venerdì 29 gennaio 2010

Telecomando.

A volte mi chiedo se nel futuro ci sarà un libro che descriverà l'evoluzione del linguaggio nel campo della comunicazione al pubblico o se invece tutti nel futuro avranno adottato il metodo che rende il messaggio ambiguo e ingannevole, la logica della verosimiglianza strumentale, il relativismo orientato alla manipolazione non della verità, ma dell'opinione sulla verità, laddove la verità non consiste più in ciò che è vero ma in ciò che è possibile ritenere vero.

Nel momento in cui si riesce a convincere la maggioranza sulla giustezza di un'opinione sulla verità, la verità oggettiva passa in secondo piano. A volte è sufficiente un'affermazione sostenuta da un personaggio famoso o influente e a quel punto chi sostiene un'opinione contraria diventa ipso facto un oppositore del personaggio e il dibattito si concentra su un faccia a faccia tra i sostenitori dei portatore di opinione, in una guerra di notorietà degli stessi e scontro fra tifoserie.

Il meccanismo è stato innescato dalla pubblicità. L'esigenza era quella di legare le motivazioni all'acquisto a reazioni emotive e azioni istintive. Si passava dal vendere un prodotto al vendere una soluzione a esigenze psicologiche. Ti senti triste? Compra questa chiave a brugola. È un esempio estremo ma emblematico. Hai bisogno di conoscere la verità? Acquista gratuitamente la versione garantita autentica per mezzo di equazioni qualitative con variabili indeterminate. Schierati sulla fiducia dalla parte di questo marchio leader e questo testimonial famoso.

In questo mondo destrutturato, in cui il pensiero debole si è fatto molto forte superando l'esigenza di trovare e riconoscere verità oggettive, i poli d'attrazione delle opinioni possono essere individui ma anche marchi. Per trovare la verità ci si appoggia a intermediari che ce la forniscono usando un linguaggio necessariamente ambiguo che viene accolto con gratitudine perché consente l'introiettare acritico di un messaggio amorfo e una decisione di schieramento svincolata dai contenuti e finalizzata a un consenso generalista.

Il passaggio da verità personalmente esperibile, condivisibile, riproducibile, sensibile, a verità mediata, interpretata, per sua natura intrinseca suscettibile di confutazione, è un fenomeno che non riguarda più solo il mercato propriamente detto, quello degli oggetti fisici. Il marketing è diventato una disciplina tentacolare che ha invaso quasi ogni aspetto della vita moderna. La politica: non vince chi ha un programma politico migliore, ma chi pianifica meglio la campagna elettorale. Perfino nella scienza la certezza viene sistematicamente mistificata per obbedire a esigenze che non hanno nulla a che vedere con lo stabilire il vero: la teoria del surriscaldamento del pianeta, il darwinismo.

Tutto ciò ha l'effetto di influenzare indirettamente lo stile di vita e tende a imporre un controllo sui comportamenti dei cittadini sfruttando l'istinto al conformismo che è tipico degli animali sociali, dalle formiche all'uomo. Possiamo paragonare il linguaggio moderno a una forma di comunicazione primordiale, in cui è possibile provocare la reazione desiderata mediante l'utilizzo di feromoni, segnali luminosi, frequenze impercettibili. Il centro di comando elude il posto di blocco dell'intelletto passando per altre strade: istinti, sensazioni, paure, il regno del subconscio.

Siamo per certi versi passati da un eccesso di razionalismo a un eccesso di fideismo. Siamo forse incapaci, come specie, di raggiungere e mantenere l'equilibrio?

“Anche se un razionalismo acritico e assoluto è logicamente insostenibile, e anche se un irrazionalismo assoluto è logicamente sostenibile, questa non è una ragione per cui si debba adottare quest’ultimo. Infatti, ci sono altri atteggiamenti sostenibili, per esempio quello del razionalismo critico che riconosce il fatto che il fondamentale atteggiamento razionalistico scaturisce da un (almeno occasionale) atto di fede: dalla fede nella ragione.” (Karl Popper)

martedì 26 gennaio 2010

Messa 2.0

Un attimo prima stava gridando nel microfono, un attimo dopo era sdraiato in mezzo al palco.
“Si è accasciato, si è accasciato!”, esclama il commentatore della diretta.
La regia manda il replay e si vede Benny che alza le braccia al cielo invocando aiuto e, nella lentezza di fotogrammi rallentati, afferra la testa del postulante e la scuote, la faccia di Benny e quella del postulante entrambe intense, i denti esposti in un ghigno, e Benny urla “Fuori!”, “Esci da questo corpo!”, e la voce rallentata sembra provenire da un luogo a parte, dove ogni cosa è semiliquida.
Quando torna la diretta il corpo di Benny non c'è più, portato dietro le quinte forse, ma le luci stroboscopiche sono ancora in funzione, la musica di organo e campane impazza ancora a tutto volume ma il pubblico non alza più le mani nella hola, gli striscioni sono spariti, la telecamera zooma su una donna che si tira i capelli, in ginocchio, in lacrime, il suo urlo non si sente.
Sul megaschermo parte la solita pubblicità documentario in cui Benny reinterpreta la salita dei teschi, con gli effetti speciali delle ali biomeccaniche e l'aureola che si muove come una moneta che non riesce a fermarsi sul tavolo e tutto quanto il resto a cui siamo abituati, compreso il lanciafiamme. Quando Benny incontra l'infedele che gli corre incontro a pugni chiusi sputando bestemmie e Benny si mette gli occhialoni e traccia un segno della croce nell'aria prima di far roteare l'incensorio attorno alla testa e scagliarlo a mo' di bolas contro l'infedele, a quel punto, proprio nel fermo immagine dove l'infedele viene colpito in piena fronte, la folla esplode in un alleluia collettivo.
“Allelluia!”, grida il commentatore, che per lo shock non aveva più parlato.
Sugli altri canali tutte le trasmissioni sono state interrotte per uno speciale su Benny, alcuni lo danno per morto, altri parlano di una trovata dello sponsor, altri ancora dicono che non morirà mai, che non c'è motivo di farsi prendere dal panico. Intanto sul palco è uscito un portavoce, cerca di azzittire tutti muovendo le mani come se chiedesse di abbassare il volume. Se ne sta lì in piedi per un po', fissandosi le scarpe, poi guarda un punto lontano come se stesse ricevendo un messaggio da una zona molto profonda del suo essere, infine alza il pollice e dice “Benny è vivo!” e si mette a ballare una danza scatenata e tutte le luci si spostano rapidamente spazzando il palco, alla ricerca di Benny.
“Vivo!” il commentatore ha la voce rauca, tossisce, tira su col naso.
Ed eccolo uscire da una botola nel pavimento, circondato da fumo azzurro, la vesti bianche che svolazzano nel vento artificiale.
“Eccolo, lo vedo!”
Se ne sta aggrappato al suo lungo bastone ricurvo e sembra affaticato, la testa china, le ginocchia piegate. Qualcuno nel pubblico inizia a intonare Benny-Benny-Benny e subito tutti lo imitano. Benny si porta una mano all'orecchio, come se ancora facesse fatica a sentirli, il ruggito della folla cresce al punto che le impalcature iniziano a vibrare, sembra il preludio di un terremoto. Benny annuisce, ora vi sento, e fa un cenno al portavoce che nel frattempo è andato a recuperare qualcosa e glielo porge con enfasi. Benny afferra il lanciafiamme e spara una lunga vampa semicircolare in direzione del pubblico.
“Trema, infedele”, il commentatore non ci mette rabbia, solo una specie di compassione spietata, la voce di chi cerca di dirti con tatto che hai i giorni contanti.
Una parte del megaschermo ora mostra i commenti sul sito web di chi segue la funzione collegandosi in streaming, dall'altra parte c'è il trailer del videogioco in cui si può entrare nei panni di Benny e combattere per la salvezza della propria anima. In sovrimpressione il numero in costante aumento dei fedeli, azzurro, e quello in diminuzione degli infedeli, rosso.
Benny giunge le mani e dice “Preghiamo.”
Gli spettatori si abbracciano, si baciano, un bambino è riuscito chissà come a salire sul palco, avrà due o tre anni per come cammina, si dirige barcollando verso Benny che quando lo vede sembra gonfiarsi, sembra assistere a un miracolo, osserva pieno di meraviglia il bambino che si avvicina e inizia a piangere.
“Che momento magico”, bisbiglia il commentatore, “Non ce la faccio a continuare, scusate”, si sente il rumore del microfono che viene spento.
Benny aspetta che il bambino lo raggiunga e lo prende in braccio, lo stringe a sé, il volto bagnato di lacrime, lo bacia sulla testa, lo gira verso il pubblico e lo tiene sospeso. La madre non viene più trattenuta dallo staff e corre verso il figlio, lo strappa dalle mani di Benny e punta il dito indice sul bambino, iniziando a sgridarlo. Benny le mette una mano sulla spalla e scuote la testa, sorridendo.
Le luci si smorzano e parte una musica dolce, sul megaschermo ora lampeggiano solo le parole “Death is not the end”.

venerdì 22 gennaio 2010

Meglio sia tu.

ndo sei ricoverato non c'è niente da fare non ti passa mai stai sdraiato e aspetti cerchi di capire se stai perdendo sangue ogni tanto arriva qualcuno vestito di bianco e fa delle cose con le dita apre e chiude delle valvole controlla i tubi i macchinari e ti parla dice parole che rimangono nell'aria solo qualche istante poi chiudi gli occhi e quando li riapri c'è buio e non c'è più la messa in filodiffusione la voce del prete s'è placata ti sembra di aver visto passare qualcuno nel corridoio il fascio di luce di una torcia elettrica e dici non può essere e ti viene in mente che il tuo portafoglio nel tuo portafoglio ci sono molte tessere e non hai la più pallida idea di quante sono e a cosa servono il fatto che ti siano venute in mente le tessere nel tuo portafoglio credendo di aver visto un uomo aggirarsi nel buio ti sembra abbia molto senso ma quando cerchi di alzarti per vedere meglio senti un forte dolore e ti ricordi che c'è qualcosa che non va c'era un tizio con la bandana colorata una bandana con sopra dei pappagallini o erano fiori arcobaleno e tremavi e hai guardato il liquido passare dalla siringa nel tuo braccio dopodiché il buio e hai sognato di chattare in inglese scrivevi lfg stavi cercando di fare un team per finire in hard mode il livello di Black Beast of Aaaaaargh! ti mancavano un necro e un tank per completare la build quando hai aperto gli occhi hai visto l'anestesista e ti sei accorto che stavi parlando con lui e gridavi we got to kill 'em all lui ha di nuovo premuto lo stantuffo e stavi molto bene sei ripiombato nel nero e quando ti sei svegliato eri da un'altra parte e c'era un'infermiera e le hai detto che era tutto molto bello che stavi molto bene e lei ti ha sorriso e in faccia aveva l'aria di chi la sa lunga di chi capisce benissimo di cosa stai parlando solo che adesso è buio e c'è qualcuno nel corridoio e sei preoccupato per le tue tessere anzi per il fatto che fino ad ora tu non ti sia mai interessato veramente di loro te le sei portate dietro e loro non hanno mai dato fastidio questo pensi mentre osservi la luce della torcia che si muove nel corridoio le tue tessere e ti agiti vorresti chiedere scusa a qualcuno ma a un certo punto ti viene in mente tuo figlio e allora torni tranquillo e rimani lì disteso calmo a pensare alla faccia felice di tuo figlio al suono che fa quando ride a sentire l'effetto che fanno le lacrime mentre ti scorrono giù per le guance fanno una specie di fresco solletico e pensi che sei proprio fortunato ad aver

mercoledì 20 gennaio 2010

Barbasorrate.

nale via satellite che rifanno i barbapapà, mio figlio li trova affascinanti ma io rivedendoli scopro delle cose che da piccolo non avevo mai notato, ricordo che anch'io rimanevo coinvolto e non potevo smettere di scoprire nuove trasformazioni di quegli esseri gommosi, con nomi come forte, bravo, bella e altri come lalà o barba, sì, barbabarba, che l'origine del barbapapà in pochi lo sanno vengono fuori dalla terra, come gli zombie solo che non sono morti, allora come i fiori, i barbapapà sbocciano dal nulla, nel sottosuolo, e si fanno strada scavando fino in superficie come vermi e nessuno lo trova terrificante, ma le storie, alcune sono allucinanti, non dico quelle dove fanno cose come salvare la gente o gli animali, storie educative, ma certe storie, tipo quella del robot, barbabravo costruisce un robot e gli dà vita col fulmine, come frankenstein, e il robot ha un rubinetto che gli esce dal pube, ha un televisore nel petto, parla una lingua pazzesca da sentire e ha gli occhi luminosi, a mandorla, e il robot si mette a pulire, pulisce tutto quello che vede e quando ha spolverato, lavato i piatti usando acqua che gli esce dal pene meccanico, quando ha strofinato e lucidato dappertutto è come se impazzisse, si mette a rincorrere barbabravo per pulire anche lui e barbabravo scappa, la cosa sconvolgente è che il robot dice stupro, l'ho ascoltato attentamente, ripete stupro stupro stupro mentre rincorre barbabravo con quel suo rubinetto enorme e gli occhi rossi, barbabravo scappa col robot impazzito che lo insegue a braccia tese gridando stuprostuprostupro finché si accorge di essere lui stesso sporco, il robot, e il robot si sente sporco e si butta in lavatrice e si autodistrugge con la centrifuga mentre io guardo allibito e sconvolto e vedo mio figlio che ride e mi chiedo quanti danni mi abbia causato alla psiche guardare i barba, dove avete spinto la mia sospensione dell'incredulità, mi chiedo, è tutta colpa vostra, barbapapà e barbamamma, che potete trasformarvi in quello che volete e siete sempre calmi e felici, nonostante siate sbucati dal

martedì 19 gennaio 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (20 di N)

All'asilo girano i pidocchi. Ti dicono di controllare la testa dei bambini, ti danno un foglio con le istruzioni per capire se tuo figlio ha preso i pidocchi. Guardare dietro le orecchie, cercare le uova, cose così. Allora tu controlli, trattenendo il fiato, sentendoti prudere ovunque, immaginandoti a disinfettare casa macchina letto divano vestiti, tutti rapati come ebrei nel lager, petrolio sulla testa. Anche stavolta non li ha, puoi rimandare la catastrofe a domani.

È appena tornato a scuola dopo le vacanze di Natale e già è di nuovo raffreddato. Tutte le volte che è raffreddato non passano due giorni senza che io venga contagiato. Una delle cose che non ti dicono è che i figli ti tossiscono addosso, ti starnutiscono in faccia, si mettono un dito in bocca e poi ti toccano naso e bocca. Così stanotte l'ho passata a evitare apnee e riempire fazzoletti.

Adesso parla di più, dice molte cose, ti chiede cosa vuol dire e a volte perché. Tu pensi di parlare con tua moglie ma quello sente, ascolta, e interviene. Come ieri che il Letterman era una replica.
“Silenzio! Che lingua parla, mi viene il mal di testa.”
“Inglese. Parla inglese.”
“Inglese? Inglese?!? Inglese! È insopportabile.”
“No, inglese è bello, imparalo.”
“L'abbiamo già visto questo, guarda che cravatta. Dov'è il telecomando, papa? Gira.”
Allora giro su la7, l'altra sera c'era Negroponte in un incontro ravvicinato coi trogloditi, ma non è sempre domenica.
“Guarda chi c'è”, dico a mia moglie, “guarda che bocca.”
“Sì mama, guarda che bocca.” Ride.
Mia moglie distoglie un momento l'attenzione dal netbook, “Si è rifatta anche lei.”
“Si è rifatta! Non mi piace questo papa, inizia il film? Che film c'è?”
“Son tutte rifatte ormai”, dico io.
“Essì, tutte. Guarda se c'è un film d'animazione.”
Scorro la guida in sovrimpressione. “C'è viaggio al centro della terra, se vuoi, quello nuovo.” e a mia moglie “Ma questa non è quella del gomito sul tavolo?”
“Di nuovo il centro della terra? Ci sono i robot?”
“Sì”, fa mia moglie digitando su twitter, “Va' che roba, è mostruosa.”
“Ci sono i mostri?”
“Ma no dài, poveretta, è la tv, è il sistema.”
“Quale sistema papa?”
“Ci sono i dinosauri.”
“Ancora dinosauri? Oh, vabbè.”

lunedì 18 gennaio 2010

Lost connection.

Il conto alla rovescia appare in primo piano, grandi caratteri luminosi e la voce metallica, ricavata riciclando spezzoni video delle sue attrici preferite, a scandire i secondi.
“Che è questo?”, chiede t00c001.
“Meno di un minuto e mi staccano”, risponde r4ŋɖƴ.
“Allora è vero che ti sei fatto beccare”, ride.
'stfu', digita r4ŋɖƴ.
In sottofondo parte una sirena d'allarme antiaerea, meno di trenta secondi.
“Quanto?”, chiede t00c001.
“Due.”
T00c001 soffia nel microfono, come se si fosse scottato, e non dice più niente.
I numeri scorrono, le finestre si chiudono, una per volta: vuoi salvare? Sì. Allo zero lo schermo diventa blu e la lettera in caratteri bianchi del ministero lo invita a presentarsi al centro di vigilanza più vicino. Non c'è una mappa con coordinate gps, non c'è un link che sia uno, non succede niente nemmeno a premere F1.
r4ŋɖƴ si sente soffocare, ma ha letto testimonianze di chi c'è stato prima di lui, dicono che è normale, che poi passa. Chiude gli occhi, si toglie i guanti, gli occhiali, le cuffie. Dopo essersi guardato un po' attorno alla fine si alza.
“Chiederò in giro”, dice a nessuno in particolare, scuotendo la testa.

L'appartamento di r4ŋɖƴ è un bilocale nel quartiere ovest, vicino al ponte, hai presente la zona delle rosticcerie cinesi abusive, dove han girato rootlife, è taggato come zona a criminalità 5 sul sito dell'esercito ma c'è il sospetto che serva solo a tenere lontano chi si usa le istituzioni come fonte di info. Infatti sembra un posto tranquillo. Ci sono famiglie con passeggino che percorrono il lungofiume, macchine pulite si fermano alle strisce pedonali, due anziani sulla panchina si scambiano vecchie edizioni su carta.
“Mi scusi”, dice r4ŋɖƴ, “posso farvi una domanda?”
I due si guardano con aria di chi la sa lunga, quello più vicino inizia a ridacchiare e finisce tossendo.
“Che c'è? Ti servono soldi?”, chiede quello che non ride affatto, tirando fuori una lista dalla tasca del cappotto.
Uno spacciatore di lavoro, pensa r4ŋɖƴ, chiedendosi come facciano a non capire, dopo tutti questi anni, chi è un potenziale cliente e chi no.
“Sono a posto così, grazie.”
“Per ora, per ora”, sibila quello, “Prima o poi li finisci i soldi.”
L'altro ha smesso di tossire e si sta pulendo la bocca con un fazzoletto. “Parole sante, più prima che poi, sai quanto costa adesso un litro?” Sputa nel fazzoletto e guarda per qualche istante quello che gli è uscito dal corpo prima di rialzare lo sguardo.
“Un litro di che?”, chiede r4ŋɖƴ.
Lo spacciatore dà di gomito a mister catarro, “Litro di che, ti chiede!” e giù risate.
r4ŋɖƴ sente pulsare le tempie, si chiede quanto tempo dovrà stare fermo qua in piedi prima di ottenere un'indicazione. Dall'altra parte della strada si vedono uomini correre all'interno di un giardino recintato. Inquadra con la cam del cellulare e aspetta di veder apparire l'aumento di realtà ma tutto quel che ottiene sono parole bianche su fondo blu.
“Dico a te, balordo!”
r4ŋɖƴ si volta verso lo spacciatore.
“Un altro col cervello bruciato”, dice Catarro, “Dove andremo a finire?”
“Posso farvi una domanda?”
“Falla! Non startene lì imbambolato a ripetere le cose come un disco rotto.”
Un disco rotto, r4ŋɖƴ trova molto interessante il modo di parlare degli sconnessi. Per disco intendono quella roba nera che girava su un piatto, gli viene di nuovo la tentazione di usare il cellulare per saperne di più ma stavolta si ricorda che non avrà accesso per altre due ore.
“Devo raggiungere il centro di vigilanza più vicino, sapete da che parte è?”
Lo spacciatore lo fissa con sguardo cattivo. Catarro è improvvisamente molto attento.
“Ti hanno spento il giocattolo, vero?”
“Te lo dico io”, fa Catarro, “Te la spiego io la strada.”
r4ŋɖƴ ascolta sapendo che gli uomini stanno mentendo, quindi va a cercare qualcun altro a cui chiedere. Non capisce perché certa gente odi così tanto quelli come lui. Attraversa la strada e si ferma a guardare nel giardino recintato.

Uomini che corrono, saltano. Sudati, i volti accesi per lo sforzo. r4ŋɖƴ non si accorge di non essere solo finché non gli toccano il braccio, facendolo sobbalzare.
“C'è anche tuo padre lì dentro?”, chiede la ragazza.
È bella, ha un buon profumo, il tono di voce è molto gradevole.
“No, è morto.”
Lei sta riprendendo la scena, non lo guarda mai in faccia. “Mi dispiace”, dice.
“Davvero? Lo conoscevi?” Si sta facendo tardi, pensa r4ŋɖƴ, ma è un pensiero slegato dalla dimensione dello scorrere del tempo, è più una sensazione di mancanza collegata al non conoscere la destinazione verso la quale in questo momento dovrebbe essere diretto.
La ragazza punta il cellulare sulla sua faccia, schiaccia dei tasti, poi dice “No, r4ŋɖƴ, non credo di averlo mai incontrato in vita mia, ma mi dispiace lo stesso.”
“Me lo presti?”, r4ŋɖƴ indica il cellulare.
Lo guarda come se fosse pazzo, come se fosse pericoloso, fa un passo indietro. Preme altri tasti, legge, torna a guardarlo, diventa pallida. “Ti hanno staccato”, dice.
r4ŋɖƴ non dice niente, guarda gli uomini e ne cerca uno che assomigli alla ragazza. “Qual è il tuo?”, chiede.
Lei gli mostra lo schermo, l'immagine di un uomo brizzolato, con gli occhiali, che fa ciao con la mano.
“Com'è finito lì dentro?” r4ŋɖƴ si chiede che razza di vita è quella, se c'è qualcuno che li obbliga a farlo, se smetteranno mai di correre e saltare. C'è un robot che si aggira sullo sfondo, elencando sul totalizzatore una serie di statistiche.
“Non vive lì, l'alienazione è solo una parte del suo problema”, indica una costruzione adiacente, un cubo di acciaio e cemento armato con file di finestre con tendine bianche tutte uguali. Un cartello vicino all'ingresso usa maiuscole e punti esclamativi: “Neo-separato? branda + mensa = PARLIAMONE!”
“Non capisco”, dice r4ŋɖƴ.
Lei fa spallucce, “Non c'è niente da capire.”
“Davvero, mi serve aiuto, non so come arrivare al centro di vigilanza più vicino.”
Rimangono in silenzio a osservare gli sportivi per un po', r4ŋɖƴ si chiede che cifra ci sia sull'assegno per alimenti che le passa il padre ma non osa chiederle nulla, temendo si tratti di spiccioli.
“Andiamocene prima che ci raggiunga.”
“Chi?”
“Dietro di te, si sta avvicinando, fai finta che non esista e andiamo via.”
r4ŋɖƴ si gira, un tizio in giacca e cravatta avanza quasi correndo verso di loro, sventolando un opuscolo con una mano e tenendone un pacco intero con l'altra.
“Devo fare rapporto entro meno di due ore, prestamelo.”
“Scordatelo!”
L'opuscolo appare fra di loro, l'uomo continua a farlo sventolare, lo alza e lo abbassa davanti ai loro occhi per attirare l'attenzione. “La percezione del progresso in termini post-umanistici”, grida.
Lei afferra l'opuscolo senza degnare di un'occhiata il predicatore, il quale ne prende un altro dal mucchio e lo sventola davanti a r4ŋɖƴ. “Riscoprire i valori etici nel contesto di una coscienza integrata.”
r4ŋɖƴ afferra a sua volta l'opuscolo e se lo infila nella tasca posteriore dei jeans.
Il predicatore comincia un lungo discorso in tono monocorde e sembra uno che legge senza rispettare la punteggiatura.
“Perfavore?”, chiede r4ŋɖƴ con espressione supplichevole, indicando il cellulare.
“Piuttosto ti ci porto io, seguimi.”

Il centro di sorveglianza ha un ufficio apposta per la registrazione degli sconnessi temporanei. Quello più vicino si trova al di là del fiume, vicino alla fontana che hanno usato i Grinding Massacre per il loro ultimo singolo, hai presente?, sì, quella a due passi dall'uscita quattro. Riconosci che è quello perché è l'unico con tutti quegli scrivani in fila fuori, sul marciapiede, con quei tavoli pieghevoli sgangherati e le penne a sfera nel taschino.
“Che tipo di lettera?”
“Mi scusi”, dice r4ŋɖƴ, “È la prima volta per me, quanti tipi ci sono?”
Lo scrivano ha un pizzetto a punta che tormenta con le dita, arricciandolo a spirale.
“Aulico, burocratico, legale, accademico, formale...”, tira i muscoli delle dita, la mano ad artiglio, facendo scrocchiare le falangi, “Che ti serve?”
r4ŋɖƴ guarda la ragazza che l'ha portato fin lì, per chiederle un parere, ma lei sta annotando le differenze fra la fontana vera e quella ritoccata dai Grinding.
“Devo fare rapporto, segnalare l'avvenuta sconnessione.”
“Accusare ricevuta?”
“Non saprei, può essere”, r4ŋɖƴ vuole solo il pezzo di carta giusto, fare uno scarabocchio dove previsto e tornarsene a casa. Le due ore saranno quasi passate, finalmente.


Ice Harvest

Ice Harvest è la sovrapposizione di una desolazione spirituale a una desolazione paesaggistica. Una pianura gelida è il luogo in cui si aggirano come spettri persone senz'anima. Fra queste c'è il protagonista, in cerca di salvezza, che si aggrappa a quelle che vengono propinate come unica chance: “i soldi e la passera”, le uniche cose che rimangono fra gli obiettivi in queste vite dall'orizzonte così ampio da perdere ogni prospettiva.

Ma un angelo custode viene in suo soccorso, un uomo che grida, ubriaco, l'assurdità di tutto ciò che vede intorno: la mafia che governa l'economia, la vacuità di famiglie di cartone dove i rapporti formali hanno prosciugato ogni altro significato, l'impossibilità di entrare in contatto col prossimo senza proporre ricatti. Un uomo che vede una via di fuga e gli offre una terza scelta: l'amicizia.

Violenza, degrado, sotterfugio. Religione: “Dovevo dar retta a mio nonno e aprire una chiesa lasciando che Gesù pagasse le rate usando i soldi di questi babbei”. Morale: “Mio padre andava sempre a votare, mio zio entrava e usciva dal carcere. Mio padre è morto di infarto, mio zio è morto in un incidente il giorno dopo.” Amore: “Mi stai dicendo che dovrei venire con te per vivere poveri?”

Il gioco di parole che si legge ovunque, scritto a pennarello nei posti più improbabili, spiega tutto: “As Wichita falls... so falls Wichita Falls” (che è anche il titolo di una canzone di Pat Matheny). Se il mondo ti crolla intorno, crolla via dal mondo. È proprio ciò che, nonostante gli sforzi di combattere, di riuscire, di adeguarsi, il protagonista sceglie di fare: andare via, abbandonare le rovine. E nel farlo salvare chi era lì per salvarci e ha scoperto di non averne la capacità.

Un film con diversi livelli di lettura, che può dare spago a interpretazioni che vanno al di là del semplice raccontare una storia, entrando nel campo di discussioni molto più ampie e profonde.

venerdì 15 gennaio 2010

il buonumore è indossare un cappello prima di sparare

Che strano, ero lì che aspettavo il mio turno e c'era questo tizio, lo conosco da una vita, lo conosco per modo di dire, so chi è e ci salutiamo, sempre, da lontano, tutto lì, e la particolarità di questo tizio, ecco perché lo saluto sempre e non mi dimentico mai chi è, anche se l'ho conosciuto vent'anni fa e ci ho parlato solo quella volta, questo tizio ha sempre l'aria di uno felice, non so se saluta tutti quelli con cui ha parlato solo una volta vent'anni fa, ma non importa, mi saluta sorridendo e io mi accorgo che invece no, non sto sorridendo, e allora sorrido anch'io e per un po' cerco di essere come lui, quando qualcuno mi guarda sorrido, ma poi mi passa, lui invece non credo che smetta mai, è uno che anche quando parla, l'ho notato anche stamattina quando si è messo a parlare con una signora che era lì anche lei in fila, lui parla ridendo, dice qualche parola e poi fa una risatina, come se si fosse sparato una canna di marijuana, come se ridere fosse più forte di lui, non riuscisse a trattenersi, e allora mi chiedo se è una cosa innata o se in qualche modo ha imparato a farlo, fatto sta che intorno a lui la gente si mette di buonumore, e anch'io, ho come paura che non gli sorrido lui ci resterà male e non riderà mai più, se non mi sforzassi di lasciarmi contagiare dal suo buonumore nel suo cervello si romperebbe qualcosa e non sarebbe più lo stesso, è un tipo pacioso, grassottello, gli occhi chiari e pochi capelli ormai grigi, non sai se è timidezza sembra nervosismo ma ti chiedi se invece è proprio fatto così, se ha fatto un ragionamento o ha avuto un'intuizione che lo ha reso contento per sempre, mi viene da chiederglielo, vorrei dirgli spiegami come funziona, dimmi se lo fai apposta, da cosa dipende, voglio sapere perché tu sorridi e ridacchi mentre parli facendo simpatia quando io invece no, sono sempre così serio, che per farmi ridere ce ne vuole, magari rido dentro, quello sì, ma ho come timore di rendermi ridicolo a mostrare contentezza, e tu invece no, e la cosa strana è che non ti invidio perché non ho idea se sia meglio essere come te che come me, e allora ti sorrido di rimando per non farti restar male e quando vedo che esci, che te ne vai, mi sento meglio, faccio un respiro profondo e torno a convincermi che certe cose richiedono troppo impegno, troppa fatica.

martedì 12 gennaio 2010

Strange world

Era come avere ucciso qualcuno. D'impulso, si direbbe, ma un impulso maturato nel tempo, esploso come un bubbone. Un senso di liberazione ma anche di dannazione. Qualcosa di essenziale che era andato perduto senza lasciare niente a prenderne il posto, almeno non ancora, questa era la speranza mentre, seduto al tavolino di un caffè, scarabocchiava su tovagliolini di carta. Buttava giù un riassunto, costellato di riflessioni, per non lasciarsi andare, per non perdere di vista i due capi di un filo ormai spezzato. Impossibile riannodarli.

La speranza che bastasse attendere, avere pazienza, far emergere quel qualcosa dal nulla, invitarlo a farsi avanti dal futuro, riempiendo di scrittura fitta i tovagliolini, sotto lo sguardo perplesso del cameriere. Sette volte si presentò il cameriere, sette volte ordinò una tazzina di caffè per restare lì seduto, all'aperto, al buio, a infischiarsene dei passanti, delle macchine, delle luci, delle voci. Ingobbito su un mazzo di tovagliolini di carta sottile, con sopra il marchio di una ditta di caffè, pieni di parole che avevano senso mentre le scriveva, per perderlo subito dopo, quando rileggeva, quando aveva perso il filo, quando non sapeva più di cosa stesse parlando.

Le dita facevano male. Le dita della mano destra, quella con cui stringeva la penna che aveva chiesto al cameriere col primo caffè. Cos'era successo in fondo? Niente di che, aveva aperto una parentesi. Aveva parcheggiato, era sceso come se avesse avuto una ragione per farlo quando invece aveva solo aperto una parentesi. Si era guardato intorno con gli occhi di chi è appena arrivato da un posto lontano, diverso, sentendosi spaesato, interrogandosi su tutto e niente in particolare. Pensò di avere avuto un incidente, che qualcosa dentro di lui fosse caduto, fosse scappato chiudendo la porta dietro di sé, piano, di soppiatto.

Cosa faccio adesso? Si era chiesto. Come faccio adesso? Sentiva di essere colpevole, di avere tutta la colpa, tutta quanta, senza scuse, senza poterla addossare a nessuno. L'avrebbe scagliata lontano se avesse potuto, nel mare, nel cielo, sui muri delle case, sul cameriere che lo fissava appoggiato allo stipite della porta del bar. Certo, sono sceso per bere un caffè. È una forma di amnesia, si era detto nel tentativo di risolvere il guaio, basterà far finta che sia tutto a posto e aspettare che passi. Tentava di sorridere andando a sedersi al tavolino, estraendo un tovagliolino dal raccoglitore, chiedendo un caffè e, se possibile, una penna.

Cos'ho fatto, cosa mi hanno fatto, aveva chiesto a voce alta senza rendersene conto. Il cameriere non rispose, si accorse che non stava davvero chiedendolo a lui, si limitò a guardarlo con sospetto e tornare con la spalla sullo stipite, a guardare da lontano. Il caffè aveva un sapore orribile ma non se ne curava, era solo qualcosa di caldo e amaro sulla lingua, non aveva nessuna importanza. L'importante era capire, era dare la possibilità alle parole di mostrargli la soluzione. La penna avrebbe fornito le risposte, la carta gliele avrebbe messe sotto il naso, bisognava solo stare calmi, non farsi prendere dal panico, tutto si sarebbe sistemato.

Malgrado tutti quei caffè gli si chiudevano gli occhi, si sentiva così stanco. Per le strade non c'era quasi più nessuno. Riusciva persino a sentire il rumore della risacca, da qualche parte nel buio. La penna sospesa in aria, rimase a osservare due donne intente a bere del vino, i bicchieri colmi di riflessi affilati, pungenti. Alzò lo sguardo, una nuvola nel cielo, bianca di raggi lunari, galleggiava adagio, spinta da venti spettrali. Quanti anni ho, si chiese, quanto sono vecchio? Tirò una linea orizzontale sul tovagliolino e sotto scrisse “Totale: sorrisi”, quindi cancellò e scrisse “Risate, da bambino”.

Sui fogli successivi parlò di corse nei prati, del sapore dei fiori di cicoria matta, di come si appoggia il piede un po' per volta, sul ramo, per indovinare quanto peso potrebbe sostenere. Non riesco a contenermi, pensava rievocando le emozioni, perdendosi in quel nuovo, strano mondo, in cui era stato catapultato da forze ignote. Si sentiva come se stesse piangendo ma ciò che provava non era tristezza, era sollievo. In seguito avrebbe ricordato di aver gridato, di aver singhiozzato, di aver riso forte, ma in realtà tutto avvenne in silenzio, nell'immobilità spezzata solo dal rumore della carta sotto i segni della penna.

Era tutto così chiaro nella sua mente in quel momento, non era possibile che niente fosse rimasto impresso sui tovagliolini in grado di descriverlo. Eppure si accorse che stava scrivendo solo di sogni, non c'erano collegamenti alla realtà, solo immagini sconnesse e sfocate. Disegni infantili, un cuoricino di inchiostro blu, fili d'erba o forse peli a incorniciare la parola “verde”, e l'ultima frase diceva solo “Non c'è un perché”. Avrebbe voluto stracciare tutto, riprovarci, stavolta ci sarebbe riuscito, ma era tardi, impossibile rivivere, ormai la parentesi era stata chiusa. Quel qualcosa che aspettava era arrivato, non c'era più tempo di indugiare.

lunedì 11 gennaio 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (19 di N)

Senti un dolore, ti prescrivono degli esami, ti viene il sospetto che potresti essere quasi al capolinea. Capita a un sacco di gente, tutti i giorni leggi notizie dove al capolinea ci giungono gli altri ma non pensi mai che potresti essere uno di loro. A volte magari ci pensi, ma mai seriamente, è più una forma di scaramanzia, la tua speranza di vita, stando alle statistiche, è come minimo altri vent'anni, che sciocchezza fare pensieri del genere, immaginare esiti letali a breve termine. Cerchi di non pensarci ma una parte di te ci sta facendo i conti. Se poi si avvicina un compleanno a cifre tonde, tipo i 40, che si potrebbe fare un bilancio e scoprire cosa si è fatto e cosa no, cosa si può ancora fare nel tempo che rimane.

Anche se avessi raggiunto chissà quali risultati, grandi realizzazioni in ambito professionale, che beneficio psicologico ne trarrei? Ha scritto un libro che è diventato un classico della letteratura, ha reinventato l'arte, ha scoperto un vaccino, è andato sulla luna. Son cose che renderebbero più facile questo processo di assorbimento della realtà? C'è davvero qualcosa che uno può fare per rendere meno traumatica la presa di coscienza di avere più tempo alle spalle che davanti?

Un figlio poi, un figlio piccolo, che lo guardi e pensi che ti fa più male pensare a quello che proverebbe lui, che in fondo per te non sarebbe così male, sarebbe solo un andare avanti a vedere cosa succede dopo, potresti finanche sorridere, dire arrivederci. Una moglie, lei è adulta, pensi, non è la stessa cosa, anzi, per una forma di egoismo: meglio io che lei, altrimenti che amore sarebbe?

Alla fine magari salta fuori che non avevi niente, è già capitato che ti spaventassi per niente. Una volta a 16 anni ti eri sdraiato ad aspettare la morte per una colica renale, ti ricordi? Pensavi a James Dean e in fondo uscire di scena all'inizio comportava non dover dimostrare più niente a nessuno, c'era qualcosa di confortante, una specie di sollievo, nell'andarsene prima di avere troppi motivi per voler restare qua. Poi è passata e quei pensieri sono diventate convinzioni stupide, pensieri dettati da una visione ingrata della vita, roba di cui vergognarsi. E allora avanti, rimbocchiamoci le maniche, anche se in sottofondo una vocina ripeteva non ha senso lasciare impronte, è solo un appuntamento rimandato. Hai letto troppo, hai studiato troppo: c'è il sole, esci, ama, esprimiti.

È così che ti ritrovi a 40. Ieri eri sdraiato con le mani premute sulla schiena, oggi sei ancora quello, non è cambiato niente. Credevi che crescere avrebbe significato cambiare, diventare altro, guardare indietro e chiederti chi eri, non riconoscerti nelle fotografie ingiallite, evolvere a tal punto da scordare te stesso, come se allungando le mani un bel giorno ti riuscisse di sentire la consistenza della crisalide e uscire, spiegare le ali, finalmente afferrare l'essenza della tua vera natura.

E invece no, sei sempre lo stesso. Hai solo accumulato roba nella mente con cui baloccarti nel tentativo di cambiare: libri, film, esperienze. Così quando mi ritroverò sdraiato in attesa i miei pensieri saranno diversi. E invece no. Sono gli stessi, solo più complicati. Ora hai avuto tempo per incidere da qualche parte nella corteccia del mondo “I was here”, hai perfino messo al mondo un figlio nel tentativo.

Ecco perché ho iniziato qualche giorno fa a scrivere delle lettere a mio figlio. Giusto nel caso, ma anche perché mi sarebbe piaciuto che mio padre avesse fatto lo stesso. Ho aperto un account email a suo nome, l'idea è di raccontargli delle cose, per fargli capire, se è possibile farlo a parole, che l'unica cosa che uno può fare per modificare il proprio atteggiamento nei confronti del vivere e morire, avere la sensazione di poter toccare la crisalide, è avere un figlio. Tutto il resto è solo un passatempo.