Drive è tratto da un romanzo, la trama è: stavamo andando in un posto bellissimo quando ci hanno dirottati. Un storia che è un trip, il viaggio alienante che hanno sperimentato tutti coloro che si sono trovati chiusi dentro un abitacolo per ore, a guardare fuori dal finestrino, a farsi compagnia con l'autoradio, a fare conti mentali sui tempi di percorrenza, a trovare motivo di buonumore in una sosta al distributore. Il protagonista è un pilota, non si capisce se è bravo a guidare la macchina perché guida bene se stesso o se è bravo a guidare se stesso perché guida bene la macchina. I due piani narrativi sono sovrapposti e questo è un po' il segreto del film (il libro no so, non l'ho letto). A questo aggiungete la reazione di uno spettatore che ha sperimentato anche l'alienazione della realtà virtuale, anch'essa frutto di un'esposizione prolungata alla velocità, l'effetto di un mondo che accelera, immagini che perdono definizione, occhi che si stancano, attenzione che declina, tutti effetti che fanno da moltiplicatore per l'immedesimazione con un attore che interpreta la parte con magnifica naturalezza. Il tentativo sempre commovente di chi cerca di prendere in mano le sorti della propria vita, di non avere più fiducia in niente, che siano le persone, il domani, la provvidenza, smettere di limitarsi a chiedere e sperare ma andare alla ricerca di qualcosa di concreto in grado di soddisfare un bisogno di ascolto, comprensione, amore. Scelta che porta alla contaminazione con chi ha fatto della pretesa una professione, l'esercizio di ottenere con la forza una prassi.
Ma partiamo dall'ambientazione, dal reticolo di strade di una metropoli distesa su un brullo territorio come una muffa, come una rete elettronica fatta di nodi tenuti insieme da una corrente dove al posto degli elettroni circolano gli esseri umani, sfiorandosi senza toccarsi, mantenendo il senso di circolazione dentro alla corsia di marcia. Il protagonista si muove sul confine di molti territori, nelle sottili parti comuni di mondi distanti, si muove sulle strade come surfando il web, affidandosi all'istinto, a ciò che lo rende in grado di mantenere il controllo sul mezzo e su se stesso, confidando in una mappa intuitiva, nel futuro, come chiunque trovi il coraggio di guidare pur avendo visto rottami in fiamme e corpi massacrati, gli incidenti esistono ma occorre pregare che capitino sempre agli altri, per contare su se stessi occorre potenziare le proprie abilità, diventare più che autisti, versare il prezzo per diventare piloti, fatto di percezioni, di riflessi, di condizionamenti imprevisti, dove a furia di guidare dimentichi da dove sei partito, non fai più caso al nome dei posti che attraversi, fai scendere te stesso e ti abbandoni ripartendo in derapata, e via via che scorre sotto di te l'asfalto, il tempo rallenta, giunge l'assuefazione all'effetto rilassante di una droga chiamata velocità, dimentichi come si comunica, ti spegni lentamente.
Il trucco sta nel diventare tutt'uno con al macchina, devi essere le ruote, devi essere il motore, non ci deve essere differenza tra la tua mano e il volante, sono sensazioni ben note agli appassionati della guida. E diventi tutt'uno con il computer nella realtà virtuale, lo sa bene chi muove l'avatar nei giochi online. Il protagonista è impegnato a tenere in strada la macchina della propria vita e a tenere se stesso collegato alle altre persone, le poche persone con le quali entrano in contatto quelli che passano troppo tempo alla guida o davanti al computer. Quando spegni il motore, o il monitor, scendi dalla macchina, esci dal cyberspazio, hai un bisogno indescrivile di qualcuno in carne e ossa che ti rassicuri della tua concretezza e della tua capacità di essere normale, di sentirti umano. La colonna sonora si presta a sostenere il senso di estraniazione che contagia lo spettatore tanto quanto la capacità dell'attore di esprimere lo stupore smarrito d fronte alla lentezza del mondo, col tempo di saggiare colori e sapori, di gestire con calma le proprie reazioni, come chi si risvegli un mattino con la fronte fresca dopo una lunga febbre. Estranianti sono del resto tutti i personaggi, dagli antagonisti ridanciani e perfettamente integrati nel mondo analogico del potere, necessariamente criminale in un ambiente vincolato alla lentezza, così come le ragazze, tutte prostitute tranne una, quella che sarà per il protagonista la macchia d'olio sulla pista, il brecciolino in curva, il dado che si sfila dal bullone.
Il viaggio dell’eroe è del tipo vendetta, le cose ti vanno bene e la sfortuna ha scelto te, come in quel gioco, si chiamava Pharaon mi pare, usciva un messaggio con scritto la sfortuna ha scelto te, le acque dei tuoi pozzi sono inquinate, oppure arriva la carestia, nel film il mondo non è retto dagli dei egizi ma da pezzi neanche grossi della criminalità organizzata, fantocci che ricalcano gli stereotipi delle mafie da cinematografo, bastardi che sono sopravvissuti abbastanza da ereditare gli affari dei morti o degli imprigionati, dove il carcere è peggio che morire, è solo un girone ancora più basso nella città degli angeli, un nome che più che un augurio suona come uno zerbino di benvenuto sarcastico sulla soglia di una casa diroccata. Il protagonista si trova a impugnare il volante di una macchina della vita col motore truccato, inaffidabile sul bagnato, con difetti nell’impianto frenante e uno sterzo duro e poco sensibile, deve sforzarsi al massimo per mantenere la calma esemplare di un professionista che non si lascia spaventare dalle perdite improvvise di aderenza, dalle scorrettezze degli avversari, da uno pneumatico che esplode, deve affrontare un viaggio di sola andata premendo a fondo l'acceleratore con la certezza che equivalga a gettarsi da un aereo, dove cadi e cadi e cadi e hai tutto il tempo di ripercorrere le tappe della vita. Che è poi quello che succede a tutti, dal momento in cui veniamo concepiti, anche se decidiamo di mollare il volante o di non guardare giù.
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