavoro massacrante che ci sconvolge al punto da interrogarci, a volte, e quelle volte neanche sono convincenti, sul tran tran di chi risponde solo ai propri bisogni voglie e desideri. Il tran tran come cambia? Per esempio adesso, alle altre mille azioni all'apparenza casuali che sono diventate la norma, mi trovo a ripetere quello che dice, formulando la frase con verbi in modi e tempi corretti. Divertente, le prime volte, alla lunga diventa un riflesso condizionato, uno dei tanti che distinguono te, genitore con funzioni educative, da un adulto qualsiasi che deve solo interagire in modalità standard, e speri che in futuro tuo figlio non si ricordi di te come di un robot che arrivava puntuale all'uscita della scuola, gli suggeriva automaticamente i congiuntivi irregolari, gli preparava sempre le stesse cose da mangiare, e via elencando una lista di attività giornaliere che se fosse un lavoro dovrebbe essere ben pagato e, come tutti i lavori massacranti che dovrebbero esserlo, non lo sarebbe.

(illustrazione di Andreas Englund)

lunedì 16 gennaio 2012

kung pao

ante cinese che a me nemmeno piace il cibo cinese mi fa venire gli acidi non so che ci faccio al ristorante cinese vedo appesi grandi ventagli di carta di riso con le gru in equilibrio su una zampa c'è la carta da parati rossa con motivi dorati a rampicante e vedo teste di dragone plastificate ci sono le lampade tipiche che solo a guardarle ti fanno sentire in riva al fiume giallo che a me la cina non mi dice niente a me nemmeno piacciono i fuochi d'artificio gli ideogrammi gli ombrellini le cose cinesi il tai chi l'yi-ching lo shangai non mi piace nemmeno lo shangai che devi far saltare via le bacchette è un gioco di pazienza cinese tu dimmi una cosa qualunque della cina e vedrai che non mi piace tanto per cominciare non esiste un supereroe cinese neanche a cercarlo non esiste un ufficiale cinese sull'astronave enterprise ci sono miliardi di cinesi al mondo e non ce n'è uno coi superpoteri e nei film il cinese fa sempre il servitore l'operaio il vecchio saggio il guaritore il monaco shao lin non ti viene mai voglia di pensare vorrei essere il cinese di quel film eppure guarda me ne sto seduto qui a guardare le nuvole di gamberi sapendo che mi pizzicheranno la lingua un po' come certe patatine industriali che le metti in bocca e sono così fritte e asciutte che ti strappano fuori i liquidi dalla lingua te la strizzano per non parlare del saké il liquido trasparente in una brocca che sembra un vaso per i fiori in miniatura che cosa c'entra il saké con la cina non è giapponese il saké pensavo che fosse giapponese il saké pensavo che i cinesi bevessero birra di riso a temperatura ambiente e invece c'è il saké tenuto in caldo dentro una bacinella di acqua bollente e non sa di niente il saké cinese sa di acqua profumata sa di cura omeopatica eppure guarda me ne sto seduto composto e sorrido al cinese che mi sta raccontando una vicenda triste senza motivo sono molto preoccupato di non capire per quale motivo mi sta raccontando una vicenda triste e continui a far gesti ai camerieri perché mi venga portata roba da bere e da mangiare come se io potessi mangiare e bere mentre lui se ne sta lì in piedi impalato a raccontarmi una vicenda triste in cinese che nemmeno lo capisco io il cinese nemmeno mi piace il suono della lingua cinese con tutti quei piccoli sbuffi e i sibili e le vocali strillate e quelle combinazioni gutturali da tedesco evirato però mi dispiace molto perché capisco che il cinese si sta aprendo con me per mettermi al corrente di una vicenda triste che vuole condividere il suo dolore ha messo da parte la dignitosa riservatezza di cui va fiera la sua stirpe per mostrare che mi tiene in altissima considerazione e forse dovrei sentirmi onorato come si fa in estremo oriente dove ci si ficca le mani dentro alle maniche e ci si inchina con un sorrisino che non vuol dire niente è un sorriso prefabbricato che sta bene su tutto è la gentilezza personificata è la proverbiale cortesia è l'eccezionale attitudine al rispetto delle regole di comportamento sviluppate nel corso dei millenni da una civiltà che a me non piace nemmeno sorridere quando sono divertito mi costa uno sforzo non è colpa mia non faccio apposta è che non sono cinese non so perché mi trovo qui sarà la globalizzazione eppure guarda me ne sto seduto qui tranquillo e beneducato ascolto la vicenda triste del cinese mentre mi riempiono di riso alla cantonese e spezzatino indefinibile e improbabili ravioli alla pinna di squalo e tutto emana colori e profumi cinesi che non mi piacciono guarda me ne sto qui senza avere idea di cosa sta dicendo il cinese anche se c'è da scommettere che sia una vicenda triste lo capisco che è una vicenda triste per via che tiene la voce bassa e guarda per terra e vorrei tanto essergli utile sapere cosa vuole da me cosa devo fare per potermi alzare per potermene andare perché secondo me si sta confondendo mi ha scambiato con un'altra persona è comprensibile per noi i cinesi sono tutti uguali e viceversa per loro noi abbiamo tutti la stessa faccia però davvero amico cinese ascolta ti dico che non c'entro a me neanche piace la cina ho visto dei film sulla cina ho visto dei documentari ho letto dei libri e non mi attira non posso farci niente di sicuro non sono io la persona che stai cercando la cina a me sembra un posto molto opprimente e affollato e incasinato e mi hanno detto che i cinesi scatarrano per la strada che è normale tirare su col naso e scatarrare per la strada mentre da noi non si fa più dal secolo scorso abbiamo messo dei cartelli sui mezzi pubblici che lo vietano amico mio cinese non so cosa vuoi da me non ti capisco ma noi abbiamo risolto il problema dello scatarramento libero mettendo dei cartelli dove c'è scritto vietato sputare per terra e man mano abbiamo tolto le sputacchiere fino a quando gli italiani hanno imparato a deglutire il proprio catarro o a sputarlo di nascosto dentro a un fazzoletto come si dice fazzoletto in cinese per cui non so cosa ti è successo di preciso amico cinese non so perché sei triste cosa ti è successo ma forse dovresti scrivere dei divieti non so cosa dirti amico cinese non ti capisco e la cina non mi piace anche se non ci sono mai stato mi hanno riferito ora non so quanto ci sia di vero ma mi hanno detto pure che in cina le


venerdì 13 gennaio 2012

Rango

Posticipo le due chiacchiere che voglio fare su Rango perché è un film che non ha ancora smesso di stimolarmi delle riflessioni. Non ha fatto clamore perché i demoni del marketing non vanno in sollucchero per un produttore che è Nickeodeon (snobbabile sia per via dell'origine del termine, cinema a basso costo per la plebaglia, sia perché adesso è un canale televisivo per bambini, in Italia immanicato con Mtv e Telecom Media), anche se il regista è quello di The Ring e di Pirati dei Caraibi e il protagonista viene doppiato da Jonny Depp. C'è tutto un sistema che fa in modo di inculcare nella testolina consumatrice del target pubblicitario un giudizio preventivo sul prodotto, in modo che voi andiate al cinema già ipergasati e ne usciate convinti di aver speso bene tempo e denaro anche se vi siete sorbiti una porcheria (vale sia per i film di autori, attori, registi di culto che per produzioni sontuose che possiedono quantità immani di risorse da spalmare anche nella promozione, e vale anche per altri prodotti, in linea di massima tutti quelli che comprate soprattutto per sentirvi parte di qualcosa di più grande di voi o almeno non esclusi). Rango è uno di quei film che competono pur sapendo di perdere in partenza, come quegli artisti, scrittori attori musicisti, che sanno di essere bravi ma non riescono non dico a diventare famosi ma nemmeno a essere riconosciuti come tali, gente che per frustrazione o protesta, gente che non riesce a gestire e accettare l'intrinseca stortura del mondo e per rifiuto disperato o per tentare il tutto per tutto gioca la carta suicidio. In quest'ottica Rango è un film che parla anche di se stesso: meriterebbe ma sa che il sistema non è progettato per riconoscere i meriti ma per costruire prodotti e spendere in pubblicità al fine di recuperare più soldi di quanti se ne sono spesi. La grande razionalità del mondo in fondo sta solo nell'aumentare i capi del gregge, non perdere il raccolto, garantire la sopravvivenza. E dove meglio che nel deserto del Nevada all'epoca dei pionieri americani, si può parlare di sopravvivenza? Con chi meglio di un animale domestico la cui gabbia va in frantumi, si può parlare di sopravvivenza?

Rango non è Pixar, scampata alla morte finanziaria grazie alle iniezioni di soldi della Disney, che se l'è comprata e l'ha inserita nel suo portafoglio soffocandola pian piano come una qualsiasi madre castrante d'amore (si noti film dopo film la progressione di un abbraccio che a forza di affetto e paroline dolci ha trasformato una società libera e indipendente in un dipartimento conforme e disciplinato). Rango non è Dreamworks, che il cervellino del cliente inizia a spurgare dopamina appena vede il suo bimbo ombra che pesca seduto sullo spicchio di luna. Finalmente si sta formando una vera e propria corrente di studio nel campo della sociologia che si interessa del potere mediatico come strumento di attuazione delle ideologie totalitarie, e il consumismo organizzato e sviluppato in forme sociali complesse (la parte economica diventa un sottoprodotto, un elemento di scarto) è un'ideologia. Rango dovrebbe dunque essere vissuto, come esperienza di consumo, alla stregua di un film polacco fatto in timelapse con la plastilina, un film francese con le sue belle tematiche da ricco filantropo in cerca di autoassoluzione mediante la denuncia in chiave artistica e lo schierarsi cavalleresco dalla parte di tutto ciò che lui stesso non è: povero, malato, pazzo, prigioniero, selvaggio, e via grandeureggiando. Rango dovrebbe al massimo apparirci come il film rivelazione di un qualche autore slavo mal sottotitolato che dopo di questo, ahimé, purtroppo, mettiamoci la faccia da lutto della delusione preventiva, non farà più niente di interessante. Rango dovremmo dire ci porto i bambini, l'ho scelto solo perché non c'è niente di meglio, dovrebbero far pagare meno per film che non danno alcuna garanzia e vengono fuori solo perché siamo una società ricca che può permettersi di finanziare e dare una possibilità anche a chi è destinato al fallimento (come dice Jack la mia vita non è stata un pick-o nick-o al pupazzo di pinocchio), perché stiamo parlando della sostanza del sogno americano, la felicità è a portata di mano di chiunque, realizza i tuoi sogni, fai diventare realtà i tuoi desideri, in questa immensa favola targata Disney Coca Cola e US Marine Corps.

Anche qui in Italia, un piccolo paese mezzo cattolico e mezzo comunista, c'è una parte di popolazione che mentalmente risiede entro i confini dell'impero ricco e occidentale, gente che ne possiede la cittadinanza culturale e ne sta vivendo i sintomi intellettuali della decadenza. Gli Stati emergenti, popolosi e affamati, sono per noi abitanti dell'impero americusso o russericano, quello che i barbari furono per i romani. Rango è anche quello, una manuale illustrato per riconoscere le fasi di passaggio, come quella che trasforma i villaggi con lo sceriffo e i pozzi asciutti in quartieri suburbani dormitorio a venti minuti di treno dalla metropoli. Rango è il pessimismo cinico dei media, il giornalismo spettacolo dei gufi messicani sempre pronti a prevedere il peggio, a compiangere per primi in diretta l'ormai quasi certo futuro moribondo, restate collegati vi forniremo ulteriori drammatici sviluppi dopo una brevissima pausa (come l'intervista Batonga Batonga di Natural Born Killers). Rango è un film enorme, non riuscirò mai a parlarne in modo compiuto senza riempire pagine e pagine. Niente sembra lasciato al caso, in Rango, dal camaleonte come animale totemico dell'attore, camaleonte che entra in crisi di identità per la solitudine forzata ma lussuosa di una società che non è più nemmeno post-moderna ma non sappiamo ancora il nome con cui verrà definita dagli studiosi quando sarà una civiltà (finalmente, l'agonia è straziante) tramontata. La musica, dalla cavalcata delle valchirie remix alle armoniche a bocca degli spaghetti western con Bronson Nessuno che vendica il padre, ai sombreri delle chitarre messicane. E poi la chiusura delle comunità isolate, sia mentale che fisica, per sofferenze che impongono una selezione continua e una forte motivazione e un credo condiviso per la semplice, rieccoci, sopravvivenza come gruppo, dove chi si isola diventa un teschio che brucia al sole in mezzo a una distesa sterile e indifferente (altra metafora sociologica così attuale). Rango è un film western (è un genere che non va per la maggiore, non ci sono alieni blu che fanno sesso in 3D unendo le trecce, non ci sono intere città che esplodono in un'orgia di effetti digitali, non ci sono persone che corrono inseguite in macchina dalla polizia per un reato che non hanno commesso). Rango è un film di animazione (animali parlanti, canzoncine, lieto fine, se si viene a sapere in giro che guardi roba del genere la tua reputazione di hippie gangster sciupafemmine 'oh yeah dammi il cinque baby va' che cannone ma scansati', verrà irrecuperabilmente danneggiata).

Rango parla della necessità di trovare l'altro per dare solidità a se stessi, per diventare concreti, acquistare peso e dimensione, mantenere fede agli impegni fino, se necessario, al sacrificio personale, diventare reali (realizzarsi), prendere su se stessi, accettare che siamo dei pesciolini a molla gettati via, nel caso specifico, e attraversare la strada trafficata per incontrare lo spirito del deserto: una follia, un'assurdità. La parte mistica del film è difficile da digerire per un adulto, ma per un bambino è normale che i cactus, la natura personificata, mostrino all'eroe la strada per capire il mondo, che ogni enigma si sveli, e i piani di un sindaco falso e crudele saltino di fronte alla verità e il pistolero con cui è sceso a patti gli si rivolti contro. L'insegnamento morale in Rango viene miscelato dentro a una narrazione che stempera l'approccio educativo tipico della pedagogia che si impone senza zone d'ombra, snocciolando postulati. Rango rispetta quella che in fondo è la tipica filosofia morale del protestantesimo che si lascia ammorbidire dalla durezza del far west, fatto di un territorio che non ama e non vuole essere amato, così impermeabile al concetto di immanenza benevola spinoziana o di provvidenza e giardino dell'eden tanto caro al mito dell'esplorazione post-illuminista, il deserto come un luogo che non permette fino in fondo il radicarsi del determinismo e della predestinazione ma che è forgia di nuove consapevolezze, distillatore di pensieri notturni alla Chopen, romantici di un solipsismo vertiginoso, che mettono a nudo l'origine del malessere oscuro e profondo che prova l'uomo del 2000 nel momento in cui andasse via la corrente, perché noi viviamo ignorando volontariamente il fatto che l'artificialità del nostro mondo è fragile e provvisoria, che basta vada via la corrente, finisca il carburante, per gettarci in un panico emergenziale, legato alla vera e propria sopravvivenza dell'individuo prima che della famiglia della comunità del popolo dell'umanità (mi viene in mente La strada di McCharty, ma sono molti gli esempi di catastrofismo, molte fiction ma anche previsioni scientifiche), che nessun romanticismo potrebbe mai aiutarci a sopportare. Noi stiamo ignorando l'elefante nella stanza, questo ci dice Rango, non perché preferiamo così ma perché non abbiamo scelta. Noi facciamo la vita di un animaletto in cattività e siamo contenti così, non vogliamo essere criticati per questo, non abbiamo nessuna intenzione di sentirci in colpa perché è un nostro diritto, abbiamo diritto a questo e a quello, così ci ripetono da decenni i politici, voi avete diritto!, e invece quell'altra cosa lì, non spetta a me, non è dovere mio, al massimo ti mando un sms per versare due euro sul conto corrente e aiutarti da lontano. Nel far west non lo puoi fare, non è così che si fa, nel buon vecchio west, magari ti sparano come a un cavallo zoppo, ma non ti prendono in giro.


martedì 10 gennaio 2012

Tutta colpa di Roddenberry

Il signor Spock durante le pause fra un ciak e l'altro ride, prova le emozioni, dice al capitano Kirk - Non ci posso credere -, e giù a ridere, dice - Amico mio la gente si beve le nostre stronzate, ho dei fans che indossano pigiamini come i nostri e mi scrivono delle lettere -, dice così, il signor Spock, mentre il regista parlotta con il responsabile delle luci, si accerta che non venga inquadrata la giraffa, mentre il tenente Uhura, colei che settimana prossima darà il primo bacio interrazziale nella storia della televisione, ne approfitta per andare in bagno.
Siamo sul set da ore, fa molto caldo, non serve nemmeno utilizzare gli spruzzatori per inumidire il volto degli attori, siamo sul ponte di comando dell'astronave Enterprise e il capitano Kirk inizia pure lui a ridere, per via della faccia di Spock, non gli è mai sembrata così bizzarra, non ha mai notato prima certi angoli, certe linee, non ha mai notato prima la cadenza che assume a volte la risata di Spock è la tipica risata contagiosa che si sviluppa sul set, gli attori la temono moltissimo. A questo punto Spock si arrende, singhiozza, tossisce, fa un gesto diretto alla troupe che significa tutto in malora, pausa, time out, e abbraccia forte il capitano Kirk, il quale ricambia, i muscoli del capitano Kirk strappano il fiato al signor Spock e i due si commuovono.
Vengono giù lacrime vere che fanno imprecare il dottor McCoy, - Stupide mammolette -, perché è  stufo di perdere tempo, quei due non fanno altro che rallentare le riprese, si è lamentato più volte, anche a voce alta, senza ottenere attenzione, per cui quando arriva sul set, con in mano la seconda tazza di caffè del giorno, e li vede che si abbracciano in lacrime il dottor McCoy si gira istintivamente verso la telecamera, convinto di aver rovinato la scena, e quando vede che non c'è neanche l'operatore si arrabbia e dice - Stupide mammolette.
Con grandi respiri si gode gli ultimi rantoli, piegato in avanti per i capogiri, con le mani sulle ginocchia, il signor Spock dice - Siamo fortunati a poter fare questa vita -, e con la mano accarezza i mobili della plancia di comando, la finta pelle della poltrona girevole, le lucine a intermittenza di plastica colorata, e Kirk si sente opprimere dal silenzio e dice - Saremo amici per sempre.
Anche adesso, che sono passati anni, Kirk telefona ogni tanto al signor Spock. È sempre Kirk a sollevare la cornetta e fare il numero con la speranza di non sentirsi chiamare ammiraglio, perché Spock non ci sta più con la testa da quando è tornato indietro nel tempo per aiutare se stesso. Spock non telefona mai, non risponde nemmeno al telefono, e quando qualche inserviente gli porge il ricevitore la prima cosa che dice al suono della voce del suo amico Kirk è ammiraglio, come se non gli interessasse una conversazione al di fuori dei canali diplomatici. Kirk dice - sono io, Spock, sono io, Kirk, siamo amici, ricordi, non devi chiamarmi ammiraglio -, ogni volta lo stesso scambio di battute, come fosse un copione. Poi Kirk dice - Come stai? - e Spock non risponde.
Stanno zitti, non sanno cosa dirsi, stanno al telefono senza parlare a volte anche per decine di minuti, fino a quando Kirk dice - Bene -, dice - Allora niente, ci sentiamo -, dice - Ti saluto, Spock, ti richiamo venerdì prossimo -, e quando preme il bottone che chiude il contatto rimane a fissarsi le mani, prova a stringere forte i pugni, cerca di far succedere qualcosa per non pensare alla frase del progetto genesi, dove Spock prima di immolarsi, dice - Il bene di molti supera il bene di uno -. Kirk si guarda le mani e non ce la fa più e allora si alza, si mette a cantare, si mette a ballare, fino a quando è così stanco da non reggersi in piedi.