Anche questo un film che parla di religione, anche questo non l'ho trovato da solo, stavolta ho visto una locandina sul blog di Koch. Valhalla Rising parla di Oneeye, Unocchio, per via che una ferita lo ha reso guercio, è una delle tante letture possibili di questo film poliedrico: in un mondo di ciechi il guercio è re. Un film così teatrale, pieno di rimandi, citazioni, simbolismi, che non si può parlarne senza la certezza di tentare esposizioni comunque incomplete e frammentarie. Uno di quei film che ti fa desiderare di aver studiato di più per capirne di più. La storia è divisa in sei capitoli: ira, il guerriero silenzioso, gli uomini di dio, la terra santa, inferno, il sacrificio. Oneeye non parla mai, forse è muto, e ciò concorre a rendere al sua figura ancora più fantasmagorica, eterea, onirica. Il suo interprete è un bambino biondo che fa da tramite e oracolo, parla in vece di Oneeye, si fa portavoce tentando di indovinarne il pensiero, o forse gli legge nella mente. Questo dualismo vecchio-bambino è il fulcro del film, un rapporto simbiotico a più livelli, il bambino riceve guida e protezione, il vecchio riceve fiducia e conforto in gesti unici che solo il bambino si permette: un po' di cibo, il coraggio di entrare nella sua gabbia per aiutare i carcerieri a incatenarlo al muro. È un film commovente in un mondo dove la commozione non è capita, non è concessa: siamo in un qualche secolo buio, selvaggio, dove le menti degli uomini si dimostrano inadatte a contenere un pensiero evoluto, a un certo punto il cervello umano si ferma, non può capire oltre, prende fuoco, perde il senno, come se le menti umane fossero difettose, costruite male, nate per incepparsi strada facendo più e più volte inseguendo il miraggio di una totale, esaustiva, comprensione. Lo stesso mondo di mille anni prima e di mille anni dopo, che dopo i titoli di coda esci di casa e ti accorgi che non è cambiato niente, che questa storia non è contestualizzabile in un esclusivo e determinato periodo storico.
La storia di Oneeye è una storia di progressivo, faticoso, sofferto ritorno in se stessi, un ritrovare l'umanità perduta, un motivo per riconoscere la necessità di un sentimento altruista. Oneeye non ha più niente dentro di sé che non sia odio. Lo incontriamo in qualche regione dell'antico nord europa, un'oasi di relativa pace, lontano da centri di potere dove gli eserciti si fronteggiano e viene forgiata la cultura nelle università, Oneeye è un prigioniero utilizzato per combattimenti all'ultimo sangue dove primitivi capiclan scommettono sul vincitore. Strappa la giugulare a morsi, usa pietre per sfondare i crani, estrae le budella dai ventri delle persone come se fossero una preda di caccia da mettere sullo spiedo per cena. Oneeye non è un uomo, se mai lo è stato ora non lo è più, è solo un corpo privo di volontà propria, uno strumento nelle mani del caso, si direbbe, e invece no, è guidato dalle visioni, gli appaiono in sogno squarci di futuro, rivelazioni semplici, di poco conto, sul suo prossimo futuro: troverai una punta di freccia sott'acqua, vedrai l'oceano, dovrai compiere una scelta su te stesso. Nonostante lui abbia deciso di rifiutare la sua umanità per motivi che non ci vengono rivelati nel film (è anche possibile che per l'autore sia nato così), Oneeye non viene abbandonato, non diventa l'animale cui tende con tutto se stesso, al punto di non riconoscere come odio ma come naturalezza quella pulsione omicida e distruttiva che lo anima, al di là del bene e del male, di qualunque giudizio morale. Oneeye però si lascia guidare dalle visioni, le visioni sono degne di fiducia perché gli mostrano il vero, è questo il filo invisibile che lo rende protagonista di una necessità narrativa che è al di sopra di lui, e di noi, gli viene chiesto di farsi carico delle esigenze della sua storia personale quando si intreccia a quelle altrui, nel caso specifico con quella del bambino che diventa lo scopo, il fine dell'esistenza di Oneeye nel momento di apertura verso il genere umano nella persona concreta di questo ragazzino impaurito e solo, momento in cui Oneeye accetta di essere responsabile per qualcuno che non sia se stesso.
Si può ipotizzare che esista un debito di riconoscenza nei confronti del bambino, non in astratto, materialmente, perché era il bambino a portargli materialmente il cibo, a guardarlo come se gli importasse qualcosa, ma possiamo anche ipotizzare l'opposto: che si sia affezionato come farebbe un cane al cucciolo di un'altra specie, a chi non l'ha mai bastonato. Se Oneeye è l'estremo del distacco dall'uomo, il bambino è il non essere ancora uomo, la loro estraneità alla norma è ciò che li unisce e li accomuna. Sono entrambi esclusi dalla razionalizzazione adulta del mondo, con i suoi riti e le sue credenze, le regole, chi le decide e chi le fa applicare, i rapporti di parentela e le relazioni formali. Oneeye e il bambino sono liberi, due espressioni della stessa estraneità sociale che si fa parabola, si presta a un speculazione sulla permanenza di caratteristiche fondamentali inerenti la vita umana. Il richiamo a demone e angelo viene spontaneo in riferimento ai due fenomeni sopra descritti ma sarebbero citazioni a sproposito, pacchiane e riduttive, frutto di teologie romantiche. Sono però entrambi sono fuori dal consesso umano fatto di ruoli: mercanti, sacerdoti, guerrieri, uomini comunque insoddisfatti, alla ricerca di divinità percepibili coi sensi, miracoli e paradisi terreni, nel caso specifico la terra santa, Gerusalemme, latte e miele, grandi vittorie e ricchezze, il perdono di ogni cattiva azione, la fine del dolore, il ricongiungimento coi i cari estinti. Qui si pone la frattura insanabile fra il duo bambino/Oneeye e il resto degli uomini: entrambi sono immuni dal senso di colpa che scaturisce da bisogni meschini e degradanti che loro due non hanno: successo, gloria, ricchezza, mogli. Il bambino/Oneeye non sono innocenti ma non subiscono il fascino di uno scopo terreno. Non hanno un posto dove andare, non hanno qualcosa di importante da portare a termine, non hanno una missione da compiere in nome di alcun dio, che sia una divinità nordica o il dio cristiano. Sono liberi, non sono imputabili, non possono essere ritenuti responsabili da altri uomini di quello che fanno o non fanno, non riescono a ritenersi responsabili nemmeno verso loro stessi, uno è ancora troppo giovane per riuscire a capire cosa è giusto e cosa no, e perché, e per chi, l'altro ha smesso di pensarci, sa mai ci ha pensato.
Valhalla Rising parte da qui e racconta del miracolo dell'acqua dolce che mantiene in vita i naufraghi contrapposto alla droga nel vino della messa che tira fuori la debolezza di chi confidava nelle proprie forze, la purezza di una fede che non viene usata come un martello nelle mani di un ubriaco che va alla ricerca di qualsiasi cosa gli sembri un chiodo. È un film che si presta a stupide considerazioni anticlericali, c'è sempre qualche imbecille pronto a sfogare personali frustrazioni contro simboli che gli ricordano conflitti irrisolti da età puberale. È un film con poca musica, c'è solo il pulsare di cannoni lontani o di un cuore immenso che accelera il battito, solo nel finale, il capitolo sacrificio, arriva della musica. Stiamo parlando di una pellicola di grandissimo spessore intellettuale, il tema della cultura-religione nelle mani di chi non la sa usare, di chi la sfrutta per perseguire i propri fini con altri mezzi, per dare giustificazioni morali o scientifiche a decisioni discutibili, per sostenere la necessità di azioni che sono invece facoltative, perché cultura e religione spesso coincidono, alla fine si tratta sempre di stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato, e ci sono cose sbagliate anche se scientificamente corrette (ci sono parecchi esempi di dilemmi morali per cui la scienza deve rimettersi a decisioni politiche per stabilire cosa è moralmente giusto fare e cosa no). Cultura e religione erano la stessa cosa soprattutto nel passato, quando non vi era scissione interamente dovuta a questioni metodologiche, fra materie umanistiche e materie scientifiche, con successivo disprezzo per le prime e rispetto per le seconde. La prevalenza della stupidità umana o l'insufficienza delle capacità umane, nel film è evidente la tesi dell'incomunicabilità fra il divino e l'umano, se non sotto forma di piccole visioni nella mente di uno sconvolto al limite della bestialità, la stessa bestialità che in altri apre la porta alla più gretta e meschina natura, fatta di istinti egoistici e innumerevoli paure fra le quali non compare la morte come terrore dell'ignoto ma solo come desiderio di restare in vita. La tesi di un'umanità impermeabile al messaggio cristiano per cause indipendenti da tutto e da tutti, non c'è nel film un rimprovero al divino e neppure un'accusa all'avversario che personifica il male, c'è semmai una dichiarazione di fallimento generale dell'uomo quando prova a razionalizzare il religioso dimenticando che la chiave di accesso passa unicamente attraverso il sacrificio personale.
La libertà di Oneeye che viene scambiata con la possibilità di essere riportato indietro, lentamente, di tornare in sé, con pazienza, trovare nel mondo una mano tesa da afferrare, senza forzature, da una distanza infinita Oneeye viene portato così vicino all'uomo da provocare un contatto (è l'unico momento del film in cui Oneeye tocca qualcuno senza fargli male), la scelta dell'annullamento di sé in favore dell'altro, dove il riferimento al significato profondo dell'esistenza, in questa prospettiva, non risiede certo entro i confini di un sistema di coordinate logiche, nelle cifre ordinate e in bella calligrafia sulla pagina di un quaderno a quadretti (e lo dico da estimatore della matematica).