Un film etichettato, a mio avviso ingiustamente, da intellettuali. Sì, ci sono riferimenti espliciti, vuoi religiosi o filosofici, vuoi junghiani o freudiani, ma non l'ho trovato volutamente criptico, con quella patina di antipatica presunzione che identifica le opere degli intellettuali organici, gli spacciatori di cultura con il loro giro di tossici a cui rifilare stricnina zuccherata. Si tratta di un film inusuale, questo è sicuro, ma nel senso che non ha l'ambizione di spiegare una vicenda ma solo di mostrarla. Non abbiamo l'eroe classico che affronta le difficoltà e vince, non abbiamo buoni e cattivi, non abbiamo un messaggio morale che spinga a fischiare o applaudire. Non è un film studiato per soddisfare i soliti bisogni del pubblico pagante, che va al cinema come andrebbe a scuola o in chiesa: per sentirsi parte di una comunità che ha le sue stesse reazioni di fronte alla stessa scena, che sia commovente o susciti ribrezzo, che sia di sesso o violenza. E per uscirne con la sensazione di aver imparato qualcosa che però già sapeva, aveva solo bisogno di un medium che tirasse fuori e la portasse nel raggio della consapevolezza.
Da un film intellettuale ci si aspetta questa funzione portata all'eccesso, al punto in cui ci si deve sentire i fortunati vincitori della lotteria di una sensibilità superiore, un'intelligenza più sottile della media, una capacità di analisi critica speciale. Non c'è bisogno di dire che per me è un inganno, un far leva sul narcisismo e altre qualità umane lontane dalla virtù, ma così è: l'opera, che sia un libro, una canzone, un film, che va incontro al pubblico molto spesso è una ruffianata, più o meno elegante. Questo va bene, per carità, il mercato si conquista offrendo ciò che la gente vuole e quello che vuole di solito ha a che vedere con bassi istinti da sublimare per un paio d'ore immedesimandosi con i personaggi di una storia se non edificante, almeno divertente. Non abuserò della parola intrattenimento. Il film intellettuale invece, in questa logica, deve disturbare, porre domande scomode, denunciare, farci sentire inadeguati, indurci a fare qualcosa per cambiare la situazione. Tree of life non è intellettuale, al massimo è un tentativo di esemplificazione.
La trama parla di un primogenito che affronta un processo individuale di maturazione fatto di tappe obbligate: dalla gelosia per il fratellino al complesso di edipo, dal risentimento verso se stesso alla ricerca di una difficile riconciliazione, dal senso di colpa alla speranza di un'eterna consolazione. Sono temi importanti, ma non bastano a rendere inaccessibile l'opera a chi non possieda un bagaglio culturale per decifrarlo. Si tratta di una forma di divulgazione pura e onesta, anche nei limiti delle libere e autonome scelte compiute dall'autore, sia di inquadrature, di suoni, di quanto riguarda la forma concreta dell'opera, sia in termini di eventi e sfumature caratteriali che non possono venire generalizzate: dalla madre passiva e spirituale al padre che soffre il peso della responsabilità educativa e vive con ansia il suo ruolo di sostegno materiale. I personaggi vengono ripresi di spalle o in primi piani densi di espressività, c'è molto fumo, nebbia, e molto rumore di fondo, le parti destinate a colloqui interiori vengono proposti mediante sussurri e bisbiglii.
C'è una parentesi documentaristica per allentare la morsa empatica di una famiglia disfunzionale come ce ne sono tante, comprese quelle che non si ritengono tali perché hanno paura di scoprire che tutti gli altri non stanno fingendo, stanno bene davvero, sono felici davvero, come succede quando si fanno brutti sogni. Il big bang, l'estinzione dei dinosauri, per bilanciare una possibile lettura esclusivamente religiosa dell'opera l'autore dice signori, lo so cosa dice la scienza ma non ne frega più di tanto, una difesa preventiva che è l'unica pecca intellettuale che posso imputare al film. Per il resto è l'incidente sulla via di Damasco del protagonista che, adulto, sano, architetto, elegante, telefonino e palazzi di cristallo, ha un mancamento e cerca di riempirlo cercando risposte con l'aiuto dei ricordi. Una specie di seduta analitica, se vogliamo banalizzare. La causa scatenante è un lutto, muore il fratello in un incidente. La morte irrompe nel tranquillo scorrere di una soddisfatta quotidianità e ci spinge a correre incontro alla vita per contrasto.
Non potremmo vivere se pensassimo a quanto è effimera e fragile e delicata la vita nostra e dell'intero pianeta. C'è una straordinaria delicatezza nel modo in cui l'autore si sofferma poeticamente sull'aspetto sentimentale innescato dalla provvisorietà della vita. La parte che nel verso biblico citato in apertura rappresenta la grazia, contrapposta alla natura. Si tratta di una citazione da Giobbe che viene poi ripresa in un'omelia inserita durante il funerale del secondo o del terzo (sinceramente non ho capito quale dei figli è morto, c'è stato un momento in cui ho ipotizzato che fosse lo stesso protagonista a morire, in un universo parallelo, ma ho idea che sarebbe una complicazione esegerata, più adatta alla fantascienza). È un film che si presta a molti approfondimenti, e l'autore dimostra grande onestà quando ambienta la storia negli anni '50, o forse ancora prima, per dare realismo a personaggi che portati di peso nel presente verrebbero subito sfruttati per alimentare polemiche ideologiche strumentali di basso profilo, rovinando del tutto le aspirazioni artistiche dell'opera, quando si nota l'attenzione impiegata appunto per evitare che il film venga impugnato come arma impropria da una fazione politica qualsiasi.
Il film è anche ricco di simbolismi, la scala, il cancello, la porta; di valori, la fiducia, il rispetto, il coraggio, la temperanza; di domande che non possono e non devono trovare risposta; di momenti estetico-estatici in crescendo che arriva a un finale di rivelata comprensione liberatoria e scioglimento emotivo totalmente rielaborato. È un film che avrà dato molto fastidio agli atei per via di un esplicito intervento salvifico ottenuto come ricompensa da un protagonista che non si accontenta di un hic sunt leones o di un per ora non siamo in grado di rispondere, ma va alla ricerca di, affronta e accetta le proprie debolezze, dubita certezze pregresse e tenta di rileggere sotto una nuova luce ciò che dava per scontato. Nel film il protagonista vince, arriva da qualche parte, per quanto si possa dubitare dell'autenticità della risposta e della sua testimonianza del protagonista, nel film una risposta il protagonista la riceve, nella realtà non è detto che succeda, che ci sia una ricetta e basti seguirla per ottenere gli stessi risultati, e infatti stiamo parlando di un'opera d'arte, non di un esperimento scientifico, e si torna alla citazione iniziale di Giobbe. Perché l'albero della vita, dalla vita dell'universo alla vita umana, dall'umanità nel suo complesso alla nostra esistenza individuale, vogliamo considerarla oppure no, la vita, nei termini di un'opera d'arte?
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