giovedì 2 aprile 2009

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Alcune gocce di pioggia sulle lenti degli occhiali riempivano il mondo di sfaccettature e riflessi ma Raffaele non ci faceva caso, non c'era molto da vedere per strada che non venisse abbellito dalla distorsione di quelle gocce. Dava proprio l'impressione di esserci, quell'acqua, non come nei film quando la telecamera riprende sotto un acquazzone e rimane miracolosamente pulita. Sembrava Natale con tutte quelle sfere d'argento sospese nell'aria, tanto che per un momento si dimenticò del rumore del traffico, del telefono nella tasca del giaccone, delle scarpe inumidite, e pensò di fermarsi a guardare, o al contrario di non fermarsi per niente e camminare fino a che durasse quella sensazione, ci volesse un minuto o una vita intera.
In realtà durò meno di un minuto, solo un instante. Pochi passi e raggiunse le porte automatiche che si aprirono con il solito stanco soffio asmatico, l'equivalente moderno degli antichi scricchiolii che sopravvivono solo in dozzinali racconti che parlano di paura obsoleta, coltivata da spettri non ancora esorcizzati dall'insolenza di un pubblico assuefatto a esperienze ben più orribili. Le nostre porte non scricchiolano, vecchio fantasma dai conti in sospeso, le nostre porte soffiano come gatti chiusi in un angolo.
Gigi era alle prese con il grana. Ci teneva ad essere lui a tagliare le forme. Diceva che tagliare le forme di grana è un'arte che non si improvvisa. Il coltello triangolare nella mano destra, girò attorno al formaggio tenendo un occhio socchiuso, come un orefice davanti a una pietra grezza, come un cercatore d'oro che valutasse la presenza di una vena promettente. Poi disse “Ecco!” e piantò con forza la lama in un punto preciso, un rumore di ascia scagliata in un ciocco. Solo a questo punto indirizzò un cenno col capo a Raffaele, rimasto in attesa davanti al bancone. Raffaele alzò la mano per rispondere al saluto e puntò il mento in direzione degli affettati.
“Un etto?”, chiese Gigi.
“Anche il pane”, rispose Raffaele.
'Se mi lasci non vale', la musica di radio Italia solo musica italiana, l'unica stazione che Gigi permettesse in negozio. Tranne il sabato, giorno di ressa in cui veniva una signora di origini rumene a dare una mano, con quello sguardo in contraddizione col sorriso, l'accento marcato e le mani che descrivevano archi troppo lunghi in movimenti troppo misurati, una specie di danza rallentata che ti spingeva a pensare adagio, a sentirti in piedi sul ponte di una barca.
“Piove anche oggi”, disse Gigi.
Raffaele annuì, “Comunque tra i due preferisco la rosa camuna”, disse indicando i formaggi.
“Ci avrei scommesso.” Gigi rise, aggiungendo fette di prosciutto sulla pesa.
Raffaele si tolse gli occhiali, li ripulì e si accorse di avere sonno. Non per via della stanchezza fisica e del bruciore d'occhi, solo per godere del torpore che ti fa desiderare un tetto sottile dove rimanere ad ascoltare il rumore della pioggia.
“Ecco qua”, disse Gigi allungando il pacchetto salvafreschezza, con l'espressione di chi capisce e condivide, qualunque sia l'argomento sottinteso.

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