You don't know Jack è il titolo di un film biografico, la vita del soprannominato Dottor Morte, Jack Kevorkian. Come tutte le biografie 'trasposte sul grande schermo' (strano che non ci sia il copyright sui cliché, le frasi fatte, i modi-di-dire), anche questa paga dazio al bisogno di romanzare la storia per allontanarsi dal filone documentarista e irretire quella grande fetta di pubblico che è fortemente allergica a tutto ciò che è cultura, riflessione, intelligenza, approfondimento. Se prendete, ad esempio, A beautiful mind e andate a leggere il libro da cui è stato tratto vi sembrerà una vera e propria truffa affermare pubblicamente che il film è 'tratto', si dovrebbe avere degli scrupoli anche solo ad affermare che il film è 'ispirato' al libro. Ma comunque, tant'è, il mondo è fatto così, chi si lamenta ottiene solo sbuffi e solitudine. Solo per dire che va preso con le molle anche questo film sulla battaglia di un medico di origini armene disposto a rischiare il carcere pur di ottenere una legge chiara sul diritto al suicidio assistito.
Il dottor Kevorkian è un Pacino bolso e disarmato che porta in giro la pancia del bevitore di birra in un cardigan lavanda stinto che fa molto pensionato appena sotto la definizione di benestante, di quelli che una volta erano classe media e adesso cercano di nascondere la perdita del potere d'acquisto di quella che allora, quando versavano le rate dell'assicurazione, sembrava in prospettiva un ricco assegno pensione. C'è chi inizia a giocare a golf, chi impara a pescare, chi va a leggere il giornale tutti i giorni sulla panchina al sole d'inverno e in ombra d'estate (se volete sapere quali sono le panchine migliori di un parco cercate quella con sopra dei vecchietti armati di giornale), Jack invece si dedica a un nobile ideale: la prosecuzione della sua professione in altri modi, la somministrazione di medicinali come forma di lotta politica.
Nel film Jack Kevorkian diventa una specie di Ghandi, di Einstein del diritto e dei dilemmi etico-morali, in un mondo di manifestanti deficienti (e nella realtà spesso lo sono), di avvocati deficienti (e nella realtà spesso lo sono), di giornalisti equilibrati e profondi (e nella realtà spesso non lo sono), di poliziotti taciturni e gentili (e nella realtà spesso non lo sono), insomma la presa per i fondelli della storia romanzata si nota benissimo anche se la presenza di malati gravi, malati veri, malattie vere, confonde le idee. La malattia incurabile, la sofferenza del condannato a morte, l'agonia del malato terminale sono l'unica e inconfutabile verità che emerge dalla vicenda del Dottor Morte. Non il suo avvocato che lo difende gratis per ricavarne pubblicità e candidarsi a governatore. Sembrano tutti quanti mossi da motivazioni nobili, del tutto disinteressate, compreso il protagonista che - in una delle rare parentesi di verità che giustificano il collegamento con la vita vera da cui la sceneggiatura è stata 'tratta' - dichiara di credere nel dio Bach, il compositore, non quello dei fiori, l'unico dio che non sia frutto di invenzione, e lo dice con la voce del Pacino anch'esso vero, quello perfetto nei panni di personaggi corrotti e malvagi.
Un film con anche il dimagrente Goodman, il sarebbe ciclope dei Cohen in Fratello dove sei?, e l'invecchiante Sarandon, la Louise che si lancia con la macchina nel precipizio nel famoso film neo-femminista, strano non ci sia anche Sean Penn, di solito si butta a pesce se la storia puzza di politica, un cast che ci ricorda la vocazione pedagogica hollywoodiana, il progresso della civiltà l'abbiamo strappato dalle mani elitarie della cultura e l'abbiamo democratizzato nei media popolari. E forse è giusto così, non sto dicendo di no, mi limito a ribadire il risaputo. La parte migliore del film è la sentenza finale del giudice, che dimostra la differenza che passa tra la semplificazione attuata per raggiungere il maggior numero possibile di utenti-clienti, a scapito della profondità di analisi e grazie alla spettacolarizzazione dell'altrimenti banale, e la limpidezza di argomentazioni precise, coerenti e dettagliate, anche se incomprensibili a tutti coloro che non possiedono gli strumenti per orientarsi nel mondo della cultura alta, dove le idee sono espressione di un vasto reticolo di contaminazioni e riferimenti.
La vicenda è comunque attuale, Jack è uscito di galera nel 2007. Ha ucciso una persona e ne ha aiutato a morire più di cento. Il passo definitivo l'ha compiuto, stando alla ricostruzione cinematografica, per spingere gli Stati Uniti d'America a legiferare in materia. Infatti se nel suicidio assisistito si forniscono al moribondo gli strumenti per una morte rapida e indolore senza causarne materialmente e direttamente il decesso, nell'eutanasia si dà la morte. Mentre non esiste una legge che possa addossare la responsabilità del suicidio su terzi, esiste invece una legge che punisce l'omicidio, al quale viene equiparata l'eutanasia. Il dibattito è molto interessante e articolato, al punto da far ritenere sciocco il Dottor Kevorkian a superare la linea che separa il suicidio assistito dall'eutanasia che può venire paragonata a procedure di scienza applicata alla politica di stampo nazista.
Le ragioni di chi preferisce il vuoto legislativo sul suicidio assistito, prima ancora che sull'eutanasia, non sono da ritenersi meno valide rispetto a quelle di chi sostiene il diritto di decidere per sé anche in tema di vita e di morte. Ci sono moltissime ragioni pratiche che allontanano le situazioni perfette dalla miriade di situazioni imperfette che ci proporrebbe la fantasia insuperabile della realtà. La stessa distanza che separa la musica dal rumore, la matematica dal sentimento, la cultura dallo sport. Si rischia che ogni singolo caso debba venire sottoposto a rigorose analisi, documenti da firmare, specialisti da consultare, turbe mentali da escludere, e alla fine chi vuole fare tutto per bene rischia di metterci troppo tempo, di non arrivare a niente per eccesso di prudenza nelle conclusioni di un esperto chiamato a spaccare il capello e assumersi responsabilità che nessuno vuole. Intanto per strada qualcuno si spara, si ingozza di barbiturici, ci ricorda che in fondo la vita e la morte sono questioni di un attimo, di un bottone schiacciato come di un grilletto premuto, che il ripensamento non esiste per chi non più non pensa né può pensare. E magari tanti di loro non hanno nemmeno la scusa di un dolore immenso e implacabile, di un'agonia spietata e distratta.
P.S.: Ah, i quadri. Pare che si dedicasse anche all'arte, il Dottor Morte. E alla musica. Senza dubbio è un personaggio che merita di venire ascoltato senza pregiudizi.
P.P.S.: Se qualcuno vuol sapere come la penso per congratularsi o insultarmi, il suicidio assistito non è un diritto ma di certo è un grosso favore, e di certo non è reato a meno di inganni, certo, a meno di inganni, mentre l'eutanasia non è altrettanto semplice da inquadrare giuridicamente, eticamente, moralmente, è e rimane togliere la vita non a se stessi ma a terzi.
mercoledì 23 marzo 2011
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