Mi hanno spiegato cosa avrei dovuto aspettarmi e io ho creduto ai vecchi, agli esperti, ai saggi, i depositari che nella Bibbia possiedono quella cosa chiamata sapienza. Nella Bibbia non è intelligenza, non è cultura, non è buon senso, non è intuito. È sapienza e viene giù dall'alto, devi aprire la bocca e lasciare che la pioggia te la riempia, che Dio te ne distilli un po' da quell'organo che Dio ha dentro di sé, una sacca pulsante di cose luminose e buone che nuotano una attorno all'altra con apparente disagio, gocce di sapienza per non lasciarti in preda all'ansia, sconvolto dall'incapacità di comprendere nel profondo quanto ti circonda, toccare il noumeno e venire incenerito per l'affronto. Perché non avrei dovuto fidarmi delle facce rugose, dei nonni che quando li baci ti graffiano con barbe dure e ingrigite? Dei libri anche, libri su libri che ti mettono in guardia, che ti raccontano come vanno le cose, come sono andate, come potrebbero andare, così che tu non venga sorpreso dal temporale della sapienza quando pensavi di avere ancora tempo, di poterne fare a meno, perché certe cose succedono solo altrove, solo agli altri, e comunque mai prima che ci sia data la possibilità di affrontarle in modo dignitoso, senza pericolo di venirne inceneriti.
La ragazza era bella, felice anche. Teneva il broncio e scuoteva la testa per muovere i lunghi capelli che poi con un gesto della mano raccoglieva attorno al collo. A quel punto si girava verso di te e sorrideva per farti capire che era ben consapevole del potere che aveva su di te, non aveva segreti il tuo restare immobile a osservarle il broncio, a seguire il gesto meticoloso sempre uguale a se stesso mediante il quale riportava i capelli all'obbedienza, fino al momento del sorriso, del come sei buffo col tuo desiderio immaturo, la tua capacità di farti bastare un'espressione e un movimento per costruirci attorno sogni confidenziali da non più bambino e non ancora uomo. La pelle abbronzata nell'aria umida, la cicatrice portata con la sicurezza di un ricordo d'infanzia, di una partita finita da troppo tempo per ricordarsi vincitori e vinti. Si sentiva corteggiata, si sapeva benvoluta, tutti noi pensavamo che se mai ci fosse stato l'equivalente di un principe azzurro nei paraggi, l'avrebbe scoperta e portava via con sé. E invece no. Il suo sorriso divenne obliquo, il suo sguardo acquoso e a mezz'asta, le costole sporgenti, i capelli opachi e fragili, le gengive sanguinanti.
L'epilogo, ciò che arriva dopo la fine, perché niente finisce mai davvero. La giovinezza, con la lista delle cose da fare attaccata al frigor con la calamita a forma di personaggio dei cartoni animati. Arriva l'epilogo e ti ricordi della lista, vai a vedere se per caso è ancora lì, dopo tutti questi anni, ed eccola, impolverata e sbiadita, la lista delle cose che non hai fatto e ormai più non farai. Si chiama epilogo, quando trovi oggetti che hai appoggiato distrattamente su una mensola quando credevi che ci fosse tutto il tempo del mondo per occuparsene in seguito, cose che rimangono sul piano del tangibile solo per ricordarti tutto quello che volevi fare nella vita, quello che hai rimandato senza nemmeno trovare la forza o l'occasione per cominciarlo, quello che hai iniziato e che hai abbandonato, ora sai per certo di non poterlo completare. Magari uno pensa che l'epilogo arriva giusto prima di morire, una forma di nostalgia senile per infinite vite da recuperare in mondi paralleli, in rinascite future. E invece no. Quanti piccoli epiloghi ci sfiorano quando siamo distratti, quando non ne vogliamo sapere, quando ci ridiamo sopra, quando ci prendiamo il lusso di sentirci esenti, almeno per un altro po'.
Quando vedo che è stata lei a suonare il citofono mi aspetto che dica qualcosa e se ne vada, non che mi chieda di entrare, per parlare. Il principe azzurro che si grattava il naso, che teneva le maniche lunghe anche d'estate, ora non c'è più. Le è rimasta addosso di lui l'occhiata infida, il portamento sconfitto e guardingo, un tatuaggio che lei nemmeno voleva ma che lui aveva tanto insistito. La cicatrice che prima chiedeva di essere blandita ora si limita a impietosire. Sento di vivere l'ennesimo epilogo perché hanno sempre l'identico sapore, amaro, l'odore di idee avute ieri. La ragazza fuma le mie sigarette, una dopo l'altra, spiegandomi che le servono dei soldi, che è venuta per chiedermi un favore, un grandissimo favore, un favore in nome delle vecchia amicizia - quale?, mi chiedo -, un favore enorme e importantissimo. Prestarle dei soldi, e tira su col naso, fuma le mie sigarette e quelle mani che una volta governavano onde di capelli piene di riflessi ora sono appendici nervose che schiaffeggiano l'aria, si muovono senza criterio, solo per il gusto di esprimere disagio. Ha fretta di arrivare al dunque, di sentirmi dire va bene, eccoti dei soldi, ti pago per non rivederti mai più. Come se fosse colpa mia, come se dovessi sentirmi in colpa io per quello che sei diventata tu.
Gli epiloghi li nascondiamo in cantina, nelle soffitte, cerchiamo di sbarazzarcene come fossero le prove dei nostri delitti. Cos'è che volevi fare tu da grande? Cosa ti facevano venire in mente gli oggetti che hai buttato via in solitudine, come si fa quando si vuole elaborare un lutto, i gesti simbolici che in teoria dovrebbero darci una ripulita dentro, in fondo, dove sentiamo piccoli insetti che si riproducono e non possiamo dirlo ad alta voce, lo sanno tutti che non esistono piccoli insetti dentro, nel profondo, che scavano e a volte ridono, oppure è solo un suono immaginato, in realtà non fanno altro che quello per cui sono stati programmati, muovere le zampe con circospezione, compiere interminabili ricerche nel buio. Non ne voglio di sapienza, non so cosa farmene, mi basta avere una lista con sopra una sola parola e che quella parola sia stata consumata, non mi possa più dare noia, mi sia concessa la pace, un simulacro di quiete, una tregua serena. Mi sia dato il potere di cancellare le mie tracce, di non giungere in alcun luogo prefissato, mi venga elargita la facoltà di esercitare il comando sugli epiloghi. Ordino che svanisca ogni pretesa di realizzazione, ogni margine di compimento, che ogni conclusione rimanga inespressa, ogni pretesa si mantenga inevasa.
Quando mento anch'io, dicendo che non ho soldi, lei dice che suo padre la picchierà, che suo padre l'ha già picchiata, che suo padre la picchia per via delle multe, che ha preso una multa e per questo le servono i soldi, i miei soldi, perché altrimenti verrà picchiata. Immagino suo padre che la picchia per aver preso una multa, per non avere i soldi necessari al pagamento della multa. Rido. Non la accuso di raccontarmi bugie, non ci riesco. Lei dice ti prego farò quello che vuoi ma dammi anche poco, non devi per forza darmi tutta la cifra che mi serve, dammi almeno qualcosa, faro in cambio quello che vuoi. Rido ancora, non mi sembra vero di averla sentita dire parole così poco adatte alla bella ragazza che è stata molti epiloghi fa. Adesso sta diventando cattiva, matura il disprezzo che tiene in serbo per quando smetterà di illudersi sulla possibilità di spillarmi quattrini. La voce della ragazza in questo specifico epilogo è diventata roca, le occhiaie profonde, i modi bruschi. Mi chiede qualche sigaretta prima di andarsene, da fumare dopo, e io l'accontento, le regalo quel che rimane del pacchetto, evitando di guardarla negli occhi quando lo afferra e lo ripone in una tasca interna. La guardo andare via - si volta a fare il sorriso dei bei tempi andati, o almeno ci prova, il sorriso che vorrebbe cancellare l'ultima mezz'ora - e chiudo la porta, col terrore di sentirla bussare, tornata sui propri passi, sforzandomi di pensare che ci sia ancora un epilogo diverso per lei, da qualche parte, più avanti, in attesa di manifestarsi.
Epiloghi se ne leggono ogni giorni dei più strani. Morta schiacciata da un semaforo, spara al cane poi si uccide, scivola sul ghiaccio e finisce impalato, trovato dopo sei settimane perché i vicini hanno sentito la puzza. Gli epiloghi, quelli definitivi, sono sempre brutti. Se finisce bene è per un po', mai per sempre. Eppure siamo pieni di storie prive di epilogo, viene nascosto come un parente scomodo, cancellato mediante un colpo di bisturi mentale come fosse un inestetismo della vita e non una pioggia infinita di sapienza che prima ti disseta e poi ti annega. Il diluvio universale lo immagino sempre come un giorno in cui dio era in vena di confidenze e si è messo a scodellare sapienza su sapienza, a lanciare manciate di epiloghi, un esercito di angeli cecchini che prendono la mira e ci ficcano proiettili di sapienza dritti nel cervello. Chi può sopravvivere? Solo uno stolto, un deficiente, una mente impermeabile e ottusa. Beati i citrulli, perché moriranno nel sonno e tutti diranno guarda com'è bello, si vede che non ha sofferto, sembra che sorrida. Beati gli ebeti e i mentecatti, perché non sentiranno la mancanza degli epiloghi né dovranno subirne il verificarsi. Beati loro, beatissimi.
La porta rimane chiusa e ci separa, io di qua e lei di là, stavolta. Non come tanto tempo prima, quando gli epiloghi erano piccoli, insignificanti, la perdita dei denti da latte, la bici senza rotelle, delusioni facilmente comprimibili, digeribili, quando si è convinti di potersi rialzare da qualsiasi caduta, che non esistano ferite sempre aperte. Era entrata e aveva chiuso a chiave la porta dietro di sé, si era slacciata i pantaloni e si era infilata la chiave nell'elastico delle mutandine. Non riconobbi il motivo stampato sul cotone bianco, un personaggio giapponese da femmina che avevo già visto da qualche parte anche se in quel momento non sapevo dirne il nome. Non successe niente, mi rifiutai di stare al gioco. Le dissi solo bello scherzo, adesso apri. E pensavo non so nemmeno come si chiama la roba che hai sulle mutande, e nemmeno lo voglio sapere. Non voglio vincolarmi a te, diventare quello che un giorno, nel passato, ti prese la chiave dalle mutandine. Devi restare la ragazza bella e felice che si copre la bocca quando ride, non la protagonista di un epilogo squallido, buono solo a rovinare tutto, a segnare una parentesi nella sequenza dei ricordi felici. Lei disse all'orecchio delle amiche che forse ero gay, e anche questo è un epilogo, uno dei tanti che formano la catena con la quale ci leghiamo, dentro la quale ci accoccoliamo quando non riusciamo a prendere sonno.
martedì 8 febbraio 2011
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