Una storia dappoco. Di quelle che vanno bene per riempire i tempi morti. Una storia da sala d'aspetto, quando si osservano i presenti guardandosi intorno come per caso. Guarda il termostato digitale, ma in realtà valuta la persona lì vicino, senza fissarla apertamente. Potrebbe anche farlo dal momento che la donna sembra immersa nella lettura di una pubblicità mimetizzata da opuscolo informativo. È la terza volta che se lo rigira tra le mani, quasi cercasse di mandarlo a memoria per recitarlo davanti ai parenti, magari la vigilia di Natale, perché no? Scrosci di applausi, jingle di campane, riflessi di multicolori lampadine intermittenti. La donna non sorride, nemmeno sotto i baffi, nemmeno sotto le occhiaie. Rimane seduta composta mentre alcuni, come lui, sono attratti dal termostato sul muro, una spanna sopra la tinta piega e permanente della finta bionda in tailleur.
Andrebbe bene qui, una storia dappoco come questa. Non nel salotto buono, non sotto la luce fioca dell'abat-jour. È uno strumento per evitare di incrociare lo sguardo degli sconosciuti. È una sala d'aspetto, non puoi guardare dal finestrino e pretenderti assorto dal paesaggio agreste o metropolitano che sia. Ci vorrebbe anche un'immagine, un bambino che ride, un cane che corre, qualcosa di non troppo impegnativo. Siccome è una storia dappoco dobbiamo accontentarci di immaginare, ripararci in qualche modo dalla pressione fisica di queste presenze del tutto orfane di storie proprie, ignari personaggi di storie altrui. Se la donna alzasse di colpo la testa alcuni di essi smetterebbero di fissare il termostato, altri continuerebbero a farlo. Già questo è un indizio.
Lui ad esempio continuerebbe a fissarlo. Poi tornerebbe in sé, come svegliandosi, e mostrerebbe disagio, simulando una mancanza involontaria. La parte più importante in una storia dappoco, quando succede qualcosa che cambia tutto e d'ora in poi niente sarà più come prima. Potrebbe suonare un telefono e la suoneria, la suoneria, chissà che suoni o rumori, che volume assordante in quest'ambiente chiuso! No, è una suoneria standard, un semplice trillo digitale, gentile, educato, proprio come ci si aspetterebbe in una storia dappoco come questa. Oppure potrebbe aprirsi la porta e tutti si volterebbero per vedere chi entra, chi esce. Un vero colpo di scena.
C'è un vecchio col bastone, ci tiene sopra entrambe le mani, ha l'aria di chi sta pensando quello che pensano i vecchi, i pantaloni tenuti su con le bretelle. C'è un ragazzino che non riesce a tenere fermi i piedi, ha messo su un'espressione molto seria, di quelle che possono riassumere anni di ingiustizie. C'è un uomo calvo, inforca occhiali dalla montatura fucsia, guarda l'orologio, scavalla le gambe, guarda la porta, le riaccavalla. C'è la donna che tiene l'opuscolo tra le mani e lo sgrana come un rosario, recitando fra sé preghiere di marketing. E c'è anche lui, non potrebbe mancare in una storia dappoco, una presenza evanescente che non riflette la luce.
Il bello di una storia come questa è che il finale è sempre deludente, quando c'è. La situazione drammatica non si conclude, l'eroe non vince, non c'è climax né anti-climax, nessun mistero viene svelato, nemmeno una squallida catarsi. Possiamo solo sfumare in nero, inserendo nel montaggio un primo piano, un dettaglio che aspira ad essere rivelatore. Se non fosse una storia dappoco sapremmo tutto della vita dei presenti, verremmo a conoscenza della circostanze che li hanno portati qui, ci verrebbe detto cosa stanno aspettando, forse uno di loro, l'uomo calvo?, il vecchio?, verrebbe colto da infarto. Potremmo arrivare alla fine con la sensazione di essere più ricchi, di aver imparato qualcosa. Non è così che funziona, questa storia al massimo riempie un tempo morto, ed è già tanto, tantissimo, potete credermi.
lunedì 5 ottobre 2009
Inserire qui un titolo a caso.
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micro esperimenti narrativi
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