È un formicaio ed io sono un intruso. Camminano a lunghi passi affrettati e non viene scambiata un’occhiata. Il sole ripercorre più volte lo stesso arco di radianti ma orologi non se ne vedono e quei pochi o sono troppo lontani o ne è difficile la messa a fuoco. È per via del calore: la febbre gelida dell’immaginario collettivo. Il traffico sfreccia silenzioso come un torrente di vernice in polvere, con le ombre delle vetture a compenetrare le reciproche velocità relative.
Alcuni abitanti conoscono la direzione; lo si capisce da testa china, espressione desolata. Sono programmi residenti nella memoria alta, daemon del mio subconscio per riempire il centro cittadino altrimenti deserto. A volte un passante si guarda intorno e non si capisce se sia un’ospite giunto da un universo onirico estraneo, un diverso stato mentale rimasto invischiato nell’avvicendamento delle identità, un Es di vite precedenti.
Se provi a chiedere attenzione quello torna in sé e ti licenzia con un gesto stizzito, completando la metamorfosi con un guizzo e un cambio d’abito. Sembra che la maggior parte della gente indossi completi scuri, o almeno sono i soli così omogenei da venir percepiti sotto la volta dei portici, mentre taccheggiano su piastrellati in marmo bianco rosa tinte pastello.
Attraversare una strada, portarsi altrove, raggiungere una qualsiasi destinazione. Una parte di me si preoccupa del ritardo ed un’altra volta ecco il sole regredisce d’una manciata di gradi, quanti ne servono a soffiare sulla schiuma dell’ansia.
Per qualche sconosciuto motivo i semafori non scattano, come se sapessero meglio di me dove e quando è previsto che io prosegua. Se provo a scendere dal marciapiede scatta una selva di clacson e la velocità del traffico si incrementa sull’iperbole dell’accanimento. Non so perché mi riempio di paura quando mi spettina il passaggio di un taxi quando tutto l’insieme predica solenne l’imperativo della normalità.
A un certo punto, se siete già entrati nella mia città, sapete che in fondo al viale, nei pressi della rotonda con erba artificiale, si prosegue nel parco. Ci sono colonne rastremate che fanno male agli occhi, riflessi argentati dell’acqua in lontananza, fuori portata anche gli alberi e gli animali e la gente. Nel parco c’è tutto ma si trova sempre ad almeno cento passi. La distanza sarebbe rilassante con un po’ d’ombra, ma anch’essa dista cento passi e si sposta e si nasconde allo sguardo.
Non ci rimane che superare il ponte e ne saremo fuori. Questa vigliacca città conosce un solo modo per farsi odiare, ma lo conosce bene. La mappa del parco si trova nella sala da tè e dietro di essa quella dell’intera metropoli. Il locale è al centro del parco e i viali sono a raggiera, impossibile non incrociarlo.
Il sole entra da finestre opache e cade sulla mappa che giace a terra, per metà sotto la porta del retro. Non era poi così complicato: il ponte è anticipato da una porta trionfale con statue di soldati nelle molteplici nicchie. Basta uscire, seguiti dallo sguardo riprovevole degli avventori, e scoprire che non l’avevamo scorto per semplice distrazione.
Dietro la mappa si vede la panoramica scattata da un aereo e i monumenti principali sono ritoccati con vernice fosforescente. Si vede il traffico, i portici, la rotonda, il parco, il ponte. Una figura microscopica regge una mappa con due mani a pochi passi dall’arco trionfale. Ci si chiede chi sia e si conclude che è solo una coincidenza.
Il ponte ha traversine in legno d’abete argentato e parapetti in trecce d’acciaio. L’insieme è molto blu, verde e giallo, corroso qui e là dalla salsedine. Infatti il mare cade a strapiombo con onde arrabbiate e stanche a sfracellarsi nel silenzio sottostante. Il singolo borbottio che riecheggia dei lontani boati ora colpisce ora lascia indifferenza.
A metà del cammino incontri lei.
Agile, ginnasta dai capelli legati sorride e balza in avanti perdendosi in chiacchiere. Si parla parecchio, con lei a dire la mia parte è ascoltare e la faccio, annuendo di quando in quando, con l’orecchio imbottito di cascate e gli occhiali spruzzati dal vento. Ci siamo, dice lei, il ponte si restringe, ma non è esatto: in realtà si arrampica pregando sul versante sbiancato di calce. Si erge ed affonda al tempo stesso, col mare impegnato con metodo e costanza a seppellire sommergere occultare.
Lei scala il fianco, raggiunge il palo conficcato sul promontorio e prosegue noncurante. Dal canto mio resisto una volta, due volte al peso di tonnellate idriche. Alla terza ondata l’apnea si prolunga e mi sveglio coi polmoni invocanti la tregua.
Inanello boccate di requie osservando l’alba, col caffè acciambellato sul cumulo dei desideri.
lunedì 16 febbraio 2009
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