Posticipo le due chiacchiere che voglio fare su Rango perché è un film che non ha ancora smesso di stimolarmi delle riflessioni. Non ha fatto clamore perché i demoni del marketing non vanno in sollucchero per un produttore che è Nickeodeon (snobbabile sia per via dell'origine del termine, cinema a basso costo per la plebaglia, sia perché adesso è un canale televisivo per bambini, in Italia immanicato con Mtv e Telecom Media), anche se il regista è quello di The Ring e di Pirati dei Caraibi e il protagonista viene doppiato da Jonny Depp. C'è tutto un sistema che fa in modo di inculcare nella testolina consumatrice del target pubblicitario un giudizio preventivo sul prodotto, in modo che voi andiate al cinema già ipergasati e ne usciate convinti di aver speso bene tempo e denaro anche se vi siete sorbiti una porcheria (vale sia per i film di autori, attori, registi di culto che per produzioni sontuose che possiedono quantità immani di risorse da spalmare anche nella promozione, e vale anche per altri prodotti, in linea di massima tutti quelli che comprate soprattutto per sentirvi parte di qualcosa di più grande di voi o almeno non esclusi). Rango è uno di quei film che competono pur sapendo di perdere in partenza, come quegli artisti, scrittori attori musicisti, che sanno di essere bravi ma non riescono non dico a diventare famosi ma nemmeno a essere riconosciuti come tali, gente che per frustrazione o protesta, gente che non riesce a gestire e accettare l'intrinseca stortura del mondo e per rifiuto disperato o per tentare il tutto per tutto gioca la carta suicidio. In quest'ottica Rango è un film che parla anche di se stesso: meriterebbe ma sa che il sistema non è progettato per riconoscere i meriti ma per costruire prodotti e spendere in pubblicità al fine di recuperare più soldi di quanti se ne sono spesi. La grande razionalità del mondo in fondo sta solo nell'aumentare i capi del gregge, non perdere il raccolto, garantire la sopravvivenza. E dove meglio che nel deserto del Nevada all'epoca dei pionieri americani, si può parlare di sopravvivenza? Con chi meglio di un animale domestico la cui gabbia va in frantumi, si può parlare di sopravvivenza?
Rango non è Pixar, scampata alla morte finanziaria grazie alle iniezioni di soldi della Disney, che se l'è comprata e l'ha inserita nel suo portafoglio soffocandola pian piano come una qualsiasi madre castrante d'amore (si noti film dopo film la progressione di un abbraccio che a forza di affetto e paroline dolci ha trasformato una società libera e indipendente in un dipartimento conforme e disciplinato). Rango non è Dreamworks, che il cervellino del cliente inizia a spurgare dopamina appena vede il suo bimbo ombra che pesca seduto sullo spicchio di luna. Finalmente si sta formando una vera e propria corrente di studio nel campo della sociologia che si interessa del potere mediatico come strumento di attuazione delle ideologie totalitarie, e il consumismo organizzato e sviluppato in forme sociali complesse (la parte economica diventa un sottoprodotto, un elemento di scarto) è un'ideologia. Rango dovrebbe dunque essere vissuto, come esperienza di consumo, alla stregua di un film polacco fatto in timelapse con la plastilina, un film francese con le sue belle tematiche da ricco filantropo in cerca di autoassoluzione mediante la denuncia in chiave artistica e lo schierarsi cavalleresco dalla parte di tutto ciò che lui stesso non è: povero, malato, pazzo, prigioniero, selvaggio, e via grandeureggiando. Rango dovrebbe al massimo apparirci come il film rivelazione di un qualche autore slavo mal sottotitolato che dopo di questo, ahimé, purtroppo, mettiamoci la faccia da lutto della delusione preventiva, non farà più niente di interessante. Rango dovremmo dire ci porto i bambini, l'ho scelto solo perché non c'è niente di meglio, dovrebbero far pagare meno per film che non danno alcuna garanzia e vengono fuori solo perché siamo una società ricca che può permettersi di finanziare e dare una possibilità anche a chi è destinato al fallimento (come dice Jack la mia vita non è stata un pick-o nick-o al pupazzo di pinocchio), perché stiamo parlando della sostanza del sogno americano, la felicità è a portata di mano di chiunque, realizza i tuoi sogni, fai diventare realtà i tuoi desideri, in questa immensa favola targata Disney Coca Cola e US Marine Corps.
Anche qui in Italia, un piccolo paese mezzo cattolico e mezzo comunista, c'è una parte di popolazione che mentalmente risiede entro i confini dell'impero ricco e occidentale, gente che ne possiede la cittadinanza culturale e ne sta vivendo i sintomi intellettuali della decadenza. Gli Stati emergenti, popolosi e affamati, sono per noi abitanti dell'impero americusso o russericano, quello che i barbari furono per i romani. Rango è anche quello, una manuale illustrato per riconoscere le fasi di passaggio, come quella che trasforma i villaggi con lo sceriffo e i pozzi asciutti in quartieri suburbani dormitorio a venti minuti di treno dalla metropoli. Rango è il pessimismo cinico dei media, il giornalismo spettacolo dei gufi messicani sempre pronti a prevedere il peggio, a compiangere per primi in diretta l'ormai quasi certo futuro moribondo, restate collegati vi forniremo ulteriori drammatici sviluppi dopo una brevissima pausa (come l'intervista Batonga Batonga di Natural Born Killers). Rango è un film enorme, non riuscirò mai a parlarne in modo compiuto senza riempire pagine e pagine. Niente sembra lasciato al caso, in Rango, dal camaleonte come animale totemico dell'attore, camaleonte che entra in crisi di identità per la solitudine forzata ma lussuosa di una società che non è più nemmeno post-moderna ma non sappiamo ancora il nome con cui verrà definita dagli studiosi quando sarà una civiltà (finalmente, l'agonia è straziante) tramontata. La musica, dalla cavalcata delle valchirie remix alle armoniche a bocca degli spaghetti western con Bronson Nessuno che vendica il padre, ai sombreri delle chitarre messicane. E poi la chiusura delle comunità isolate, sia mentale che fisica, per sofferenze che impongono una selezione continua e una forte motivazione e un credo condiviso per la semplice, rieccoci, sopravvivenza come gruppo, dove chi si isola diventa un teschio che brucia al sole in mezzo a una distesa sterile e indifferente (altra metafora sociologica così attuale). Rango è un film western (è un genere che non va per la maggiore, non ci sono alieni blu che fanno sesso in 3D unendo le trecce, non ci sono intere città che esplodono in un'orgia di effetti digitali, non ci sono persone che corrono inseguite in macchina dalla polizia per un reato che non hanno commesso). Rango è un film di animazione (animali parlanti, canzoncine, lieto fine, se si viene a sapere in giro che guardi roba del genere la tua reputazione di hippie gangster sciupafemmine 'oh yeah dammi il cinque baby va' che cannone ma scansati', verrà irrecuperabilmente danneggiata).
Rango parla della necessità di trovare l'altro per dare solidità a se stessi, per diventare concreti, acquistare peso e dimensione, mantenere fede agli impegni fino, se necessario, al sacrificio personale, diventare reali (realizzarsi), prendere su se stessi, accettare che siamo dei pesciolini a molla gettati via, nel caso specifico, e attraversare la strada trafficata per incontrare lo spirito del deserto: una follia, un'assurdità. La parte mistica del film è difficile da digerire per un adulto, ma per un bambino è normale che i cactus, la natura personificata, mostrino all'eroe la strada per capire il mondo, che ogni enigma si sveli, e i piani di un sindaco falso e crudele saltino di fronte alla verità e il pistolero con cui è sceso a patti gli si rivolti contro. L'insegnamento morale in Rango viene miscelato dentro a una narrazione che stempera l'approccio educativo tipico della pedagogia che si impone senza zone d'ombra, snocciolando postulati. Rango rispetta quella che in fondo è la tipica filosofia morale del protestantesimo che si lascia ammorbidire dalla durezza del far west, fatto di un territorio che non ama e non vuole essere amato, così impermeabile al concetto di immanenza benevola spinoziana o di provvidenza e giardino dell'eden tanto caro al mito dell'esplorazione post-illuminista, il deserto come un luogo che non permette fino in fondo il radicarsi del determinismo e della predestinazione ma che è forgia di nuove consapevolezze, distillatore di pensieri notturni alla Chopen, romantici di un solipsismo vertiginoso, che mettono a nudo l'origine del malessere oscuro e profondo che prova l'uomo del 2000 nel momento in cui andasse via la corrente, perché noi viviamo ignorando volontariamente il fatto che l'artificialità del nostro mondo è fragile e provvisoria, che basta vada via la corrente, finisca il carburante, per gettarci in un panico emergenziale, legato alla vera e propria sopravvivenza dell'individuo prima che della famiglia della comunità del popolo dell'umanità (mi viene in mente La strada di McCharty, ma sono molti gli esempi di catastrofismo, molte fiction ma anche previsioni scientifiche), che nessun romanticismo potrebbe mai aiutarci a sopportare. Noi stiamo ignorando l'elefante nella stanza, questo ci dice Rango, non perché preferiamo così ma perché non abbiamo scelta. Noi facciamo la vita di un animaletto in cattività e siamo contenti così, non vogliamo essere criticati per questo, non abbiamo nessuna intenzione di sentirci in colpa perché è un nostro diritto, abbiamo diritto a questo e a quello, così ci ripetono da decenni i politici, voi avete diritto!, e invece quell'altra cosa lì, non spetta a me, non è dovere mio, al massimo ti mando un sms per versare due euro sul conto corrente e aiutarti da lontano. Nel far west non lo puoi fare, non è così che si fa, nel buon vecchio west, magari ti sparano come a un cavallo zoppo, ma non ti prendono in giro.
Nessun commento:
Posta un commento