Eccolo il principe toccarsi la falda di un cappello invisibile, il gesto sciocco che si prende gioco della disciplina, delle raccomandazioni, delle troppe ripetizioni andate a vuoto. Il principe mi saluta cadendo sul ginocchio sinistro, facendomi la cortesia di indovinarlo, estrae il pugnale e me lo porge dallo stesso lato, lo sgarbo intenzionale del mancino. Conto i passi sorridendo, lo chiamo da lontano come se gli volessi bene, ripeto il suo nome con la voce di chi è felice dell'incontro. Quando sono abbastanza vicino uso lo stivale per dare un calcio, uso il dorso della mano per assicurarmi che non si permetta di alzare lo sguardo. Nessuno mi dice si calmi, nessuno mi stringe per tenermi le braccia. L'oste si accanisce sul legno, finge di non sentire, di vivere dentro alla bolla del dovere, dentro ai circuiti e alle bobine della spazzola che stringe in pugno, il suo corpo dice sono parte del panno che uso per tirare a lustro le suppellettili. A quest'ora solo gli ubriachi dondolano stupore e divertimento, e il principe, con quella sua testa deforme che prendo a sberle fino a schizzare saliva, fino a rabbrividire di sudore giù per la schiena. Schiaffeggio i bitorzoli e le cicatrici, i miei anelli che graffiano lo scalpo del principe che ormai giace sdraiato in singhiozzi e si tappa le orecchie coi pugni. Tutt'intorno il silenzio che si deve tributarmi per legge, il silenzio che non si rompe senza autorizzazione, il silenzio che mi accompagna dalla nascita, in cui mi immergo per dimenticarmi il di lei sorriso, la di lei corsa a piedi nudi nei corridoi del palazzo, il silenzio di cui andava immune prima di venirne abitata per via del principe e delle sue patetiche manie.
È un silenzio pieno di voci che danno suggerimenti sbagliati, è un silenzio fatto di occhiate e dinieghi e contrordini, di tradimenti per il di lei bene, di sotterfugi e contratti, di torture e condanne. È un silenzio che la testa del principe non può contenere per via degli echi e dei rimorsi, dello svegliarsi con la certezza che il cuore sia scoppiato. Vorrei sedermi per terra e ordinare la morte dei testimoni, sto costruendo un ponte di cadaveri per non bagnarmi i piedi. Ma sono pensieri dovuti alla natura del silenzio connesso al mio servizio, sono una forma di devozione alla di lei beatitudine, costretta a divorarsi un pezzo alla volta, dal di dentro. Così rimango in piedi, composto, mi guardo intorno passando in rassegna i presenti, sfidandoli a incrociare il mio sguardo, e solo quando hanno avuto modo di sentire il peso di una colpa senza nome, solo allora dico a voce alta Chiamate le guardie. Il sollievo di potersi trovare altrove è una necessità perfino dell'oste, che trova addirittura la forza di rimproverare il garzone, come chi si rimette i vestiti quando il medico ha finito. Il principe non trema più, osa rimettersi in posizione, allunga la mano disarmata e stavolta è quella giusta. Il principe rimane così, in attesa del permesso di parlare, e io non ho più voglia di ucciderlo, non ho più voglia di eliminare dal mondo l'obbrobrio di quella testa, non ho più voglia di silenzio. Dalla strada giungono schiamazzi, risate, lo sferragliare di metallo in avvicinamento. Cos'hai da dire, chiedo. Il principe guarda in terra e dice. A voce alta, grido. Il principe dice La verità.
Ci sono uomini armati che non sanno cosa fare, non trovano obiettivi da infilzare, squartare, sbudellare, se ne stanno li a tirare il fiato nelle maschere antigas. Non c'è nessuno che grida, nessuno che impartisce gli ordini, nessuno col coraggio di ammettere di avere sospetti sul principe, di essere a conoscenza del dramma. Le guardie nascondono la tristezza dei discorsi che tirano fuori le donne dopo l'amplesso, cacciano l'immedesimazione dietro a maschere di spietata efficienza perché hanno imparato che gli uomini rispondono al dolore con il rispetto e il silenzio. Il rispetto che diventa compassione all'aumentare del di lei patimento. Il silenzio che diventa sempre più denso, soffocante, ogni giorno della di lei agonia moltiplica le dimensioni di un silenzio che ha contagiato la luce, ha tolto lucidità alle squame dei pesci, rotondità alla frutta matura, leggerezza al piumaggio. Le guardie aspettano, hanno mandato a chiamare il capitano, uomo invecchiato nel giro di poco, cadendo da cavallo, l'onta del trascinare una gamba per il resto della vita lo ha reso insensibile e permaloso, le occhiaie permanenti di chi va alla ricerca di vendetta contro tutti gli dei e i demoni, nessuno escluso. Il capitano spinge lontano le guardie e avanza con la spada innescata a ronzare minacciosa. Il capitano rovescia la sedia occupata da un ubriaco allucinato e sporco di vomito. Il capitano ritorce un baffo per darsi coraggio, il dolore che gli provoca l'inchino è nulla in confronto alla consapevolezza che gli altri si accorgano della sua debolezza, storce appena la bocca allo scricchiolare dell'articolazione. Portatelo via, dico al capitano.
Lasciatemi solo, dico per guadagnare una distanza di qualche passo dalle guardie, per sentirmi meno oppresso dalla cenere nell'aria e dalle nuvole scure in agguato da giorni sui confini orientali, a suggerire incendi indomabili. Non possono abbandonare il servizio, devono proteggermi e rispettare i giuramenti. Possono stare alla distanza che va tra la loro sensazione di pericolo e le necessità della mia sicurezza. La verità. L'ossessione per la di lei felicità, la consacrazione al di lei divertimento. Gli innumerevoli viaggi, le imprese azzardate, il costante pensiero alla di lei sorpresa quando avrebbe ricevuto i doni. Pensavo alla verità camminando per le strade, elargendo cenni di benevolenza agli apprendisti che improvvisano commissioni urgenti per incrociarmi sulla via, annuendo alle matrone dalla saggezza inacidita e alle serve con le bocche rugose e lo sguardo rapace, ispezionando i negozi e i laboratori occupati da lavoratori orgogliosi che alimentano le vaporiere e controllano i fusibili, affaristi eleganti in grado di fare valutazioni a occhio. Me ne vado elogiando, apprezzando, complimentandomi per ogni dettaglio, sforzandomi di ignorare le domande inespresse sulla di lei salute. Penso che ci vorrebbe un mostro, un grosso drago da nutrire con uomini sfaticati e donne sterili. Ci vorrebbe un drago per far dimenticare al popolo la storia del principe e della di lei repentina infermità. Un mostro terribile che renda obbedienti i bambini, pazienti le mogli, disponibili i mariti. Un mostro da incubo che induca all'onestà i mercanti e all'impazienza gli amanti. Un mostro che renda ininfluente qualsiasi verità.
Un mostro è quello che ci vuole, dico all'ingegnere, trovandolo ancora in attesa sul portone. Ero molto preoccupato, mi risponde. Un mostro, gli ripeto, lo sa fare un mostro? E lui sì, dice certo, un mostro meccanico, sicuro, è quello che ci vuole, dice arretrando, provvederò a integrare la modifica nel progetto, dice si potrebbe e altre cose che sfuggono al mio udito compromesso. Un mostro è quello che ci vuole, dico all'avvocato che se ne sta seduto in punta di sedia nel salottino d'ingresso. Lui non dice niente, mi tende un fascio di fogli che afferro e lascio apposta cadere. Guardo la carta che svolazza e gli li dico la prossima volta faccia più attenzione, gli dico sarebbe preferibile un'azione preliminare nel caso si delineasse e non finisco la frase imbocco uno svincolo, mi arrampico sulle scale a quattro zampe, mi fermo davanti alla porta chiusa della stanza di lei, appoggio la fronte e prego, prego per la venuta di un mostro, prego il mostro di divorarmi per primo, tremando per la paura di un rifiuto. Non sento rumori, solo il ticchettio dell'orrida bestiaccia artificiale che deve aver sentito il mio odore, che è venuta a grattare emettendo versi d'allarme. La verità, maledetto principe, avresti dovuto lasciarla dov'era fin dall'inizio, avresti dovuto innamorarti della menzogna come chiunque altro, avresti dovuto ringraziare una per una le bugie che la vita tiene in serbo per consolarci e tenerci all'oscuro, al sicuro. Dovevi proprio trovarla, dovevi proprio riportarla a casa, dovevi proprio farne un per lei regalo. Ne hai anche per me, di verità, te ne è avanzata, è una magia, sussurrasti al di lei orecchio, è un tesoro, affermasti per la di lei emozione, con quella tua testa impresentabile, è un incantesimo, annunciasti per la di lei eccitazione. Portatemi il principe, inizio a urlare attraversando stanze e corridoi, portatemelo subito.
Nessun commento:
Posta un commento