Le buche si evidenziano abitualmente come depressioni su una superficie altrimenti coerente e priva di tensioni discrete. Altresì non sono rare buche più importanti, deformazioni vistose provocate da una consistente perdita di materiale costitutivo. Il marciapiede che collega via stazione con piazza mercato presenta solchi rettangolari dove le pezze d'asfalto più scuro segnalano scavi recenti nel manto stradale, crepe abbondanti dove le radici degli alberi si sono allungate in profondità, screpolature, avvallamenti, piccoli crateri dovuti al gocciolamento o alle infiltrazioni. È un marciapiede dalla morfologia complessa, costellato dalle macchie di antiche gomme da masticare, da ciuffi d'erba e isole di muschio, da rifiuti, escrementi, tracce sbiadite di vernice. Si verifica la presenza di alcuni tombini, uno quadrato dove tutt'attorno l'asfalto ha ceduto dando forma a canali di scolo che spingono l'acqua piovana, proveniente da una vicina grondaia abusiva, a evitare il tombino, a dividersi in due rigagnoli che l'avvolgono e si riuniscono dietro di esso precipitando infine dal cordolo in una composta, elegante, anche se ridotta cascata. Altri tombini sono rotondi, più piccoli, la forma rotonda è l'unica che impedisce per ragioni geometriche al coperchio di scivolare nel buco comunque lo si posizioni.
Entro spingendo una porta a vetri leggera al punto da far pensare che sia polistirolo mascherato da legno, dipinto da un maestro del dettaglio con pennelli millimetrali. È il mio ristorante preferito, ricordo a me stesso volgendo intorno lo sguardo a riconoscere, a controllare, a verificare che tutto sia dove deve essere. Il vaso dei fiori secchi sul pianoforte con le sue spighe colorate di rosso, le roselline ingiallite dal capo chino, gli steli di foglie improbabili che hanno perso spessore fino a diventare filigrane. Il tavolaccio infinito davanti all'enorme camino, dove c'è sempre posto finché qualcuno riesce a stringersi al vicino, poi non più, e ci si passa il vino e ci si offre il pane chiacchierando di argomenti innocui, masticando i bocconi con tutta la calma necessaria a meditare una risposta accurata. I cani, il giovane che ti lecca la mano e ti appoggia la zampa sulla coscia, il vecchio che rimane sdraiato accanto al fuoco e se accetta un boccone prelibato è solo per farti un favore, lo prende con delicatezza sopportando il mal di denti, il mal di ossa, la nausea per vita che è l'insulto continuo di una morte che indugia. I quadri anch'essi saggi nella loro mancanza di vigore, senza nessuna voglia di stupire, di ammaestrare, se ne stanno appesi un po' sghembi a mostrare acquarelli di ponti su fiumi tranquilli, placide composizioni di frutta in cui la luce proviene sempre di sbieco.
C'è una buca molto vecchia dove il bitume e la pietra si odiano, alla base di un gradino da soglia che non porta a nessun ingresso, un portoncino di marciume verniciato, marchiato da spaccature vistose e tumescenti così antiche da non avere attrattiva neppure per l'insetto meno esigente. Dove in passato ci furono pareti ora c'è un giardino, ma l'accesso è sopravvissuto, risparmiato dalla pena dei muratori, dalla superstizione dei proprietari, dalla distrazione degli architetti o semplicemente da un bisogno di memoria, uno scherzo incomprensibile. La buca rivela dei segni incisi nella pietra, dove il marciapiede si scosta o viene respinto, e questi segni, corrosi quanto sono, non dicono più niente, borbottano i segnali incoerenti degli anziani che si addormentano con gli occhi aperti. Poco più avanti le bocche di lupo, le reti arruggine su grate arrugginite che proteggono da ciò che si nasconde nel buio della cantina, oppure sono lì per impedirci di entrare, di fare pazzie. Si sentono correnti d'aria che sono un respiro odoroso di polvere d'estate e di muffa d'inverno, che ti fanno guardare nel buio oltre la rete e le grate mentre allunghi il passo. Nelle buche si raccoglie la terra, il polline giallo dell'immenso cedro dall'altra parte della strada, ci finiscono oggetti smarriti che sono bottoni rotti, puntine schiacciate, frammenti di carta dai contorni frastagliati, schegge di vetro molato dall'eterno rotolio dell'abbandono, l'insonnia di una febbre che è chiedersi il perché senza trovare mai risposta.
Il mio ingresso fa suonare una campanella e rimango fermo in attesa che appaia la cuoca. Non passa mai più di una manciata di secondi prima che venga fuori sparata dalla cucina con in mano dei piatti o una caraffa, dei bicchieri, delle posate, un cesto di fette di pane. Non è ancora entrata nel salone che il suo sguardo è su di me, mi stava vedendo attraverso le pareti e non mostra stupore si limita a un cenno delicato del capo, comprensivo, un sorriso che non ha paura di mostrare qualcosa di intimo e sincero, un organizzazione dei movimenti che rivela totale disinteresse per i problemi che tormentano la gente comune, uno sguardo che ha smesso da tempo di arrendersi a qualsiasi disagio. Mi vado a sedere e prima di rivolgere l'attenzione ai presenti mi concentro sugli spari e i fischi dei ciocchi sugli alari, e mi sgonfio, e dimentico. Mi separo dalle sciocche polemiche dei militanti, dagli stretti orizzonti dei predicatori, dalle argomentazioni insidiose degli squilibrati, dall'arroganza dei sobillatori, dalle pretese degli ipocriti, dalle menzogne degli arrivisti. Penso alle mani della cuoca, arrossate dai forni e dai vapori, ammorbidite dai sughi e dagli unti, odorose di spezie e di primizie, nodose e precise, fragili e rapide. Penso ai capelli della cuoca, legati e racchiusi nel canovaccio di cotone a righine usato come foulard, al disegno delle ciocche invisibili, alla tensione che muove le forcine quando piega la testa. Penso al fuoco e anche al basso soffitto con le travi a vista, agli oggetti sulle mensole, ai mattoni del pavimento. E con gratitudine dimentico.
giovedì 18 novembre 2010
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