giovedì 29 marzo 2012

Il crocevia dei sognatori (003)


Il Cacciatore le chiede Soffri l'instabilità? e Jilbert fa di no con la testa, mentendo, tenendosi aggrappata allo stipite, lo sguardo puntato al macello sul tavolo. Vieni dentro, se vuoi, dice il Cacciatore, Siediti dove preferisci. Jilbert muove qualche passo e cade su un ginocchio, si rialza di scatto e si lancia verso la branda, notando solo adesso che l'insieme degli odori non è così fastidioso. Il cacciatore dice Finisco, se non hai niente in contrario, prima che si asciughi. Il sangue, forse si riferisce al sangue, ma non può essere perché non c'è sangue, l'animale con le ali aperte, inchiodate al banco, espone le costole e Jilbert è convinta di veder battere il cuore, ma non c'è sangue. È un lavoro pulito, dice Jilbert, solo per fare conversazione, per essere gentile. Il Cacciatore si gira a guardarla e trova qualcosa che lo soddisfa negli occhi di Jilbert perché annuisce e torna a piegare il fil di ferro, a collegare e incastrare e spingere e tenere a freno. Alla finestra il mondo ondeggia, un moto armonico, costante e uniforme, ipnotico, soporifero. È bella la tua casa, dice Jilbert. È sempre sul punto di cadere, dice il Cacciatore, ti devi lasciar cullare, ti devi fidare di lei come un infante e pregare che non ti lasci andare, che non si lasci andare. È vero che alcuni cavi sono agganciati oltre la fine del mondo? Il Cacciatore ride, dice Mi sei simpatica, ride, dice Sei qui per trovare domande o per avere risposte? Jilbert ha paura, non vuole che il suo cuore batta sotto gli occhi del Cacciatore, dice Non lo so, è stato il Guercio, è sua la colpa, mi ha detto lui di arrampicarmi sul tetto e salire fin qui, ha detto che devi dirmi una cosa importante, insegnarmi speciali tecniche di bracconaggio.

Lo zio non la smette più di parlare. Fa sempre così, arriva e va avanti a parlare fino a quando non riceve soldi o promesse, fino a quando si ubriaca o viene aggredito da una crisi senza nome. È passato troppo tempo, Suzan, ho bisogno di quei soldi, sta dicendo alla madre di Jilbert. Non sopporta il rumore che fa il nome della mamma quando viene storpiato, vorrebbe gridare Esse, Susan con la esse, non con la zeta, ma rimane zitta e composta, come le è stato chiesto di fare. Solo voce bassa, solo gesti fluidi, solo cose belle, questo ci si aspetta da un oracolo, questo devi tenere a mente se vuoi che la gente ci paghi per ascoltare il futuro. Sì, mamma, lo terrò a mente. Lo zio dice non sono io il padre, non sono responsabile delle tue decisioni e nemmeno di quelle del governo. Susan ascolta paziente e gli rabbocca la caraffa. Jilbert rivive la scena che ha già visto dal Guercio, al crocevia dei sognatori, pensa adesso dirà del mio vero padre e della fazenda. Lo zio dice non sono io a decidere che vengano aboliti i sussidi statali alle Fattrici del popolo, non sono io che elettrifico le recinzioni delle fazende e non recluto più il lavoro dei vecchi. Non sei vecchio, dice Susan, è solo una fase economica, e lo sai che se avessi dei soldi ti rimborserei. Lo zio fa un sorriso finto, dice Non sai nemmeno chi sia il donatore, ti sembra normale che una bambina faccia oroscopi così precisi? Lo sai cosa si dice in giro? Susan stringe le labbra, dice Sono cattiverie e basta, nessuno ci farà del male perché diciamo alla gente che succederanno cose belle, non è illegale. Cose belle come quelle che predice a me?

Solo cose belle, si raccomanda Jilbert, sennò la mamma si arrabbia. Il Guercio batte l'unghia del mignolo sulla ceramica della tazza e fa quello che ci sta pensando sopra, poi dice Morte? Jilbert ride, dice No, morte non viene presa bene. Ferite purulente? Nemmeno! Cose belle, amore, fortuna, Jilbert si alza e piroetta fra i tavoli andando a infastidire il donnone che sta apparecchiando per la cena. Scusa Capa, dice Jilbert. Vendetta? Il Guercio alza la voce per farsi sentire da lontano. Nemmeno! Voi due cominciate a darmi sui nervi, dice la Capa, poi non dite che non vi avevo avvisato. Lasciami andare, non ho fatto niente! La Capa solleva di peso Jilbert tenendola per i vestiti, si avvicina al guercio e lo afferra per la barba. Lasciami andare, non ho fatto niente! Dice il Guercio imitando la voce della bambina. Non mi fai ridere, e tu, rivolta a Jilbert, non dovresti nemmeno essere qui. Deposita Jilbert sulla soglia della locanda, spinge fuori in malomodo il Guercio e si chiude i battenti alla spalle con rumore di schianto. Il guercio si siede e batte la mano per terra, accanto a sé, invitando Jilbert a fargli compagnia, poi dice hai la'ria di essere il tipo a cui piacciono i tesori. Che tipo di tesori, chiede Jilbert. Le cose belle, dico bene?, ma te le devi guadagnare, domani arriverà lo zio e ci sono cose che non vuole sentire, dico bene? Jilbert annuisce, Non vuole sentire niente, a prescindere, penso che mi odia, è possibile che mi odi? Il Cacciatore sa come trovare risposte a domande del genere, io sono più interessato ai tesori e alle filastrocche. Ti piacciono le filastrocche?

Lo zio non la smette più di parlare. È passato alla fase dei rischi, dei se e dei quando. E se mi ammalassi e non potessi più mettermi in fila per le necessità quotidiane dell'opificio, ora che hanno trincerato le fazende e i vecchi come me non hanno più scelta. Non sei vecchio, dice Susan versando mistura. Sai perché dice che è vecchio? Suzan, dille di stare zitta. Jilbert pensa Non vuole sentire, pensa Mi odia. E se la scoprissero e te la portassero via? Ci hai pensato? Sai cosa si dice in giro su di lei e i suoi poteri? Lo zio dice poteri come se dicesse la fatina dei denti. Sei perché dice poteri in quel modo? Susan alza l'indice per intimarle il silenzio. Lo zio dice fino a quando pensi di riuscire a tenerla a bada, Credi davvero di poterla controllare? Di poter ripagare i debiti? Susan dice adesso basta, perfavore. Lo zio dice pensi che tutto possa andare avanti per sempre? Che in qualche modo le cose alla fine si sistemano per il meglio? Susan si porta le mani alle orecchie, singhiozza, dice Ho capito, Lo so, Smettila. Jilbert si alza e dice Solo cose belle. Stai zitta, ordina lo zio. Jilbert dice tu oggi stai per andare davanti a una vecchia che ti strizzerà le palle ridendo di te. Falla stare zitta, dice lo zio. Dici di essere vecchio perché la tua produzione di seme si è ridotta e l'infermiera con la faccia rugosa ti strizza le palle fino a farti male solo per deriderti meglio. La senti, Suzan, ti sembra normale? Tu dici poteri in quel modo perché hai conosciuto il Cacciatore e sai che un giorno si metterà a seguire le tue impronte, zio, verrai braccato, soffrirai, chiederai perdono anche per le colpe altrui. Lo zio alza la mano per colpirla ma non ci riesce, sospira e dice Suzan, l'hai sentita, renditi conto. Con la esse, pensa Jilbert, non con la zeta. 



(nell'immagine 'Wrong impression', un'opera frattale di Hal Tenny)

lunedì 26 marzo 2012

trova jilbert

ce ripeteva trova jilbert trova jilbert era una voce fuori campo che mi dava un consiglio era una voce femminile che mi dava un suggerimento su come procedere diceva trova jilbert e avrei voluto chiedere dove lo cerco ma sapevo che sarebbe stato inutile perché era una voce registrata e non mi avrebbe risposto altrimenti avrei chiesto anche informazioni aggiuntive su jilbert che sapevo imprigionato dentro una scatola jilbert era da solo e passava il tempo a girare una manopola collegata a niente una manopola cromata da cruscotto e con la bocca faceva il rumore di una mitragliatrice jilbert si teneva occupato immaginando di pilotare un aereo e di sparare azionando l'unico oggetto disponibile nella scatola ormai fuori dal mondo e io avevo fretta di trovarlo così la voce avrebbe smesso di dirmi trova jilbert trova jilbert perché io l'avrei trovato dopo aver seguito le tracce dopo aver chiesto di lui io jilbert l'avrei trovato e allora avrei capito delle cose ero sicuro che trovare jilbert mi avrebbe fatto capire delle cose importanti per quello me ne andavo in giro a informarmi e a prendere appunti su jilbert e la sua vita clandestina sui treni sempre in fuga dai controllori jilbert il parassita e la sua abitudine ai combattimenti nei supermercati con tanto di inseguimenti nel reparto surgelati e imboscate nelle vasche di ferro liquido jilbert l'appestato e i suoi batteri di un sapere abolito per legge al fine di contenere l'epidemia informativa jilbert il rapitore di se stesso da piccolo che si tiene in ostaggio tutta la vita per non cadere nella t



lunedì 19 marzo 2012

Ricordi sparsi di mio padre

Le vene sul dorso delle mani. Gli prendevo la mano e gli chiedevo ragione delle sporgenze, corde bluastre e mollicce. Mi piaceva la sensazione gommosa sotto il polpastrello dell'indice quando premevo, interrompevo l'afflusso di sangue e la vena si accasciava, si appiattiva, svaniva per poi esplodere di liberata turgidezza sanguigna che a fissarla dopo un po' mi convincevo di cogliere il battito cardiaco, di avere sotto gli occhi una lontana estremità del cuore di mio padre. Lui mi lasciava fare come si permette a un cane di sporcarti i pantaloni, vergognandosi di un gesto da malato mentale, chiedendosi come mai la mia follia non si rivelasse appieno, così da rendere tutti meno afflitti dai forse e dai casomai, non fosse manifesta la mia una pazzia piuttosto che strisciante, maligna, incastonata in gesti maniacali che non lordano chi li compie ma chi li subisce, come le violenze compiute dagli angeli, gli stupri nel mondo animale. Ritirava la mano e mi guardava con l'intensità di chi si sente preso in giro, di chi è sconvolto da sospetti infondati, e mi diceva quando avrai la mia età succederà anche a te di avere le mani così. Oggi schiaccio le mie, di vene, sul dorso della mia, di mano, ma non è la stessa cosa.

La camicia aperta sul collo e pantaloni lunghi rimboccati, gli occhiali con la montatura d'oro e le lenti verdi, a goccia, la catenella, il braccialetto, l'orologio. La sigaretta che il fumo usciva dalla bocca e gli circondava la testa che i suoi capelli mi sembravano fiamme scolpite nel fil di ferro. Era l'unico completamente vestito in riva al mare. Coi piedi all'inizio della battigia, dove le onde arrivano solo ogni tanto, con grande sforzo. E sorrideva. Stava fermo a guardare il mare e avresti detto che stesse nuotando, nella sua testa stava nuotando, stava lottando per restare a galla, si stava stancando fisicamente di guardare il mare, con le sue attrattive nascoste, onde come gambe accavallate, escludendolo, profondità bagnate dove affogare con gratitudine, sfidandolo, riflessi sconfinati di superba compiacenza. Lo vedevo, mio padre, bluffare con il mare, rilanciare, fingersi sicuro di un giro sfortunato. Lo guardavo aspettandomi che dicesse qualcosa di importante, ma niente, non la metteva nero su bianco, mi faceva un gesto o un fischio, soddisfatto, e se ne tornava all'ombra, si sedeva a un tavolo e ordinava da bere per togliere il sale rimasto sui pensieri. Gli portavo le carte da ramino e stavo seduto più serio di lui, volevo che mi guardasse come un avversario impossibile, che mi scambiasse per il mare.

Mio padre a letto con la febbre e le labbra viola quando lancia contro il muro il cubo di rubik e mi grida addosso parole che non ricordo più, dopo che ho insistito per farglielo risolvere, dopo che ho acceso la filodiffusione e mi sono messo a cantare pelle di serpente con quanta voce possibile. Mio padre che mi giro e non mi sta più tenendo la sella, e allora cado, gli faccio vedere cosa succede a mollarmi la sella di nascosto, succede che mi faccio male e la colpa è tua, papà, cado dalla bicicletta e mi sento colmo di gioioso furore nei tuoi confronti perché mi sono voltato e tu non c'eri più, mi avevi abbandonato, adesso portò accusarti e odiarti e fartela pagare per non avermi amato completamente, per aver mancato la perfezione, per non essere il dio che mi aspettavo da te. Papà tu mi hai deluso, tu non puoi leggermi nel pensiero, non puoi darmi la felicità, tu non puoi farmi scudo dal mondo né proteggermi da me stesso, tu non sei utile quanto vorrei e la colpa è tua, che non sia volare, non sia sparare raggi laser dagli occhi, non ti piacciono i cartoni animati e sei così intelligente, papà, sei così lontano, papà, sei così grande che io non sarà mai all'altezza e quindi ti abbatto, ti distruggo, ti tolgo il potere di essermi amico: da oggi non sei più il mio migliore amico.

L'anello all'anulare tanto largo da vibrare, la mano appoggiata sopra al volante. Mi insegnava alla domenica mattina, quando lo accompagnavo a prendere il giornale e a offrire l'aperitivo ai suoi amici rimasti tali da quando era giovane. Gli amici di mio padre, lui aveva amici ovunque e io nessuno a parte lui. Io che fingevo di averne, e tanti, anche se li odiavo tutti, sentendomi in colpa e una brutta persona. Gli amici e le ragazze, mio padre voleva che io fossi una persona normale e io gli dicevo ho tanti amici, c'è una ragazza che mi piace molto. Erano momenti in cui lo vedevo sereno, orgoglioso, soddisfatto, momenti in cui lo rendevo felice. Allora si apriva e mi diceva quando guidi più vai veloce e più devi guardare lontano. Mi diceva la ruota gira, la fortuna cambia. Mi allungava spiccioli di sapere e saggezza e questo secondo me era amore, in macchina, nel tragitto tra casa e parcheggio in centro, e a me bastava per giorni, dopo potevo sopportare meglio le sue battute spiritose e la mia vita silenziosa, i suoi amici che sembravano veri quanto i miei falsi. Lo guardavo stappare una bottiglia e stavo sulle spine perché non potevi mai sapere se avrebbe approvato o storto il naso. Lo guardavo assaggiare le pietanze con ansia, pronto a imitarlo o dissociarmi, a seconda dell'umore del giorno, a prescindere dalle reali qualità della cucina. Oggi ti voglio bene oppure non te ne voglio, papà, ma non c'è un criterio, c'è solo la tua faccia e la mia reazione quando ti guardo da troppo lontano o da troppo vicino. 




venerdì 16 marzo 2012

Squadra del cuore

La mia squadra del cuore è la stessa del mio papà, dei miei fratelli e di uno dei miei nonni, l'altro nonno quando viene a guardare la partita da noi allora lo prendiamo in giro tutti assieme e lui sorride e va in cucina o in bagno e quando torna rimane appoggiato alla porta per capire se abbiamo smesso o ricominciamo. La mia squadra del cuore l'ho scelta l'anno che ha vinto ma poi l'anno dopo ha perso e ormai l'avevo scelta, papà dice che non si può più cambiare, che non è come sposarsi o farsi prete, quando scegli la tua squadra del cuore rimani tifoso per tutta la vita. Ho comprato la divisa completa, ho scelto la maglia col numero cinque perché il giocatore col numero cinque quando è morto c'è stato un grande funerale bellissimo e siamo andati a sbandierare e suonare le trombe e mi hanno fatto mettere il pallone sulla bara che io pensavo che me lo ridavano, era un pallone di cuoio che l'ho chiesto per un mese prima di riuscire a farmelo regalare, e invece se lo sono tenuti, l'hanno messo nella tomba col morto e me ne hanno regalato uno nuovo, però di gomma, e io da allora ho deciso che tutta la vita il cinque sarà il mio numero del cuore.

La mia squadra del cuore è la più ricca e famosa del mondo, siamo campioni dello sport più ricco e famoso del mondo, è lo sport che piace a tutti fin dalla nascita e lo conoscono anche in nel deserto dei gobbi, per dire, o gli esquimesi ci scommetto che pure loro ci giocano, sul ghiaccio, non fa niente, il modo lo trovano gli scienziati perfino nello spazio, sulla luna i marziani ci giocano. A me piace soprattutto quando sono da solo in camera a fare i compiti per la scuola e mi sento triste e arrabbiato che non posso uscire a giocare col pallone allora penso che non sono l'unico, che ci sono milioni di bambini come me che sono i miei compagni di squadra, come una grande famiglia, se un giorno avrò bisogno di qualcosa ci saranno un sacco di tifosi come me pronti a dare una mano a uno che il suo pallone è nella tomba del numero cinque, perché il mio papà dice che sono andato in televisione e adesso mi conoscono tutti, sono famoso come una mascot, che sarebbe un pupazzo simpatico, e quando risponderanno alle sue lettere e telefonate diventerò una star e non finirò a grattare biglietti della lotteria come il nonno, quell'altro.

La mia squadra del cuore sono contento che mi fa sentire normale, che non sto facendo lo speciale da solo, che non sono diverso dagli altri, non faccio il chi ti credi di essere. Siamo speciali e migliori noi tutti della squadra, non è brutto come essere l'unico con la pelle verde o il nonno che ha scelto la squadra sbagliata quando era piccolo e adesso per tutta la vita gli tocca scappare a nascondersi in bagno quando gli altri lo prendono in giro. Se hai la pelle verde ma tifi per la mia squadra allora per me sei normale, tvb, amici per sempre, è quello il bello della squadra che piace a tutti di uno sport che piace a tutti, non è come una squadra che non piace a nessuno o di uno sport che lo racconti e non sanno di cosa stai parlando. Le regole sono anche facili da capire. Quando segnano gli altri si deve gridare non vale, quando sbagliano i nostri si deve gridare non è vero, quando qualcuno parla bene della tua squadra lo aiuti quando parla bene di un'altra squadra, o peggio ancora parla male della tua, allora non lo aiuti o se vuoi lo danneggi, così ti sfoghi il nervoso che tanto se lo merita, così capisce che da bambino ha sbagliato a scegliere la squadra giusta del cuore.

All'inizio non avevo capito bene, mi sembravano un po' matti a trattare lo sport come se fosse importante. All'inizio pensavo che era per ridere, per giocare, poi il papà mi ha mandato a fare gli allenamenti e se giocavo bene mi riempivano di botte nelle gambe. Se giochi male ti cacciano, se giochi bene ti picchiano, il segreto nella vita è giocare così così, non farsi calpestare e non mettersi in mostra, nonno quello occhei mi ha spiegato che la strada è scuola di vita. All'inizio c'è stato un periodo che mi faceva schifo, mi sembrava che gli altri si divertivano più di me. Mi ricordo un giorno che odiavo la partita, mi sentivo uno scemo a tirare i calci al pallone, mi credevo obbligato a giocare, a fare gol anche se non ne avevo voglia. Ho vomitato in mezzo al campo e ho immaginato che potevo sputare acido come certi draghi che ho visto dentro a un film. Ho immaginato che attaccavo a spruzzare acido e non la finivo più, facevo sciogliere il pallone, ma anche mentre ero lì a godermi lo spettacolo nella fantasia del mio acido a corrodere palla campo squadra sport numero cinque, il cervello mi ha mostrato alla fine una pozzanghera che ero io, non ero riuscito a sciogliere un bel niente a parte me stesso, ma ero contento così, ero una pozzanghera felice. 




lunedì 12 marzo 2012

Almanacco

Lunedi i coltivatori di patate hanno posato le zappe, si sono passati il fazzoletto sulla faccia, hanno sigillato gli ingressi dei magazzini fortificati. Si vedevano sbucare oggetti affilati e appuntiti dalle fessure slabbrate, nelle blindature improvvisate, acciaio sciolto puntando il cannello della fiamma ossidrica. Si vedevano lampi su cocci di bottiglia e lenti di cannocchiale. Si vedevano i buchi rotondi dei tubi color canna di fucile ruotare in cerca di messa a fuoco nei mirini. I più informati dissero che era normale, che era momentaneo, che tutto si sarebbe sistemato entro breve. Gli allevatori si sono messi sulla difensiva nello stesso giorno, alzando le mani e mostrando il volto di profilo, tirandosene fuori senza rilasciare dichiarazioni. La televisione ci sorrise e disse con voce tranquilla e divertita che non c'era da preoccuparsi, che avevamo scorte per mesi, per anni.

Martedì i figli maschi e gli analfabeti di ritorno vengono picchiati affinché ambiscano al controllo degli spargimerda digitali, ci sono escrementi abbandonati per la strada e nessuno li vuole raccogliere, si prospetta come il business rivoluzionario del nuovo millennio. Ragazzine sui tacchi si dimenano per incoraggiare la competizione e mettono in premio cicatrici artistiche in zone erogene. Verranno ripetute ogni due ore le esequie del tossicomane che ha dato la vita per testare nuovi farmaci contro gli inestetismi e gli odori dovuti alle piccole perdite. Sul megaschermo allestito sulla facciata gotica della cattedrale verrà proiettato un documentario sulla vita e la poesia di un cantautore morto nella vasca da bagno, soffocato dal proprio vomito. Le prevendite sono disponibili nei migliori centri divertimento specializzati, non gettate il tagliando e parteciperete all'estrazione di cento lavaggi del colon.

Mercoledì gli infelici e i cretini verranno obbligati a imparare il nome dei più bastardi nella storia dell'umanità. Per ogni bastardo selezionato da una giuria di specialisti verrà consegnata una figurina adesiva da applicare nell'apposito riquadro numerato, predisposto nell'album ufficiale, il solo approvato dal ministero dell'istruzione. Seguirà la prova di recitazione a memoria dei testi delle canzone straniere più famose, con stralci di poemi omerici e parentesi dedicate alle rime baciate e agli endecasillabi. Per l'occasione, durante gli esami finali di abilitazione professionale, si godranno gli interventi lautamente ricompensati di autori affermati e politicamente schierati, professori rinomati e collezionisti di lauree honoris causa, leccapiedi con speranza di subentro e scalatori di liste d'attesa. Per gli altri partecipanti all'evento unico e spettacolare sarà richiesto un contributo spese che verrà in gran parte devoluto in beneficenza.

Giovedì le periferie metropolitane videro l'invasione degli arrapati in cerca di libertà religiose e dei cacciatori di nutrie in missione punitiva. La piuma sul cappello dei puttanieri erezionisti attempati, la confraternita dell'orgasmo chimico, la conventicola della pillola per un piccolo aiutino, un corteo pornografico mandato in onda con censura, al punto che non si vedeva nulla, non si capiva niente, sembrava un mare di epidermide rugosa, peluria bianca e macchie di fegato in alta definizione. Le forze dell'ordine impegnate a evitare il contatto con i bracconieri inferociti, con le loro facce da fornitori beffati, decisi a vendicare l'affronto di fatture mai saldate, si fanno riprendere dalle telecamere mentre piazzano trappole a molla dentro ai tombini, bocconi avvelenati nei vani di portoni incustoditi, preparano imboscate nei sovra e nei sottopassaggi.

Venerdì i politici non si fanno vedere, non rispondono al telefono, si celano dietro i vetri oscurati delle auto blindate e lasciano detto, avanzano scuse a proposito di viaggi d'affari troppo a lungo rimandati, missioni sotto copertura da portare a termine a bordo di aerei di stato. I segretari e le segretarie prendono il controllo della situazione e con voce isterica minacciano l'intervento dell'esercito, addossano a potenze straniere la responsabilità di un clima violento. Nel frattempo la gente scappa a casa e si agita, svuota il frigor, toglie il calcare, disinfetta le ceramiche, si chiede cosa stia succedendo, raddoppia la dose di ansiolitico, telefona e la linea è disturbata, si collega alla rete e le pagine fanno fatica a caricarsi. Poi l'allarme rientra, si parla di attentati sventati, catastrofi evitate, scampati pericoli, e si rassicura il pubblico che non verrà sospesa, come in precedenza annunciato, la trasmissione del nuovo episodio della serie più amata di sempre.

Sabato nei quartieri dormitorio a un'ora di macchina o venti minuti di treno dagli uffici, nei quartieri di villette costruite in economia, finti mattoni e cartongesso, i giardini da ora d'aria con salvia e rosmarino o piscinetta gonfiabile, le alte siepi a proteggere la vista dalla luce arancione delle zone industriali e artigianali, così comoda la vicinanza degli svincoli autostradali, gli spacciatori hanno scoperto che operai arruolati nel piazzale della stazione venivano pagati con droga tagliata male per seppellire rifiuti speciali sotto uno strato di asfalto, drenante, di ultima generazione. Lo sgarro all'organizzazione criminale che vanta l'esclusiva sul territorio ha già iniziato a produrre vittime. Gli abitanti chiedono le dimissioni del sindaco e si lamentano che prima di oggi non c'erano mai stati problemi, si poteva condurre una vita tranquilla e serena.

Domenica è prevista una migrazione verso est del branco di terroristi pensionati rivoluzionari che vagano alla ricerca di presunti depositi di cibo tenuti nascosti in bunker militari sotterranei. Se li incontrate non cercate di avvicinarli, limitatevi a segnalare alle autorità il luogo dell'avvistamento. Si stendono sui binari, attraversano l'autostrada, provocano corti circuiti, utilizzano i loro stessi cadaveri come arma biologica, si aprono la camicia a mostrare bersagli dipinti sul petto. Sono afflitti e pietosi ma non lasciatevi distrarre dai loro discorsi inconcludenti, non fatevi spaventare dall'atteggiamento dimesso o dall'aspetto inoffensivo, anche se non è dimostrato che si nutrono di carne umana, la loro aggressività è stata documentata, per cui se vi trovate nell'impossibilità di allontanarvi dal corridoio di migrazione previsto nei bollettini cercate riparo in un luogo sicuro e restate in attesa che il branco oltrepassi la vostra posizione.

(opera di ROA)

mercoledì 7 marzo 2012

Valhalla Rising

Anche questo un film che parla di religione, anche questo non l'ho trovato da solo, stavolta ho visto una locandina sul blog di Koch. Valhalla Rising parla di Oneeye, Unocchio, per via che una ferita lo ha reso guercio, è una delle tante letture possibili di questo film poliedrico: in un mondo di ciechi il guercio è re. Un film così teatrale, pieno di rimandi, citazioni, simbolismi, che non si può parlarne senza la certezza di tentare esposizioni comunque incomplete e frammentarie. Uno di quei film che ti fa desiderare di aver studiato di più per capirne di più. La storia è divisa in sei capitoli: ira, il guerriero silenzioso, gli uomini di dio, la terra santa, inferno, il sacrificio. Oneeye non parla mai, forse è muto, e ciò concorre a rendere al sua figura ancora più fantasmagorica, eterea, onirica. Il suo interprete è un bambino biondo che fa da tramite e oracolo, parla in vece di Oneeye, si fa portavoce tentando di indovinarne il pensiero, o forse gli legge nella mente. Questo dualismo vecchio-bambino è il fulcro del film, un rapporto simbiotico a più livelli, il bambino riceve guida e protezione, il vecchio riceve fiducia e conforto in gesti unici che solo il bambino si permette: un po' di cibo, il coraggio di entrare nella sua gabbia per aiutare i carcerieri a incatenarlo al muro. È un film commovente in un mondo dove la commozione non è capita, non è concessa: siamo in un qualche secolo buio, selvaggio, dove le menti degli uomini si dimostrano inadatte a contenere un pensiero evoluto, a un certo punto il cervello umano si ferma, non può capire oltre, prende fuoco, perde il senno, come se le menti umane fossero difettose, costruite male, nate per incepparsi strada facendo più e più volte inseguendo il miraggio di una totale, esaustiva, comprensione. Lo stesso mondo di mille anni prima e di mille anni dopo, che dopo i titoli di coda esci di casa e ti accorgi che non è cambiato niente, che questa storia non è contestualizzabile in un esclusivo e determinato periodo storico.

La storia di Oneeye è una storia di progressivo, faticoso, sofferto ritorno in se stessi, un ritrovare l'umanità perduta, un motivo per riconoscere la necessità di un sentimento altruista. Oneeye non ha più niente dentro di sé che non sia odio. Lo incontriamo in qualche regione dell'antico nord europa, un'oasi di relativa pace, lontano da centri di potere dove gli eserciti si fronteggiano e viene forgiata la cultura nelle università, Oneeye è un prigioniero utilizzato per combattimenti all'ultimo sangue dove primitivi capiclan scommettono sul vincitore. Strappa la giugulare a morsi, usa pietre per sfondare i crani, estrae le budella dai ventri delle persone come se fossero una preda di caccia da mettere sullo spiedo per cena. Oneeye non è un uomo, se mai lo è stato ora non lo è più, è solo un corpo privo di volontà propria, uno strumento nelle mani del caso, si direbbe, e invece no, è guidato dalle visioni, gli appaiono in sogno squarci di futuro, rivelazioni semplici, di poco conto, sul suo prossimo futuro: troverai una punta di freccia sott'acqua, vedrai l'oceano, dovrai compiere una scelta su te stesso. Nonostante lui abbia deciso di rifiutare la sua umanità per motivi che non ci vengono rivelati nel film (è anche possibile che per l'autore sia nato così), Oneeye non viene abbandonato, non diventa l'animale cui tende con tutto se stesso, al punto di non riconoscere come odio ma come naturalezza quella pulsione omicida e distruttiva che lo anima, al di là del bene e del male, di qualunque giudizio morale. Oneeye però si lascia guidare dalle visioni, le visioni sono degne di fiducia perché gli mostrano il vero, è questo il filo invisibile che lo rende protagonista di una necessità narrativa che è al di sopra di lui, e di noi, gli viene chiesto di farsi carico delle esigenze della sua storia personale quando si intreccia a quelle altrui, nel caso specifico con quella del bambino che diventa lo scopo, il fine dell'esistenza di Oneeye nel momento di apertura verso il genere umano nella persona concreta di questo ragazzino impaurito e solo, momento in cui Oneeye accetta di essere responsabile per qualcuno che non sia se stesso.

Si può ipotizzare che esista un debito di riconoscenza nei confronti del bambino, non in astratto, materialmente, perché era il bambino a portargli materialmente il cibo, a guardarlo come se gli importasse qualcosa, ma possiamo anche ipotizzare l'opposto: che si sia affezionato come farebbe un cane al cucciolo di un'altra specie, a chi non l'ha mai bastonato. Se Oneeye è l'estremo del distacco dall'uomo, il bambino è il non essere ancora uomo, la loro estraneità alla norma è ciò che li unisce e li accomuna. Sono entrambi esclusi dalla razionalizzazione adulta del mondo, con i suoi riti e le sue credenze, le regole, chi le decide e chi le fa applicare, i rapporti di parentela e le relazioni formali. Oneeye e il bambino sono liberi, due espressioni della stessa estraneità sociale che si fa parabola, si presta a un speculazione sulla permanenza di caratteristiche fondamentali inerenti la vita umana. Il richiamo a demone e angelo viene spontaneo in riferimento ai due fenomeni sopra descritti ma sarebbero citazioni a sproposito, pacchiane e riduttive, frutto di teologie romantiche. Sono però entrambi sono fuori dal consesso umano fatto di ruoli: mercanti, sacerdoti, guerrieri, uomini comunque insoddisfatti, alla ricerca di divinità percepibili coi sensi, miracoli e paradisi terreni, nel caso specifico la terra santa, Gerusalemme, latte e miele, grandi vittorie e ricchezze, il perdono di ogni cattiva azione, la fine del dolore, il ricongiungimento coi i cari estinti. Qui si pone la frattura insanabile fra il duo bambino/Oneeye e il resto degli uomini: entrambi sono immuni dal senso di colpa che scaturisce da bisogni meschini e degradanti che loro due non hanno: successo, gloria, ricchezza, mogli. Il bambino/Oneeye non sono innocenti ma non subiscono il fascino di uno scopo terreno. Non hanno un posto dove andare, non hanno qualcosa di importante da portare a termine, non hanno una missione da compiere in nome di alcun dio, che sia una divinità nordica o il dio cristiano. Sono liberi, non sono imputabili, non possono essere ritenuti responsabili da altri uomini di quello che fanno o non fanno, non riescono a ritenersi responsabili nemmeno verso loro stessi, uno è ancora troppo giovane per riuscire a capire cosa è giusto e cosa no, e perché, e per chi, l'altro ha smesso di pensarci, sa mai ci ha pensato.

Valhalla Rising parte da qui e racconta del miracolo dell'acqua dolce che mantiene in vita i naufraghi contrapposto alla droga nel vino della messa che tira fuori la debolezza di chi confidava nelle proprie forze, la purezza di una fede che non viene usata come un martello nelle mani di un ubriaco che va alla ricerca di qualsiasi cosa gli sembri un chiodo. È un film che si presta a stupide considerazioni anticlericali, c'è sempre qualche imbecille pronto a sfogare personali frustrazioni contro simboli che gli ricordano conflitti irrisolti da età puberale. È un film con poca musica, c'è solo il pulsare di cannoni lontani o di un cuore immenso che accelera il battito, solo nel finale, il capitolo sacrificio, arriva della musica. Stiamo parlando di una pellicola di grandissimo spessore intellettuale, il tema della cultura-religione nelle mani di chi non la sa usare, di chi la sfrutta per perseguire i propri fini con altri mezzi, per dare giustificazioni morali o scientifiche a decisioni discutibili, per sostenere la necessità di azioni che sono invece facoltative, perché cultura e religione spesso coincidono, alla fine si tratta sempre di stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato, e ci sono cose sbagliate anche se scientificamente corrette (ci sono parecchi esempi di dilemmi morali per cui la scienza deve rimettersi a decisioni politiche per stabilire cosa è moralmente giusto fare e cosa no). Cultura e religione erano la stessa cosa soprattutto nel passato, quando non vi era scissione interamente dovuta a questioni metodologiche, fra materie umanistiche e materie scientifiche, con successivo disprezzo per le prime e rispetto per le seconde. La prevalenza della stupidità umana o l'insufficienza delle capacità umane, nel film è evidente la tesi dell'incomunicabilità fra il divino e l'umano, se non sotto forma di piccole visioni nella mente di uno sconvolto al limite della bestialità, la stessa bestialità che in altri apre la porta alla più gretta e meschina natura, fatta di istinti egoistici e innumerevoli paure fra le quali non compare la morte come terrore dell'ignoto ma solo come desiderio di restare in vita. La tesi di un'umanità impermeabile al messaggio cristiano per cause indipendenti da tutto e da tutti, non c'è nel film un rimprovero al divino e neppure un'accusa all'avversario che personifica il male, c'è semmai una dichiarazione di fallimento generale dell'uomo quando prova a razionalizzare il religioso dimenticando che la chiave di accesso passa unicamente attraverso il sacrificio personale.

La libertà di Oneeye che viene scambiata con la possibilità di essere riportato indietro, lentamente, di tornare in sé, con pazienza, trovare nel mondo una mano tesa da afferrare, senza forzature, da una distanza infinita Oneeye viene portato così vicino all'uomo da provocare un contatto (è l'unico momento del film in cui Oneeye tocca qualcuno senza fargli male), la scelta dell'annullamento di sé in favore dell'altro, dove il riferimento al significato profondo dell'esistenza, in questa prospettiva, non risiede certo entro i confini di un sistema di coordinate logiche, nelle cifre ordinate e in bella calligrafia sulla pagina di un quaderno a quadretti (e lo dico da estimatore della matematica). 



martedì 6 marzo 2012

La maggior parte dei batteri che ospitiamo non solo è necessaria o innocua, ma impedisce lo sviluppo di ceppi patogeni per mezzo di occupazione fisica dello spazio utile. L'igiene atta a rimuovere gli scarti di produzione biologica e l'eccesso di popolazione microbiotica è manutenzione del nostro corpo che genera salute e benessere. La distruzione totale e indiscriminata dei batteri mediante prodotti chimici invece è dannosa per due motivi: libera spazio occupato da batteri simbiotici inoffensivi e lo rende disponibile a batteri nocivi, favorisce la sopravvivenza e quindi l'evoluzione di ceppi microbiotici sempre più forti e resistenti. Un conto è prendere una medicina per guarire o togliere la sporcizia, un altro è pretendere di vivere in un ambiente sterile per prevenire chissà quali rischi per la salute. Non è casuale ogni riferimento a pubblicità che promettono sterminio al 99%, spaventano mostrando superfici domestiche brulicanti di mostri antropomorfi che tramano contro la nostra salute. A cosa serve vivere un una sala operatoria se quando esci non indossi tute di protezione da film apocalittico? Sai cosa c'è sulle maniglie che tocchi? Sai cosa brulica nei filtri mai sostituiti dei sistemi di climatizzazione? Sai cosa c'è sulle monete e sulle banconote? Cosa sai della persona, non importa quanto elegante e profumata, che magari senza nemmeno saperlo ti sta contagiando proprio adesso?

venerdì 2 marzo 2012

The way

The way è un altro film che in Italia non arriva. È uno di quei film che non ci sono cattivi da sconfiggere, drammi o commedie sentimentali, sesso violenza droga tutto quel solito mix di scene forti e linguaggio sboccato e contenuti provocatori e denunce sociali, tutta roba da pugno nello stomaco di cinematografia impegnata con registi di grido e attori famosi che fanno incassi stratosferici al botteghino oppure vincono i premi speciali della critica. No, niente di tutto questo: The way è un film normale. Un film normale dentro a un'epoca, la nostra, dove normale è sinonimo di stupido, poco interessante, banale, perdente, fiacco, moscio, noioso. È un film che a volte ci ripensi e ti senti vulnerabile a parlarne bene, altre volte invece sei contento di dire a voce alta che ti è piaciuto. Perché parla di religione e la religione oggi come oggi è un argomento tabù, degno di selvaggi che vivono in luoghi dimenticati dalla scienza o di mentecatti che giocano con la propria merda. Dopo colossal di noè e mosè e ben hur e gesù di zeffirelli e la vita di san francesco e sceneggiati su padre pio e le pastorelle di lourdes e l'ultima tentazione e angeli su berlino e l'esorcista e la passione di gibson, dopo tutto questo gran parlare di stronzate religiose quando poi esce un film davvero su argomenti religiosi ti senti in imbarazzo, come uno che parla di michelangelo e leonardo quando arte significa parlare di warhol e bansky. The way si fa prima a ignorarlo che a parlarne, lo guardi di nascosto come chi ascoltava le parabole nelle catacombe.

Parliamone invece, anche se l'ha citato Timothy, il neo cardinale di New York, nel suo discorso al concistoro. Rischiamo di essere etichettati e derisi senza ricavarne né soldi né fama: i cristiani cattolici amici del Papa che parlano bene di un film mentendo per fare il gioco della loro religione, fazione, partito, squadra sportiva. The way è un bel film. Niente di eccezionale, anzi, la storia è romanzata, gli attori non recitano con eccelsa bravura delle parti indimenticabili, alcune situazioni sono messe lì solo per divertire, altre solo per creare pathos, i personaggi sono tutti fastidiosamente protagonisti di vicende personali emblematiche. Insomma ci sono mille motivi per criticarlo, ma non quello della religione. Non si può dire che sia un film che fa catechismo o proselitismo o pubblicità al cristianesimo. Forse per quello infastidisce ancora di più lo spettatore premunito: non lo si può accusare di doppi fini, di furbizia, di intenti poco chiari. Siamo sommersi di film di merda che vengono prodotti e diffusi solo per rendere popolare un'opinione politica, sensibilizzare su problemi di minoranze, stimolare e indirizzare la società affinché una certa cultura prevalga e approdi nel campo della legislazione e la società si trasformi in un modo piuttosto che in un altro. Siamo pieni di prodotti editoriali, giornali, tv, libri, film, che mirano a ottenere una reazione politica, sociale, pubblica. The way invece si indirizza alla sfera personale, non implica votazioni, adesioni, firme. Niente, racconta solo una storia con la quale ci si può identificare senza per questo schierarsi pro o contro qualcosa o qualcuno in un dibattito all'ultimo sangue.

The way parla del cammino di Santiago, un pellegrinaggio che fanno i cattolici per motivi incomprensibili a non succubi ipnotizzati mentalmente schiavi del raggio mortale dell'obbedienza che usano i servizi segreti vaticani per trasformarti da razionale positivista ateo a bigotto oscurantista cristiano. È un prodotto turistico con gente che lo fa in bici o a cavallo, ma facciamo finta che ci siano i pellegrini come nel medioevo, con templari crociati inquisizione e simonie. Non guardatelo o rischiate di diventare religiosi. Se lo guardate tenete in mano il vostro scudo del sarcasmo e tirate fuori il ghigno di chi è qui solo per spiare le armi del nemico. Ecco perché forse The way in Italia non arriva, non è un film normale: non fa propaganda politica, non mira solo agli incassi record, e come film religioso non è abbastanza religioso da venire strumentalizzato per sbeffeggiare la Chiesa. The way parla di persone che per i motivi più disparati scelgono di passare del tempo camminando, come uscire a prendere le sigarette e star via vent'anni, come dire vado a fare un giro e buttarsi da un ponte. Di solito è uno scappare da che non diventa mai un andare verso. In questo sta tutta la religione di The way: gente che scopre a metà strada che non sta più scappando da qualcosa ma nemmeno ha qualcosa verso cui andare. Non è come chi da sempre vota quel partito e lo voterà sempre, chi piuttosto che cambiare squadra del cuore si fa ammazzare, chi ormai quello in cui credo è quello e non si può cambiare dopo una certa età. The way è la certezza di una destinazione concreta quanto la morte, un suicidio per tutti coloro che partono, un modo per lasciarsi il passato alle spalle, una rinuncia a tutto che passo dopo passo si pente, scopre che forse c'è ancora qualcosa per cui vale la pena, che la strada è lunga e faticosa, che c'è gente che ha motivi più seri dei miei di odiare la propria vita.

Non guardatelo, fatemi questo piacere, se odiate religione e religiosi. Non c'è niente di più deprimente che guardare persone alla ricerca di qualcosa per riattizzare il proprio odio. Se pensate che sia solo uno stratagemma per abbattere le vostre difese razionali non guardatelo, andate a guardare un film che vi spiega perché le religioni fanno cagare e i religiosi sono dei bastardi, un film che vi rassicura sul fatto che siamo animali tormentati dalla maledizione dell'intelletto che vivrebbero molto meglio se potessero pensare solo a mangiare dormire e scopare. Oggi The way è uno dei film da tenere segreto, da passare sottobanco ai correligionari, e parla di un padre che perde il suo unico figlio, di femministe violentate, di drogati obesi, di scrittori falliti, di albergatori folli, di tutto tranne che di istituzione ecclesiale e di Dio. L'unico prete che si vede nel film è stato operato di tumore al cervello e spera in un intervento divino perché è il suo lavoro. La Chiesa nel film è una costruzione di pietra fredda e vuota quanto il Dio che rappresenta, eppure senza di essa non avresti una strada da percorrere, non avresti poi, dopo che sei arrivato al traguardo, trovare l'oceano dietro l'ultima collina. Senza un finto passaporto su cui stampigliare ridicoli timbri per testimoniare il tuo passaggio, senza dei ricoveri dove trovare riparo quando fuori la natura si diverte a uccidere chi rimane all'aperto, e sopratutto senza altre persone come te, altri individui che finiscono per accompagnarti senza volerlo, solo perché anche loro stanno facendo il cammino, e diventano ogni giorno più preziosi anche se sono dei ladri, dei bugiardi, egoisti, superbi, scontrosi, pigri, golosi, traditori, vigliacchi, anche se sono pieni di difetti diversi dai tuoi e ci sono dei giorni che non li sopporti, vorresti stare solo, vorresti che se ne andassero e ti lasciassero in pace, alla fine li guardi e non vedi facce di persone sconosciute, non vedi estranei, non vedi corpi brutti e puzzolenti, volti dall'espressione irritante, potenziali nemici che al massimo ti lasciano indifferente, vedi degli amici di cui ti puoi fidare che vedono in te un amico di cui si possono fidare. Ah, dimenticavo, alla fine nessuno ottiene ricompense: chi l'ha fatto per smettere di fumare continua a fumare, chi voleva dimagrire è ancora grasso, chi aveva un tumore ce l'ha ancora, sono ancora tutti gli stessi di quando sono partiti, non hanno perso niente, non hanno guadagnato niente, l'unico miracolo che avviene, quando e se avviene, è un miracolo più sottile, impercettibile, una guarigione spirituale, un'avvenuta purificazione, per chi ci crede, per gli altri è solo fumo negli occhi.