martedì 8 febbraio 2011

Ri-epiloghi (2 di 2)

G. aveva una vespa cinquanta verniciata di solo antiruggine, quello color mattone. La trovano parcheggiata al lato della sterrata che corre tra il canale e la ferrovia. Non buttata in terra, non scagliata nell'acqua. Ha le chiavi inserite, non è una dimenticanza. Siamo in primavera, potrebbe essere entrambe le cose: risucchiato da una corrente o schiacciato dal treno. Alcuni dicono che ci sono volute ore per trovare tutti i pezzi, altri si ostinano a riferirsi all'accaduto usando la parola incidente. Ha parcheggiato, ha lasciato dentro le chiavi, è ovvio che intendeva tornare indietro, come si fa a dire che non è un incidente, che l'ha fatto apposta.

G. non aveva soldi, vendette la catenina d'oro del battesimo per comprare del fumo che non faceva neanche ridere, tanto era scadente. Lo fece per sdebitarsi con gli amici, così pensarono F. e T., prima di capire che era stato un regalo d'addio. Gli amici, se si possono chiamare così gli unici coetanei del paesello, un posto dove conta chi e come ti ha truccato il motorino, conta se sei uno che va incontro al rischio di fare a botte per difendersi da un'offesa o se sei uno che lascia perdere, che ha qualcosa da perdere, una reputazione da difendere che non sia quella del ragazzo che è meglio non infastidire. Gli amici, quelli che frequentano il parchetto vicino alla chiesa, con i quattro giochi arrugginiti che non usa mai nessuno, quelli che non si ritrovano a casa l'uno dell'altro per mangiare cose buone e giocare a giochi belli, che non vanno in palestra, in piscina o un qualunque posto dove per entrare si deve pagare. Gli amici che un giorno F. è arrivato con in tasca una cosa proibita e i bambini che giocavano al pallone si sono trasformati in quello che sono adesso, qualcosa che non ha un nome pronunciabile ad alta voce, qualcosa che spaventa le persone per bene.

G. ha mollato la scuola per andare a lavorare, i soldi in famiglia non bastano mai, se vuoi continuare a vivere con noi devi contribuire. G. molla la scuola e va a lavorare, sulla sua vespa antiruggine, convinto che sia la cosa giusta da fare, che tanto non sarebbe mai diventato qualcuno, che tanto la scuola ti porta a lavori che stai sempre seduto e ti ammali e diventi pure stronzo di carattere. Al lavoro di giorno e la sera al parchetto con gli amici per una partitella al pallone prima di cena, all'inizio, per farsi le canne, in seguito, per calarsi di brutto, alla fine. Che G. a quel punto partecipava come spettatore, limitandosi al fumo, andando a casa quando si iniziava a far sul serio, che lui doveva alzarsi presto, doveva essere pronto a lavorare, non poteva permettersi di venire licenziato e smettere di portare soldi a casa. Gli amici invece si lasciavano andare, F. diceva che la droga ti fa avere tutto, i soldi con lo spaccio e anche le ragazze, dopo un po'. G. si spettava di veder comparire la polizia, sera dopo sera, ma la polizia non arrivava mai. G. si chiedeva se la chiamassero e non si disturbasse a intervenire, come se lo ritenesse inutile, o se nessuno si prendesse nemmeno la briga di chiamarla, dandoli ormai tutti per spacciati, per abitanti di un altro mondo, come quando sua madre al mercato si voltava dall'altra arte per non vedere un mendicante.


G. non aveva una ragazza. Come l'avrebbe mantenuta una ragazza, dove l'avrebbe portata? Se vuoi una ragazza devi essere in grado di tenere la testa alta, di garantirle sicurezza. F. non si faceva di questi problemi, lui iniziava dicendo vuoi fare un tiro e diopo un po' le sue ragazze lo chiamavano per la dose e pagavano in natura. F. che era pazzo, e anche T lo era, entrambi impazziti di eroina, pasticche, cocaina, che l'hashish per loro era come bere acqua di rubinetto. Era pazzo vero, F., si convinceva che le ragazze lo tradissero, si accorgeva che stavano con lui solo per la droga, che non lo amavano davvero. F. ci impazziva e si sfogava contro la verità picchiandole, a volte con foga, come quella ragazza a cui provocò un taglio sullo zigomo per poi scusarsi dicendole tanto una cicatrice ce l'avevi già da prima. F. e T. che quando iniziano con la roba forte parlano sempre delle stesse cose, dicono che tutti fanno come loro, che i ricchi e i famosi sono come loro, usano solo droghe più costose e scopano donne più belle. Si danno ragione a vicenda, F. e T., mentre G. quella sera dice offro io, e i suoi amici non gli chiedono dove ha preso i soldi, gli vendono un fumo che non fa nemmeno ridere e fanno i nomi degli attori colti in flagrante, dei cantanti soffocati dal loro stesso vomito in lussuose stanze d'albergo. G. vorrebbe far notare che è roba di anni '60, sono passati più di 20 anni, ma sta zitto, aprire bocca non porterebbe a niente, solo a polemiche senza capo né coda.

G. sa che non è vero niente, c'è una parte di sé che rifiuta di afflosciarsi e seccare, la parte che gli suggerisce di riprendere gli studi, di mandare giù l'equivalente aziendale del nonnismo in cambio della possibilità di avere una carriera diversa dai prevedibili scatti di anzianità. La parte che gli dice con voce pacata e ragionevole che potrebbe aspirare alla macchina famigliare, al mutuo sulla casa ancora tutto da pagare. Ma chi vogliamo prendere in giro, replica G. a quella vocina stupida, mi vedi? Vedi chi sono, vedi dove vivo? Accusa la propria famiglia, G., accusa gli avi, accusa la società, il destino, tutte le divinità che gli vengono in mente. Due settimane prima di sdraiarsi sui binari era con me giù alla cava, tiravamo fuori pesci gatto tanto per passare il tempo, li pescavamo ributtandoli dentro, G. mi diceva che B. non diventerà mai un campione, che si è rotto la clavicola, per la seconda volta. Finirà barista come suo padre, dice G., e il tono della sua voce mi ha fatto sentire freddo nella schiena. B. stava con quella ragazza, dico io, quella bella. G. annuisce e dice ci stava, sì, quella con la cicatrice, prima che lei accettasse l'invito di F. a fare un tiro, una sniffata, e poi un buco. Al che io gli chiedo ma tu ti droghi? E lui fa spallucce, dice ci vogliono troppi soldi e prima o poi finisci in galera. Ma secondo te, gli chiedo, è vero che si passa dalla leggera alla pesante? G. annuisce, dice bisogna accettare, bisogna sentirsi come uno che ha raggiunto l'ultima pagina, l'epilogo, come uno che se mai ha avuto una storia da raccontare quella storia l'ha già consumata, oppure non se la ricorda più, non sa come va avanti, o lo sa benissimo ma non vuole più sentirla uscire dalla propria bocca. Per un po' siamo stati zitti, e a un certo punto G. ha detto mi sembra che i pesci non abbiano più fame. Sì, gli ho detto, porca troia c'hai ragione, cazzo di budda, andiamocene fuori dalle balle mi son rotto i coglioni di stare qui in questa merda di cava, e non so spiegare perché sentissi all'improvviso tanta necessità di dire parolacce.

G. l'hanno trovato il giorno dopo, sono passati diversi treni nel frattempo, nessuno inizia a cercarti se non sono passate un certo numero di ore dalla denuncia. L'ha trovato uno di quegli uomini che cercano di restare in forma correndo. A volte hanno un cane, a volte si mettono calzoncini da maratona e canotta di rete come se si reputassero immuni dal poter dare scandalo. Per essere precisi trovò la vespa, parcheggiata in modo da non ostacolare il passaggio, con le chiavi inserite una nel quadro e l'altra nella serratura del cassettino, unite da un portachiavi a molla iridescente, di quelli che andavano di moda in quel periodo. Il guaio di essere poveri in un piccolo paese o in un palazzo di periferia è che non puoi scappare quando arrivano i cacciatori, armati di sogni infranti e pezzi di fumo scadente, di rabbia nei confronti della società e di strategie indiscutibili per portare giustizia nel mondo a forza di guerriglia urbana. Liberare gli schiavi, sfamare gli africani, togliere ai ricchi e dare ai poveri, così potranno comprare la droga e anche le pistole. Finalmente basta a tutta questa confusione, a questo odio, a questa continuo insultarci a vicenda. Siamo tutti sulla stessa barca, sono discorsi del genere che fanno F. e T. dopo aver citato Jimi Hendrix e Jim Morrison, imitando le schitarrate con la bocca, nanana vuduciaild laitmaifair. G. non ci stava, quelli ci usano, diceva il sabato sera, l'unico giorno della settimana che non doveva andare a letto presto e poteva restare fuori con gli amici, quelli come lui, i drogati del parchetto vicino alla chiesa. Vanno in tivvù e sui giornali a parlare difficile, diceva G., e mandano noi a prenderci le botte, a gridare e spaccare tutto senza avere un'idea precisa del perché. Gli amici a lasciarlo dire, aspettando che finisca il discorso per rimettere la palla centro zero a zero, non ti ho nemmeno ascoltato. Ridevano, gli amici, dicevano senti come parla G. quando è fumato, ma G. io l'ho sentito parlare così anche da normale. Un vago senso di fratellanza, un lavoro di squadra, dice G. pur sapendo che sono parole buttate, ci dicono solo quelli ci amano e sono dalla nostra parte, quelli ci odiano e dobbiamo schiacciarli. Semplice come un derby, dice G. quell'ultima sera. G. che ha venduto la collanina, ha visto belle ragazze diventare puttane, ha ascoltato per migliaia di volte i discorsi farneticanti dei tossici, G. che ha visto finalmente arrivare la polizia, e quella sera G.fu l'unico che trovarono pulito, l'unico che non venne portato in caserma.

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