K dice Ho abortito un bambino. È l'ultimo gioco che si è inventato, è convinto che sia un gioco divertente, consiste nel telefonarmi di notte, mentre pranzo, quando sa che sto guidando o facendo la spesa, K mi telefona per darmi notizie spaventose. Lo fa per il mio bene, K sostiene che mi aiuterà a ritrovare la strada di casa, che secondo lui sono stato rovinato dalla cultura mediatica commerciale e il suo dovere è di traghettarmi, Caronte all'incontrario, mi farà tornare nel mondo dei vivi, delle persone normali, mi trascinerà di peso fuori dall'inferno privato che mi sono costruito accumulando materiale letterario e audiovisivo, in cui vivo rannicchiato in attesa di epiloghi a valanga, come un ratto che ha mangiato l'esca avvelenata. L'epilogo, vorrai dire, uno solo, ma lui dice No, dice Gli epiloghi sanno come riecheggiare, hanno imparato, sono diventati molto furbi. Gli dico K ascoltami, non sta funzionando, smettila, gli dico Ammesso che tu abbia ragione sul fatto che, e non ce l'hai, ma se anche fosse non sta accadendo nulla, non mi sento diverso, davvero. K respira nel telefono e dice È ancora presto, devi avere pazienza, devi stare al gioco, parliamo, chiedimi qualcosa sul bambino che ho perso, e a me si riempie la testa di fermo immagini, trasparenze multilivello sovrapposte, colonne sonore deturpate dai sintetizzatori digitali, e sento montare una rabbia nata insieme al big bang nei confronti di K, un'ira che ha avuto molto tempo per crescere nutrendosi di ghiaccio nero, della speranza infondata di K nel trovare sempre una via d'uscita, della fiducia che K ripone nei salvataggi, ma prima che gli gridi nel telefono cose antipatiche, cattiverie affilate, avviene un cedimento mentale da intorpidimento, scatta un relais che interrompe il circuito della violenza primordiale, vengo sommerso da ricordi spiacevoli o ritrovo tesori sepolti, mentre chiedo a K se era maschio o femmina, il bambino, e come l'ha perso, nella mia mente la voce del doppiatore di Stallone mi legge parola per parola una lettera scritta da mia madre che ho smarrito secoli fa.
K dice Non lo so, maschio, sono sicuro che fosse maschio, con gli occhi verdi. Gli dico Non hanno colore gli occhi dei neonati, sono blu, e K dice Non importa, si capisce che non ci stai mettendo la voglia, è inutile giocare se non fai la tua parte. Sta zitto un po', per farmela pesare, e butta lì un Ci devi credere. Sospiro, mi alzo dal letto e accendo tutte le luci, sento l'esigenza di controllare che le stanze risultino deserte, se non mi facesse sentire stupido mi metterei a guardare sotto i mobili, dentro agli armadi. K vuole sapere cosa sto facendo, cosa sono quei rumori, sorrido rispondendo Niente, mi vendico tenendolo all'oscuro e dopo un po' mi dice Visto che ormai sei sveglio ti voglio confessare che secondo me la vita precedente finirà nella scatola delle cose che non scriveremo. Guardo l'ora sul termostato, faccio il conto, ho dormito tre ore. La vita precedente K intende una storia che abbiamo ipotizzato in cui il protagonista nella vita precedente era suo figlio perché bisogna sfatare il postulato del tempo, K dice che nessuno ha mai protestato e non si capisce perché a nessuno è mai venuto in mente che ci si possa reincarnare in una vita passata o che una vita passata si sia svolta nel futuro. Le parole esatte di K sono state Dobbiamo ribellarci al dominio del tempo, al che ho detto Ci faranno un film, e K ha detto Non prendermi in giro, e da quella volta ogni tanto salta fuori La vita precedente e il fatto che sia diventata una delle tante storie che non scriveremo. Gli dico K ho dormito solo tre ore e lui dice Era una bella idea. Dico Può darsi, ma ho dormito solo tre ore, e sono deciso a ripetergli all'infinito quest'unica frase, Ho dormito solo tre ore, fino a quando non dichiarerà la resa, mi chiederà scusa, ammetterà che il gioco è finito, che il gioco era inutile e fine a se stesso. K dice Immagina se fosse vero, se fossi seduto nel mio sangue a chiedermi le w, il cosa, quando, come, perché. Gli dico K sei un maschio, i maschi non abortiscono, tu interrompi la gravidanza che io interrompo la telefonata, e premo con forza il tasto col simbolo rosso.
Spengo le luci e mi sdraio sul divano con la tv accesa, sento in cuffia la voce tranquilla di un narratore professionale, è un documentario di storia, scienza, animali, non m'importa di cosa parla, le immagini scorrono lente e la voce è teatrale, nessuno spara o grida, niente esplode o scoppia in lacrime, va bene così, tanto ormai so che resterei agitato nel letto a rendermi conto di avere le mandibole serrate, i pugni chiusi, le spalle tirate. Vedo che si illumina il telefono, non rispondo, chiudo gli occhi e sogno mia nonna, un donnone quintalesco strizzato nel grembiule a fiori, sogno le chiappe enormi di mia nonna sul sellino della graziella, la faccia rotonda della nonna che mi ordina di stare attento a non mettere i piedi nei raggi, a me che sto seduto sul ferro nudo del portapacchi e non so dove attaccarmi perché il sedere di mia nonna è troppo grande per abbracciarlo, il grembiule a fiori è aderente e teso, non offre appigli, non so dove mettere le mani e nemmeno i piedi, che tengo sparati all'infuori, con gli zoccoli appesi alle dita, e quando la bici prende una buca rimbalzo con dolore e le chiappe della nonna si ravvivano, danno respiro al sellino che compare per un momento alla vista come un naufrago e io rido, sono contento, dico nonna vai, pedala nonna, vai più veloce. Mi sveglia la pubblicità, trenta tacche più udibile del programma in cui è inserita, trenta volte più estatici i sorrisi, mi spaventa la certezza di essere entrato chissà dove senza chiedere permesso, guardo la pubblicità e mi sembra di spiare, di commettere un reato solo per il fatto che sto partecipando di qualcosa che non merito. Guardo il telefono, ho dormito due ore, ci sono quattro chiamate senza risposta, tutte di K. Mi infilo nella doccia pensando a mia nonna, era un sogno in bianco e nero, cerco di ricordare di che colore fossero i fiorellini sul grembiule quando davvero mi portava con sé al mercato, al cimitero, al ricovero per anziani in visita alla prozia novantenne. Celesti come gli occhi di Gesù, fucsia che gli occhi della Madonna, lo stesso fiore in due colorazioni, oppure diafani come occhi di neonati che mi annunciano La scuola è quasi finita, siamo i fiori della nonna, da oggi nei prati migliori.
È ancora buio, dalla finestra vedo lampioni velati da cortine di neve artificiale, fiocchi di smog vetrificato dalle correnti artiche che scorrazzano nel silenzio di un'alba festiva. Oggi è domenica, penso, e mi sento sprecato a non avere progetti per onorare la festa con divertimenti e intrallazzi, mi immagino auto stracariche con dentro bambini che cantano o costretti dall'impazienza a ossessionarsi di Quanto manca, mi immagino camini accesi con vecchine sorridenti sulle sedie a dondolo, mi immagino amanti esausti per la fatica che si sentono in colpa per l'imprevista disaffezione omnicomprensiva e danno la colpa alla fastidiosa insistenza delle lenzuola umide. Immagino amici di fronte alla tv, grandi tavolate, bottiglie di vino frizzante, risate eleganti a battute spiritose, una domenica in grado di abolire tutto ciò che è volgare e feriale, pacchiano e normale, una domenica dove niente avviene sottotono e ogni notizia diventa clamorosa. E mentre cerco di fingere che sia neve vera, che sia un giorno speciale, non riesco a dimenticare mia nonna, sempre indaffarata, i baffi di mia nonna mentre le guardo la bocca per imparare a memoria le preci in latino del rosario serale, gli occhi sempre più chiari sotto l'incalzare del glaucoma, della cataratta, delle malattie con nomi che trovi interessanti solo fino a quando non parlano di te, di come vengono chiamati i passi che fai avanzando in un futuro che non ti trova sulla lista degli invitati. Mi chiedo se i miei occhi saranno altrettanto capaci di una minaccia credibile, una severità inflessibile, o se lacrimeranno irritati dall'aria gelida che arriva a cristallizzaci addosso i veleni. Oppure diverrò cieco come la prozia nella sua stanzetta in condivisione al ricovero per anziani, sempre in attesa di qualcosa, dell'ora di pranzo, dei vespri, del giornale radio, della domenica, giorno di visite, giorno in cui occorre farsi trovare in ordine, preparati, con lo scialle fatto all'uncinetto e il fermacapelli di tartaruga, la prozia che si specchiava per essendo cieca, per fingere di vederci benissimo, che rispondeva annuendo quando ti vedeva muovere le labbra per fingere di sentirci benissimo, e quel bicchiere mezzo vuoto sul comodino che da bambino mi chiedevo il perché di una stranezza del genere. La prozia delle monetine messe da parte per te che quando saltavi una visita si accumulavano, al punto che ricevere una grossa mancia ti faceva sentire in grossa colpa. La prozia che sbagliava i nomi e si preoccupava che la stanzetta fosse pronta per accogliere il proprio cadavere, le tende tirate e le tapparelle mezzo abbassate per una penombra adeguata al riposo della salma, gli armadi intarsiati e smaltati con anta a specchio per moltiplicare la luce delle candele, l'atmosfera raccolta per rafforzare il mormorio delle preci sussurrate.
K dice Non mi interessa, devi ascoltare. Mi racconta la storia di una ragazza che vuole perdere un bambino e si dà i pugni in pancia, corre per le scale, e di come tutti al posto di congratularsi si dispiacciano per lei. Le dicono poveretta, le dicono sei così giovane. Suo padre non la guarda più come prima, non la guarda se non per lanciarle occhiate in mezzo alle scapole, il padre scuote la testa e la madre piange, le dice non ti preoccupare ma i suoi occhi dicono mi hai spezzato il cuore. Mi intrometto, gli dico K basta, è una storia che non scriveremo nemmeno a voce, non voglio starti a sentire mentre racconti tragedie e per fargli dispetto gli parlo sopra, parlo di mia nonna al cimitero che mi ripete ogni volta chi è parente di chi e cosa ha fatto di buono nella vita e di cosa è morto, io da bambino conosco moltissima gente morta che sorride dentro a fotografie marmorizzate, persone che hanno l'aria felice e vivono dentro a un giardino, in piccole case scavate nel terreno. Mentre K va avanti con la storia e io anche se gli parlo sopra lo sento, seguo la vicenda perché non posso evitarlo, è come studiare con la tv accesa, scrivere parlando al telefono, e K dice Di nascosto, scioglie la pillola di ru quattro otto sei dentro a una bibita, non lo sa nessuno, è convinto di agire per il meglio, di fare la cosa giusta, è deciso a portarsi il segreto nella tomba, e il lettore viene reso complice. Intanto io gli parlo della fossa comune, di come le ossa finiscano nella fossa comune, e di quanto mi dispiacessi all'idea di tutte quelle persone che sarebbero finite prima om poi nella fossa comune, un giorno sarei entrato al cimitero e non avrei trovato più nessuno, sarebbero state tutte facce mai viste prima, ognuna con una storia che mi sarebbe rimasta ignota, non avrei avuto la nonna a rivelarmi i segreti del mondo. K dice secondo te si sentono colpevoli tutti? e io sono costretto a spegnermi e cercare una risposta, gli dico Intendi tutti in che senso, tutti anche noi due, tutti anche gli alieni, i neanderthal, tutti anche la natura il cosmo personificato, tutti anche il bambino mai nato? Gli dico Tutti in che senso tutti, tutti, tutti, tutti chi? K dice Hai capito, quando succede qualcosa che non sai se arrabbiarti anche coi muri o chiedere scusa anche per gli altri, ho pensato che il lettore gli facciamo trovare un biglietto dove. Un biglietto scritto da chi? Non si sa, tanto non la scriveremo mai, che ti importa, gli facciamo trovare un biglietto a parte, infilato tra le pagine, con su scritto scusate per i problemi che vi ho causato. Non ho capito, dico. Massì, lo facciamo firmare col nome che avrebbero dato al bambino se non fosse finito giù per il cesso, nell'inceneritore per rifiuti speciali. Gli dico K tu sei malato, se scrivi una cosa del genere ti tiri addosso il mondo, ci saranno persone in fila per la goduria di insultarti, e K dice È così che funziona, sarebbe tutta pubblicità, gli editori vanno matti per la pubblicità gratuita. Mi manca l'aria, dico K perché insisti, non la scriveremo e non ne voglio parlare. Lui sta zitto, mi dice Oggi cosa fai, dico Esco, Dove vai, mi accorgo di averlo sempre saputo, da quando mi sono svegliato, da ieri sera, da tutta la vita, la mia esistenza si risolverà e avrà fine in mezzo alla folla, esploderò gridando qualcosa di definitivo o cantando sulla musica diffusa dagli altoparlanti, gli rispondo Devo andare al centro commerciale. Vengo anch'io, No, Ci vediamo là, No K, Pronto, Pronto?
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