venerdì 18 dicembre 2009

The last word



The last word, un film che in Italia non è arrivato, parla dell'antagonismo fra vita e scrittura.

Il protagonista, Bentley, nel suo tormentato percorso esistenziale trova appiglio di sopravvivenza nella sua passione per la scrittura. Non cerca successo, scrivere è per lui solo un espediente per sbarcare il lunario. Scrive per gli altri nel vero senso della parola, scrive su commissione e cede tutti i diritti del prodotto all'acquirente.

Non ha amici, non ha relazioni sociali, non ha parenti. Quando una donna entra di prepotenza nella sua vita viene sconvolto il delicato equilibrio di chi per molto tempo si è adeguato alla solitudine e si trova di colpo a dover affrontare la necessità di estroversione, coraggio e fiducia negli altri che uno stile di vita considerato più normale comporta.

Bentley ha iniziato scrivendo composizioni da leggere in pubblico nelle occasioni speciali: compleanni, matrimoni, bar mitzvah, e si è specializzato in discorsi funebri. Scrive per chi vuole lasciare un testo che lo rappresenti, da leggersi al proprio funerale. Per poter scrivere le ultime parole del cliente, Bentley lo frequenta, lo indaga, gli prende le misure proprio come farebbe un becchino per costruire la bara. È così professionale da partecipare al funerale per registrare le reazioni dei presenti e potersi formare un giudizio sulla qualità del lavoro eseguito. È bravo, una sua composizione ha fatto vincere un premio a uno dei suoi clienti e ciò non ha incrinato la sua professionalità, è rimasto nell'anonimato lasciando che il cliente mantenesse la paternità del testo.

Trovo che l'idea di fondo sia geniale ma il film si preoccupa di spiegare la metamorfosi causata dall'amore più che sottolineare la grandezza poetica del protagonista. Avrei preferito una scelta più intellettuale, immune al richiamo degli archetipi romantici così spesso utilizzati per dare uno smalto educativo alle pellicole. Il ritorno alla normalità dell'artista può essere visto come il trionfo dell'amore, panacea ai malesseri interiori, ma in questo caso sembra piuttosto l'assimilare l'arte a una disfunzione dell'organismo che impedisce all'uomo di sbocciare alla comprensione, di entrare nella realtà. Come se il senso dell'arte fosse quello di supplire a esigenze ancora inesplorate, un espediente per emettere gridi di aiuto impliciti e sublimati.

La donna che incontra è Ryder, la sorella di un cliente che lo abborda proprio durante il funerale. Deve mentire sui motivi che lo hanno spinto a presenziare alla cerimonia e questa bugia mina le fondamenta del rapporto sentimentale che verrà a crearsi. La rottura di questa relazione segnerà anche la rottura con lo scrivere e Bentley diventerà una persona “normale”. Avrei preferito che Bentley fosse rimasto una persona atipica, schiavo del suo modo di essere, della sua musa. Ma non riesco a dire quale dei due finali sarebbe il più aderente alla realtà perché in fondo i riti di passaggio molto spesso sono scelte obbligate e di solito non conducono a percorsi in salita senza chiedere un pedaggio molto oneroso in termini di benessere spirituale.


martedì 15 dicembre 2009

Regole.



C'era una volta un bambino che non seguiva le istruzioni. Tutti pensavano che non fosse capace di fare le cose come andavano fatte e provavano pena per lui.

“Poveretto”, dicevano i suoi amici, “Lennie non sa giocare secondo le regole.”

Così non lo invitavano a giocare e lo lasciavano da solo a guardare. Gli dicevano “Mettiti qui seduto e guarda, Lennie, così impari cosa si può fare e cosa no.”

Bisogna dire che lui ci provava a memorizzare le regole, anzi, se gliele chiedevi lui te le diceva, le elencava perfettamente, citando anche le regole più piccole e nascoste del gioco. Però quando era il momento di far seguire i fatti alle parole ecco che Lennie si metteva a fare di testa sua e reinventava i giochi.

Per esempio si stava giocando tutti insieme alle costruzioni, un modello difficile, pieno di ingranaggi e perni e levette delicate. Avevamo steso per terra il foglio con le istruzioni, che andavano dalla numero uno alla numero dieci. Avevamo messo bene in ordine i pezzi, così da averli pronti quando era il momento di usarli. Dopo un po' non scopriamo che Lennie stava costruendo tutta un'altra cosa? Diversa, con delle ruote attaccate in posti strani, con un insieme di pezzi che sembravano guardarti e sorridere.

“Non si fa così!”, ha gridato Marco, “Lennie, tu sei strano!”, ha aggiunto. Poi gli ha strappato i pezzi di mano e li ha rimessi in ordine per terra, davanti al foglio con le istruzioni. Lennie ha chiesto scusa e si è messo a guardare come facevamo noi, senza più toccare neanche un pezzo, mentre noi gli spiegavamo a parole le varie fasi, così la prossima volta avrebbe potuto giocare anche lui. A un certo punto si è alzato e si è messo a disegnare.

“Vieni qua, Lennie, altrimenti non capirai mai come si fa a seguire le istruzioni!”, l'ha sgridato Marco.

“No, andate avanti a lavorare senza di me.”

Abbiamo riso di lui ma quando sono tornato a casa mi sono tornate in mente le sue parole, aveva detto lavorare, non giocare. Ci ho pensato molto quella sera, ci stavo ancora pensando quando mi sono addormentato. Forse però avevo trovato una soluzione.

Il giorno dopo ho raccontato a Marco la mia idea e lui ha voluto scommettere contro di me che non avrebbe funzionato. Ho accettato la scommessa: due biglie di marmo e un ghiacciolo. Ho chiamato Lennie e gli ho detto “Oggi giochiamo a lavorare, ci stai?” Lui è rimasto un po' stupito, di solito deve insistere prima che gli permettiamo di giocare con noi, però ha detto sì.

Abbiamo tirato fuori di nuovo le costruzioni e stavolta Lennie seguiva le istruzioni! “Stai lavorando molto bene”, ho detto, e subito Marco mi ha riso in faccia. “Solo un tipo strano come Lennie può credere che questo sia un lavoro.” Al che tutti quanti si sono messi a protestare.

“Se è un lavoro allora io non gioco più!”, ha detto Dario.

“Ci devono dare dei soldi, altrimenti non è un lavoro!”, ha detto Fabio.

Non sapevo come reagire. Avevano ragione, in un certo senso, ma anche Lennie aveva ragione secondo me, perché se non puoi fare come vuoi allora devi fare come vuole qualcun altro e in pratica stai lavorando per lui. Ma come si fa a giocare senza regole, qualche regola ci deve pur essere.
“Lennie”, ho detto, “Come fai a giocare senza le istruzioni?”

“Le invento”, mi ha risposto.

“Ma non puoi!”, ha detto Marco.

“Qualcuno le deve pur inventare”, ha risposto Lennie, “Non vengono fuori da sole, le regole.”

Da quel giorno non dobbiamo soltanto scegliere a cosa giocare, ma anche se dare retta alle istruzioni o inventarcele. Marco e Lennie alla fine sono diventati ottimi amici e a volte discutono per ore sul perché una certa regola va bene oppure no.

E io ho vinto due biglie di marmo e un ghiacciolo.

lunedì 14 dicembre 2009

↑x8 (7\n)



L'altro giorno è esploso un condensatore, è stato come un colpo di tosse elettronico e l'alimentatore ha smesso di alimentare. L'ho aperto e c'era questo cilindretto di plastica con il coperchio aperto come un fiore, tre petali di alluminio annerito, e si vedeva qualcosa dentro, nel buio, della roba densa. Ho guardato per un po', aspettandomi che qualcosa si muovesse lì dentro, che ne uscisse qualcosa, ho battuto col la punta di una matita sui bordi del cilindretto e ho sentito l'impulso di chiudere il coperchio e uscire di casa.

Il sabato c'è molta gente in giro. Questo in particolare era la vigilia di Santa Lucia e c'era Santa Lucia, in centro, su un carretto trainato da un pony color panna, vestita di azzurro. Mi è sembrata infreddolita, mi è sembrata scocciata. Mi è venuto da chiederle se potevo fare qualcosa per lei, scacciare i passanti armati di macchinette digitali, recuperare una bevanda calda. Santa Lucia aveva un cestino pieno di caramelle accanto a sé, distribuiva manciate di caramelle, mi è sembrata a disagio. Ho pensato alla ricca siracusana che ha rifiutato il matrimonio e ha speso la sua dote per sfamare, lanterna in mano, sconosciuti rintanati nelle catacombe. Pare che fosse riuscita a diventare così pesante che nessuno riuscì a sollevarla da terra quando vennero a prenderla per giustiziarla. Neanche usando un tiro di buoi riuscirono a smuoverla. Cosa si prova, mi sono chiesto, a diventare così pesante. Se capitasse a me, come reagirei? Mi sentirei così sicuro da incitare i buoi o sarei sbalordito io stesso o ancora avrei paura? Se l'effetto cessa di colpo verrò proiettato in avanti come un ciottolo scagliato da una fionda, probabilmente è questo che penserei, vincolato alla fede cieca nelle leggi della fisica. Santa Lucia si sforzava di resistere alla forza esercitata dai buoi o non la percepiva nemmeno? Mi immagino questa Santa Lucia, questa sul carretto trainato dal pony, che d'un tratto diventa inamovibile. La gente come reagirebbe? Lei come reagirebbe? Arriverebbero i giornalisti? Allungo la mano per ricevere anch'io delle caramelle ma Santa Lucia me la stringe, imbarazzata, come se ci stessimo presentando, e io per un momento mi sento pesante, inamovibile, e penso che essere Santa Lucia sia una cosa da evitare.

Più avanti c'è l'uomo bruco. Ha quattro guanti bianchi e quattro scarpe blu. Sponsorizza un conto bancario da regalare per Natale. Invita i bambini a sedersi lì vicino, dove un signore anziano produce caricature a pennarello. L'uomo bruco non parla, fa carezze sulla testa dei bambini – quelli che non hanno paura anche solo di avvicinarlo – con una delle due mani destre. I piedi supplementari dondolano mollemente, attaccati sotto la coda che struscia per terra, raccogliendo sporcizia. La testa è rotonda, con tanto di antenne e occhi enormi. Vorrei che l'uomo anziano, col cappotto, il baschetto e le gambe accavallate mi facesse una caricatura, vorrei una carezza dall'uomo bruco. Vorrei dirgli qualcosa, come se fossimo amici, vorrei dirgli sai amico stamattina è esploso un condensatore. E lui mi chiederebbe i particolari, vorrebbe sapere tutto, cercherebbe di farmi descrivere l'odore che ha fatto quando ha condensato superando i suoi limiti fisici, cercando di diventare pesante, forse, e questo lo direbbe l'uomo bruco, direbbe succede quando i condensatori cercano di diventare pesanti, e io gli darei del genio, lo inviterei a bere un caffè perché sono molto curioso di sapere come la pensa su molte cose, e tirerei fuori di tasca l'elenco delle cose di cui parlo, la lista apparsa per miracolo nella mia tasca sul retro della caricatura che non mi faranno, assieme a qualche caramella.

Mi fermo, fingo di guardare il disegnatore che muove il pennarello. Voglio assistere all'evento: l'uomo bruco incontra Santa Lucia. Il pony emetterà dei versi quasi umani, sembrerà chiamare la mamma, i testimoni giureranno in seguito che il pony chiamava la mamma. Santa Lucia si scaglierà dal carretto come lanciata da una catapulta addosso all'uomo bruco e, in un groviglio di corpi, Santa Lucia strapperà un'antenna dalla testa rotonda dell'uomo bruco, il quale userà quattro mani e quattro piedi per toglierle di dosso l'azzurro. I passanti continueranno a scattare foto, vivendo l'esistenza attraverso l'obbiettivo, mentre io raccoglierei il pennarello del caricaturista stordito e mi metterei a fare schizzi su ogni superficie liscia a portata di mano.

venerdì 11 dicembre 2009

Formicolio.



Così, senza preavviso, lui prese coraggio e si voltò di scatto. Una mattina invernale come tante, la decadente struttura irrigidita dei rami spogli di un tiglio, nell'indecenza frattale di una giornata qualunque. Non tanto fredda, non tanto luminosa. Non tanto qualsiasi cosa, quella sensazione di mancanza pervasiva che ridimensiona e allontana le percezioni, spegne i sentimenti sul nascere e ti abbandona a te stesso. Allora batté i piedi e anche il rumore delle scarpe sull'asfalto gli suonò falsato, in ritardo, molle. Col passare del tempo, degli anni, anche battere i piedi aveva perso di efficacia nel rompere incantesimi. Non l'aveva mai confessato, il solo parlarne avrebbe compromesso l'essenza magica del gesto. Se pure avesse trovato il coraggio di esporsi al ridicolo, nessuno sarebbe stato disposto a credere nell'esistenza di George. Non sapeva quale fosse il suo vero nome, George era il nome con cui lo chiamava lui, il giorno in cui scoprì che poteva essere cacciato battendo i piedi per terra, uno per volta, come a scacciare un formicolio, riattivare la circolazione. Perché proprio quella era l'impressione che si riceveva quando George trovava un buco o solo un motivo per entrare, per venire a vedere, come sentisse l'odore di una persona temporaneamente vulnerabile e non perdesse l'occasione di approfittarne. Il mondo iniziava a formicolare come un piede sul quale si è rimasti troppo a tempo seduti. Diventava rigido, diventava pesante, si preparava al piacevole dolore di un risveglio nervoso. Quella mattina gli sembrava di sentirlo respirare dietro di sé e battere i piedi serviva solo a farlo respirare più piano, a farlo allontanare di un passo. Forse verrà il giorno, pensò, che non se ne andrà mai più, che batta i piedi o schiocchi le dita niente servirà a farlo svanire. Si incamminò guardando in terra, i cerchi neri di vecchie cicche da masticare buttate sul marciapiede fra le quali anche le sue, era in grado di riconoscerle, ad esempio quella vicino al tubo della grondaia di fianco al civico diciotto, gettata lì una sera di giugno trent'anni prima, un giorno che tutto gli era andato storto. Pisciate di cane, mozziconi di sigaretta. E George poco lontano, a seguirlo di soppiatto, nascondendosi dietro ripari di fortuna, come quel cestino dell'immondizia superato pochi passi prima. Immaginava il ghigno sul volto di George, i canini sporgenti, la peluria arruffata che sporgeva dal colletto aperto della camicia macchiata, e quel suo fastidioso, continuo annusare, arricciando il naso. Adesso mi giro, pensò, lo affronto, e succeda quel che deve succedere. Si sentiva così stanco. Avrebbe tanto voluto ricordare cosa fosse andato storto e come gettare una cicca per terra avesse potuto dargli conforto. Ma si rese conto di non esserne più capace. Eppure qualcosa sulla natura magica di certi sotterfugi gli era rimasta dentro, lo sapeva, non era tanto il gesto, quanto la predisposizione interiore, una forma di energia che George annusava così come si annusa una possibile fuga di gas, solo per accertarsi che il pericolo sia mero frutto di immaginazione e la paura ingiustificata.

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (19 di N)



Una delle cose che cambiano è che comincia a interessarti la società, il mondo in generale. Prima l'obiettivo era prendere, consumare: lo voglio usare tutto, anche la tua parte, e quello che avanza lo butto via perché mi devo vendicare di qualcosa che non so nemmeno io cos'è, forse il fatto di essere qua senza averlo chiesto, forse il fatto che sono arrabbiato e per dispetto lo rompo, solo perché me l'hai regalato e non è bello come mi aspettavo, forse perché lo fanno tutti e allora tanto vale, non rimarrà niente lo stesso. La filosofia del vincere solo perché qualcun altro perde, dell'essere i migliori solo perché c'è chi sta peggio, dell'andare a testa alta solo per distinguersi da chi non ne ha motivo, o magari non ne ha più voglia.

Pensavo questo ieri, mentre andavamo a comprare un regalo per mia moglie. Non c'è associazione tra cosa uno pensa e cosa sta facendo, almeno non nel mio caso. Qualcosa lavora in background e mi fa pensare quello che gli pare mentre io faccio altro, lo mette in un cassetto e quando vado a tirar fuori i calzini ce lo trovo dentro ed è come se mi ricordassi di averlo pensato. In realtà il programma a pieno schermo pensava a Babbo Natale e a non mollare la mano di mio figlio. Mollare la mano di un figlio in certe situazioni può provocare danni al cuore. Prima nei miei incubi poteva capitare di cadere nel vuoto, di venire ferito a morte da una persona che nella vita reale non mi ha mai nemmeno guardato storto, di finire schiacciato da una macchina movimento terra impazzita, cose del genere, che riguardavano me, però, solo me. Potevo ritrovarmi a correre in preda al panico negli anfratti bui delle rovine di una cascina o nei saloni di un albergo che esistono solo nel mio immaginario onirico. Ma erano tutti eventi che implicavano me e nessun altro.

Adesso negli incubi a me non succede più niente. Anche quando, per sbaglio, sta per succedere qualcosa a me, ecco che mi guardo intorno per assicurarmi che mio figlio sia al sicuro. Da quando è nato a mio figlio è successo di tutto, nei miei incubi. È annegato, spappolato, schiacciato da un auto, rapito per strada, rapito al supermercato, preso in ostaggio, si è rotto la testa, si è spezzato una gamba, gli è venuta una malattia spaventosa. È solo un elenco parziale e qualche accidente orribile è capitato più volte. Mentre negli incubi prima mi bastava svegliarmi, ora non posso più, è una via di uscita che si è chiusa, devo restare nell'incubo e sistemare le cose, non puoi andartene da un incubo quando la cose brutte stanno capitando a tuo figlio, devi rimanere, rincorrere il cattivo, uccidere il nemico, riparare quel che si è rotto, intervenire in qualche modo, a qualsiasi costo.

Per cui stavamo entrando nel grande magazzino, gli tenevo la mano come la si tiene ai bambini, facendo attenzione che non ti mollino all'improvviso perché attirati da qualcosa, una luce, un cartello, qualsiasi cosa può attirare un bambino e spingerlo a staccarsi dalla tua mano in modo fulmineo e correre via gridando, ridendo, o anche in totale silenzio. Intanto una parte di me, in modo furtivo, rifletteva sul mondo come risorsa da usare con moderazione e alla società come simulazione di attività governate da istinti animali. Ma Babbo Natale era ciò che dominava la scena, incombendo sui miei processi cognitivi, grippando le mie facoltà di linguaggio.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Vorresti un taglio sulla pellicola. Qualcuno che stacca questo pezzo di pellicola e con un po' di scotch unisce il punto in cui non ti ha ancora fatto la domanda a quello in cui hai già risposto. Non voglio neanche sapere, pensi, cosa ha risposto il padre, mi basta che quel momento sia già passato. E invece non passa, diventa un infinito deja-vu che riecheggia ma al posto di perdere volume diventa assordante.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Finto? Into? NTO? TO? O? Controlli che la sua manina sia ancora nella tua. Verifichi che intorno a te la gente è la solita di sempre. Salta la luce di un lampione. Quando vengo messo in una situazione che reputo stressante al limite dell'autodistruzione capita a volte che fulmini le lampadine. Chiedete a mia moglie se non ci credete, ve lo confermerà. Non smetterà mai di chiedermelo fino a quando non otterrà una risposta. Non è un tono di sfida quello che ho sentito nella sua voce? Non è una specie di domanda trabocchetto per capire quando si possa fidare di me, una prova del nove sulla mia capacità di mentirgli volontariamente?

“Babbo Natale dici? Beh, dipende, in che senso?”

Quando non voglio rispondere una delle mie strategie è fingere che la domanda possa avere risposte multiple egualmente valide. A quattro anni non potrà certo competere con anni di esperienza in evasione retorica, ambivalenza dialettica, confusione premeditata.

“Papa, è finto?”

“Tu che ne pensi?”

“Sto dicendo, Papa, se Babbo Natale è finto!”

“Ah beh, tutto può essere.”

“Noi ce l'abbiamo il camino?”

“No, ma non è che ci deve essere per forza. Potrebbe passare attraverso i muri.”

“Papa.”

“Guarda! Ci sono delle cose, andiamo a comprare un regalo a mamma!”

“Papa.” Si è impuntato, non muoverà un altro passo se prima non otterrà ciò che vuole. Sospiro.

“Dimmi.”

“Babbo Natale è finto?”

“Sai, a qualcuno piace pensare che...”

Sorride.

“Sì, è finto.”

“Lo sapevo.” Sorride.

“Possiamo andare adesso?”

“Guarda papa! Cos'è quello? Vieni, corri!”

giovedì 3 dicembre 2009

↑x8 (6\n)

(Disclaimer: contiene linguaggio esplicito)

INT. CUCINA DI SASHA – SERA

Sasha, seduta al tavolo, sta usando il telefono che emette dei BEEP

Ronnie entra in cucina con un bicchiere di vino rosso in mano.

RONNIE
La devi smettere.

Sasha continua a digitare sul telefono
SASHA
Cosa?

Ronnie va a sedersi di fronte a Sasha.

RONNIE
La devi smettere di darmi addosso, di togliermi il fiato.

SASHA
Di cosa parli?

RONNIE
Continui a criticarmi, ogni cosa che dico e che faccio, non perdi occasione per dirmi che questo non fa ridere, quello è un discorso del cazzo, critichi perfino il modo in cui interagisco con mio figlio.

Sasha chiude il telefono e lo butta sul tavolo. Il telefono cade in terra dalla parte di Ronnie.

SASHA
Ma non è vero! Sei tu che non sopporti le critiche.

RONNIE
Non è questione di accettare le critiche. Le critiche te le fanno gente che nemmeno conosci, di cui non ti frega niente di quello che possono pensare di te, non si tratta di diritto di critica ma di sentire il bisogno di controllare gli altri, di interpretare una fottuta guida che ti vuole insegnare come si fa, come si vive.

Ronnie vuota il bicchiere in un sorso solo, si alza e va alla finestra a guardare fuori, nel buio.

SASHA
Tutti abbiamo bisogno di un riscontro, di qualcuno che ci dica, ogni tanto, guarda che stai sbagliando, chi ti credi di essere tu per poterne fare a meno, pensi che non sia sincera forse, che ti racconti delle palle solo per farti star male?

RONNIE
No, non per far stare male me, per stare bene tu. Forse non capisci che a volte uno ha bisogno di svegliarsi al mattino e dirsi: bene, oggi non devi migliorarmi, posso permettermi una pausa e ritenermi soddisfatto di me stesso, posso vivere una giornata serena comportandomi in modo naturale senza preoccuparmi di tutto quello che potrei sbagliare. In quei giorni si dovrebbe passare sopra a tutto, come se quella persona stesse per morire entro sera e meritasse un po' di comprensione, un attimo di respiro. Riesci a capirlo?

CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Si vede cosa sta guardando Ronnie dalla finestra. Un gatto che gioca correndo nelle ombre gettate dai faretti del giardino.

SASHA (fuori campo)
Ma non è giusto, mi stai chiedendo una specie di censura dei sentimenti, perché mai dovrei perdonarti e fingere di non avere reazioni di fronte a quelli che mi sembrano grossi errori da parte tua?

Il gatto si rotola nell'erba, alza la testa in ascolto di un rumore, quindi corre via.

RONNIE (fuori campo)
Perché? Perché? Perché non sei la depositaria del bene, cazzo, non sei la custode del giusto e dello sbagliato. Lo vuoi sapere, eh? Non me ne frega niente di cosa pensi di me. Sei l'unica che mi martella i coglioni per non farmi mai sentire all'altezza di niente, per farmi sempre sentire come se i traguardi fossero comunque troppo lontani per me. Ma io non ho traguardi, è mai possibile che ti sia inconcepibile l'idea di un'esistenza senza obiettivi?

BACK TO:
INT. CUCINA DI SASHA – CONTINUA

Sasha s'è alzata e sta raccogliendo il telefono.

SASHA
Ti esorto, ti sostengo, devi pur avere un punto di arrivo, una direzione. Non sai di averla, ma io so che ce l'hai, e quando ti vedo agire come un bambino, come se non ti importasse di sviluppare le tue capacità, di realizzarti come persona...

Ronnie smette di guardare dalla finestra e si volta verso Sasha.

RONNIE
Ecco il tuo problema: confondi spensieratezza, leggerezza d'animo, per insulto personale. Tu sei una persona che ha paura di morire, non è vero? Una paura immane che incombe come un'ombra maligna.

SASHA
Ma di che cazzo stai parlando? Lasciami finire il discorso! Sei infantile, sei...

RONNIE
Ecco che ricominci.

Ronnie si volta di nuovo verso la finestra.
Sasha si avvicina a Ronnie e si ferma alle sue spalle, a pochi centimetri da lui.

SASHA
Mi verrebbe da prenderti a pugni, lo vedi come ti comporti? Diventa uomo!

RONNIE
Vorresti picchiarmi? E poi, cos'altro? Vuoi farmi curare, mi vuoi far mettere delle sonde per trovare il virus che mi rende diverso da te per eliminarlo dal mio organismo? Io non sono te, sono me. Ti sto solo chiedendo di lasciarmi vivere.

Sasha lo colpisce a mano aperta sulla testa, gli dà una scarica di pugni nella schiena, non così forti da fargli male veramente, prima di lasciar cadere le braccia

SASHA
Quindi sarei io quella che ha qualcosa che non va? È questo che stai dicendo? Sei pazzo, lasciatelo dire. In bocca al lupo, tanti auguri, sei l'esempio vivente di come si spreca ciò che si ha.


CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Il giardino è vuoto, si sente il rumore della porta che si apre e viene chiusa sbattendola. Vediamo Sasha di schiena che si allontana sul vialetto d'ingresso.

CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Vediamo attraverso la finestra Ronnie dentro casa che se ne sta lì fermo e sentiamo i suoi pensieri.

RONNIE (fuori campo)
Per sprecarlo bisogna prima averlo, Sasha, bisogna prima trovarlo.

Grand Canyon




Scritto e diretto da Lawrence Kasdan, il regista de “Il grande freddo”, Grand Canyon racconta la difficoltà di scegliere il bene quando tutti intorno a te scelgono il male. E in fondo nemmeno lo scelgono, è come nuotare nell'oceano e incontrare un squalo, lui non ti odia, non ha niente di personale contro di te, così spiega la deriva presa dalla società uno dei protagonisti, il meccanico Simon, interpretato da Danny Glover.

Uno di questi squali è un produttore di film violenti al quale il destino offre l'opportunità di redimersi consegnandogli “una busta calibro 38”. Uno spostato gli spara nella gamba per rubargli l'orologio, la pallottola gli frantuma il femore, lasciandolo zoppo. L'evento lo spinge a interrogarsi su se stesso e quello che fa, spingendolo a pensare che sia sbagliato girare film violenti, che sarebbe meglio parlare della vita, divulgare un messaggio positivo.

Kevin Kline è Mack, un avvocato al quale hanno salvato la vita due volte. La prima quando una perfetta sconosciuta lo ha strattonato per la collottola, riportandolo sul marciapiede ed evitando che venisse travolto da un autobus. Quella volta non ha potuto esprimere riconoscenza quanto avrebbe voluto perché la donna, dopo averlo salvato, se n'è andata come se niente fosse. Mack è arrivato a ipotizzare che non fosse umana ma un essere soprannaturale inviato da una potenza trascendente. Per questo la seconda volta non ha permesso al suo salvatore, il meccanico Simon, di uscire subito dalla sua vita. Simon è intervenuto convincendo delinquenti di strada a desistere dall'esercitare quotidiana e per loro ormai banale violenza su Mack.

La storia parla del rapporto che nasce e si sviluppa fra questi due uomini, uno bianco e uno nero, nella cornice priva di valori di una moderna e decadente metropoli, nella perdurante e difficoltosa ricerca di una qualsiasi salvezza da parte di chi squalo rifiuta di diventare. La moglie di Mack, ad esempio, che trova una neonata buttata fra i cespugli come fosse spazzatura, che se ne innamora e vuole tenerla. “È una scelta razionale?”, chiede il produttore zoppo, “Nel senso che tu e Mack potete realizzarla insieme?” Il produttore che è tornato a produrre violenza, incapace di sfuggire alla sua natura fatta di cinismo, disprezzo e finzione. “Se è razionale mi chiedi? Sai cosa? Me ne frego.”

Infatti Mack capisce la propria pulsione a fare il bene nei confronti di Simon ma non quella di sua moglie nei confronti di una bambina abbandonata. Solo suo figlio, cresciuto in un ambiente sano e protetto, inconsapevole della realtà meschina e spietata che domina per le strade, riesce ad aprire uno spiraglio. “Immagina che tu volessi fare una cosa a cui tieni tantissimo, che non potrai mai più fare nella vita se non adesso, e la mamma ti dicesse che non puoi farla, come ti sentiresti?”

Simon, grazie a Mack, risolve molti problemi. Se fai del bene, quel bene ti ritorna moltiplicato, sembra essere la morale. Il difficile è mantenersi integri quando tutto intorno va in pezzi, senza la minima logica, il minimo senso. Simon ha una spiegazione, gli viene dal padre. “Aveva una faccia come una vecchia valigia gonfia, rugosa, macchiata, sembrava che ci avesse camminato sopra per ottant'anni. Ha perso due mogli e tra figli, e io mi sono sempre chiesto cosa lo spingesse a tenere duro, perché semplicemente non si sdraiasse da qualche parte dichiarandosi sconfitto. Così un giorno gli l'ho chiesto.” Anche Mack vuole conoscere la risposta. “Per abitudine.” Il bene come un abito che si indossa tutti i giorni, che diventa comodo man mano che il tempo passa, al punto che non lo si cambierebbe con qualcos'altro, anche se ci dicono che è molto meglio di quello che portiamo.

Nel finale andiamo via, usciamo dalla città, scopriamo che esistono altri posti, diversi da quello che ci sembrava un oceano pieni di squali. È solo una pozzanghera di sanguisughe di fronte al panorama che ci offre il gran canyon. “Mi sento come una zanzara sul culo di una vacca che rumina al bordo di una strada dove tutti corrono a 70 miglia orarie.” Il gran canyon come firma incisa nella terra dalla mano divina, lì a ricordarci che in fondo ci preoccupiamo troppo, scordando troppo spesso che siamo esseri insignificanti a paragone dell'immensità del tutto.