giovedì 29 aprile 2010

L'araldo di Postacqua (2+3 di n)

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Il corpo, o quel che ne rimaneva dopo lo scempio causato dalla combustione, risultò appartenere a Erminio Cattelli, il giovane trasferitosi da poco con la moglie che aveva comprato l’ultima in fondo delle villette a schiera in Via dei Ciliegi, la casa meglio nota come ‘villa dell’aquila’ a causa dell’uccello artificiale, posizionato vicino al cancello d’ingresso, che cambiava colore a seconda del tempo: celeste in caso di pioggia, vermiglio se bel tempo.
La moglie di Erminio, Giacinta, era una donna minuta che, in vanto del suo nome, amava i fiori e tutta la loro fenomenologia. Indossava una veste di un viola scuro con piccole rose carminio a decorazione delle maniche quando vennero a prenderla per il riconoscimento del cadavere. Non che ce ne fosse bisogno; la grossa catena d’oro massiccio che l’uomo sfoggiava dall’apertura della camicia, su un petto a dir poco villoso, era più che sufficiente a togliere ogni dubbio sull’identità della vittima.
Romea, la vicina di casa e aspirante migliore amica di Giacinta si offrì di accompagnarla e insieme presero posto sulla vettura del vigile Enrichetto, una Fiat panda bianca col simbolo del Comune ben visibile sulle portiere. ‘Dal 1405 il miglior posto dove vivere’, recitava una scritta sotto il simbolo e, in piccolo, ‘Gemellato con Dampcross, Maine (USA)’.
Giacinta scuoteva il capo, incredula, e si era dimenticata di togliere i guanti da giardinaggio.
“Non può essere lui”, ripeteva a tutti quelli che incontrava.
“Non ti agitare, ci sono io qui con te”, le disse Romea tenendola sottobraccio. Le carezzava l’avambraccio intrappolato e le dava pacche leggere sulla mano calzata nel guanto sporco di terra. Cercava di tenerle occupata la mente parlandole in modo incessante. “Vedrai che passa tutto. Non sei sola. Qualsiasi cosa accada, non voglio vederti cadere in una crisi isterica. Prendi una di queste,” tornando ad allungarle una pasticca che Giacinta continuava a rifiutare, “è tutta roba naturale, ti farà altro che bene.”
“Chi guiderà il suo camion ora che se n’è andato?”
“Non è detto che sia lui, cara, non ti agitare.”
“Hanno parlato di una catena d’oro, chi altri può essere?”
“Calmati, non sei sola, prendi una di queste.”
Il camion di Erminio era rimasto posteggiato al cimitero, l’unico luogo di Postacqua con un parcheggio abbastanza capiente se si esclude il ristorante ‘Il porto vecchio’, giù verso la sponda destra del fiume, poco prima del ponte dei genieri. Erminio avrebbe preferito posteggiarlo al ristorante, più vicino alla villa dell’aquila, ma Filippo non gli aveva dato il permesso, anzi, lo aveva trattato in malo modo quando gli aveva esposto l’idea. Sarebbe stato disponibile anche a pagare qualcosa per il disturbo ma Filippo era stato irremovibile: “Il mio è un posto di lusso”, aveva dichiarato, “Niente camion nel mio parcheggio, grazie lo stesso.”
Così Erminio aveva dovuto accontentarsi del cimitero e, quando l’auto del vigile Enrico passò nei pressi, Giacinta emise un verso strozzato vedendo il camion fermo nel piazzale, col sole di sbieco a renderlo più grosso di quanto non fosse, effetto accresciuto dal fatto che i cipressi decorativi erano stati piantati solo l’anno prima e, alti non più di un paio di metri, contribuivano a ingigantire il mezzo.
“Aveva sempre desiderato comprarne uno più grosso”, disse Giacinta scuotendo la testa. Poi si accorse di aver parlato del marito al passato, come se una parte di sé fosse già convinta di averlo perso del sempre. Scoppiò in lacrime e finalmente accettò la pillola che Romea non smetteva di spingerle sotto il naso.
Erminio aveva dovuto accontentarsi di un autocarro adattato per la vendita della frutta. Stava accantonando una parte dei profitti, a dire il vero piuttosto scarsi, per comprare un camion degno di quel nome, una motrice imponente con la quale trasportare merci in giro per l’Europa.
“Aveva un sogno, il mio Erminio”, singhiozzò Giacinta, “Voleva aprire una ditta di trasporti transeuropea.”
“Non ti preoccupare, vedrai che si sistema tutto”, disse Romea.
“Ma come fai a dire una cosa del genere?”, sbottò a quel punto Giacinta, strappando via il braccio dalla stretta dell’amica, “Ti rendi conto? Cosa vuoi che si sistemi? Piantala di dire stupidaggini!”
Colpita dalla veemenza del tono, Romea si mostrò piccata e si voltò verso il finestrino, decisa a non replicare ma solo per rispetto della tragedia in atto che non per attitudine alla conciliazione. Ecco cosa si ottiene ad essere altruisti, avrebbe voluto rispondere. Invece aprì la borsa e prese una pillola anche per sé.

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Nel frattempo la gente si era spostata dal sagrato e si era radunata sotto la veranda del bar in Piazza del Comune. Non c’era più nulla da vedere sul luogo dell’accaduto, a parte i segni del gesso tracciati dai periti e macchie di bruciato sui cubetti di porfido; un agente aveva scattato alcune fotografie, un altro agente aveva preso i nomi dei presenti chiedendo a ognuno se avesse visto qualcosa di utile per le indagini. Avevano coperto il cadavere con un lenzuolo e l’avevano in seguito caricato su un furgoncino scuro.
Il vociare della folla però era tutt’altro che scemato, limitandosi a passare da opinioni espresse ad alta voce a opinioni bisbigliate davanti a un campari o a un bicchiere di vino bianco, da sorseggiare ai tavolini sotto la pergola del bar. Era quasi mezzogiorno e molte persone erano rincasate per adempiere al rito del pranzo ma quasi tutti cercavano di restare il più possibile, fino all’ultimo istante disponibile, a discutere l’evento del giorno. Quelli che si vedevano costretti a ritirarsi promettevano di tornare di lì a poco, nel primo pomeriggio, e fissavano appuntamenti per continuare la conversazione lasciata in sospeso per cause di forza maggiore.
Essendo le scuole chiuse per vacanze estive c’erano ragazzini, in canottiera e calzoncini, armati di ghiaccioli, che si aggiravano fra i tavolini raccattando frasi che riportavano altrove per alimentare discussioni parallele altrimenti destinate ad affievolirsi. Uno di questi ragazzini prendeva il proprio compito con grande serietà e si sforzava di memorizzare ciò che udiva parola per parola al fine di essere in grado di riportare fedelmente a chicchessia quanto aveva udito dal compaesano di turno.
Piercarlo si aggirava sotto la pergola tenendo per mano Ezechiele e non facendo alcunché per dissimulare il suo profondo interesse. I suoi per così dire clienti sapevano benissimo che Piercarlo sarebbe andato a dire in giro quanto avrebbe sentito ma non se ne preoccupavano e non si sentivano traditi per almeno due motivi: Postacqua era un paese libero dove ognuno aveva diritto a pensarla a modo suo e, in seconda battuta, Piercarlo era il mezzo perfetto per diramare notizie senza che gli interessati dovessero gridarsele da un tavolino all’altro.
“Pare che il Cattelli fosse un poco di buono”, disse Roberto a Mario, sorseggiando il caffè freddo.
“Ho visto un film, una volta, saranno dieci anni fa, in cui c’erano dei mafiosi e questo tizio aveva fatto non ricordo cosa ma quando l’hanno scoperto sapete cosa gli hanno fatto?”, interloquì Giorgio, controllando l’orologio e voltandosi a cercare con lo sguardo dove si trovasse il figlio Ezechiele.
“A me invece sembrava una brava persona, un gran lavoratore”, disse Mario.
Giorgio chiamò Ezechiele e il bambino si voltò di scatto, salutò con la mano e strattonò Piercarlo al fine di venire accompagnato dal padre.
“Può darsi, ma c’era qualcosa nel suo modo di guardare che mi dava da pensare”, replicò Roberto osservandosi le unghie sporche e odorose di benzina, “Chissà da chi portava il camion per la manutenzione, da me no di certo, per cui non posso dire più di tanto.”
“Guarda chi arriva”, la voce di Curzio raggiunse tutti i presenti nonostante fosse in un angolo e si fosse allungato per bisbigliare nell’orecchio di Rino, il minore dei fratelli Bonimba.
Piercarlo corse incontro a Don Gaudenzio che si asciugava il sudore con un fazzoletto cercando di tenere il passo di Palmiro Camuni, Colonnello dei Bersaglieri in pensione. Sotto la pergola regnava il silenzio quando i due nuovi arrivati si fermarono e rimasero fermi a scambiarsi occhiate, in chiaro riferimento a chi fra di loro dovesse parlare per primo.
Ezechiele mollò la mano di Piercarlo e corse in braccio al padre. Bettina uscì da dietro il bancone con in mano un bicchiere e un panno per continuare ad asciugarlo sulla soglia, da dove avrebbe potuto vedere il motivo dell’improvviso tacere. Don Gaudenzio abbozzò un cenno del capo e fece un passo avanti, mise in tasca il fazzoletto e iniziò a parlare.
“Oggi pomeriggio alle sei in punto le campane suoneranno a morto e si terrà una messa speciale. Subito dopo la funzione ci sarà un intervento del sindaco dove i cittadini potranno rivolgere delle domande. Queste morti stanno sconvolgendo la vita della comunità ed è necessario restare uniti per far fronte alla disgrazia che sta colpendo il nostro paese. Spargete la voce, desidero che ci sia la massima partecipazione perché solo uniti tutti assieme possiamo superare le avversità.”
“Padre”, interruppe Giacomo, il maggiore dei Bonimba, spingendo via la mano di Rino che cercava di impedirgli di parlare, “forse è pericoloso.”
Don Gaudenzio si fece impettito e il suo sguardo mostrò appieno la sua contrarietà.
“La Chiesa non è pericolosa”, alzò la voce, “Stiamo parlando della casa di Dio.”
Il Colonnello Palmiro Camuni si fece avanti e si impadronì dell’attenzione degli astanti “Questo è vero: la mia povera e amata Giuliana, pace all’anima sua, si trovava alla fontana dietro la canonica e ora il povero Erminio è caduto proprio davanti al portone.”
“E con un dito puntato”, borbottò Curzio abbassando immediatamente lo sguardo quando il Colonnello si volse nella sua direzione..
“Le funzioni d’ora in poi si svolgeranno nella cappella di Nostra Signora delle Fonti”, non era una constatazione ma un vero e proprio ordine diretto a Don Gaudenzio. Detto questo il Colonnello fece una specie di dietro front e se ne andò a lunghi passi, subito imitato dagli altri che presero a salutarsi in modo frettoloso, ad accampare scuse, a stringere mani e darsi pacche sulle spalle per poi dirigersi con una certa urgenza lontano da Don Gaudenzio, il quale stette lì in piedi a osservare il leggero trambusto con le labbra serrate e i pugni stretti.

mercoledì 28 aprile 2010

Corrispondenza (3~N)

Caro Raffaele, sono sicuro che la preoccupazione dalla tua parte era tanta per il tempo che è passato senza avere notizie del tuo vero e prezioso amico Maichol. Per colpa del computer (come si dice computer in italiano, come vedi ci sono ancora qualche parola che devi impararmi) non ho trovato nuove lettere di tuo pugno. Deve essere per forza colpa del computer perché tu di certo hai usato il tuo pugno per scrivermi delle risposte. Il tuo problema di memoria forse mi hai contagiato, stavo dimenticando di ripetere il saluto dei miei figli e anche delle bambine, dicono tanti saluti a quello là, mi sembra che ti voglino bene anche se non ti hanno mai visto. Non è mirabolante? Le mie mogli non ti salutano, ma non devi lasciare che questo ti faccia sentire offeso. Guarda me, non mi salutano da anni e non mi sento offeso.
La spiegazione che è passato un poco di tempo è che mi hanno obbligato a uscire, ma tutto bene, sono tornato. Devo solo stare più attento, le mogli me lo dicono tutti i giorni, dicono sei stupido Maichol ma la traduzione nella lingua italiana è devi stare più attento. Ci sono questi fogli che senza i timbraggi ti mandano fuori e devi spendere dei soldi per tornare dentro. Lo so, ho promesso di non chiedere a te dei soldi e vedi che non lo sto facendo infatti. I miei figli quando ho detto che c'erano meno soldi perché non sono stupido ma devo stare più attento i miei figli hanno detto non ti dannare papà (hanno detto proprio dannare, non è mirabolante? Non ti farò tradimento chiedendo a loro di aiutarmi a scrivere il libro ma devi acconsentire con grande umiltà che sono già adesso più bravi di te, il mio seme è potente) quello là è un uomo buono e ti manderà dei soldi. Non te li sto chiedendo.
Ho messo un riassunto pieno di dettagli nel libro, aspetto che mi rimandi le correzioni per fare una figura più bella quando i miei figli leggeranno così capiranno che Maichol non è stupido e nemmeno povero di parole della lingua che li sta adottando. Pensa che non sanno leggere quando uso i segni della mia origine mi dicono papà non sono parole sono insetti spaccicati (spaccicati, diventeranno famosi per la loro intelligenza superiore, come spacciati ma con un'altra c mi hanno imparato, quando li guardo mi viene l'acqua negli occhi non come piangere, come una parola che non mi ricordo da quando mi hai contagiato).
Ho scritto anche delle briciole nei baffi della guardia. Ho scritto che teneva la mano sulla pistola anche se non è vero. Come dici tu, la tensione drammatica, ce l'ho messa stavolta, per farti contento. Volevo anche mettere che mi avevano picchiato e che le mie mogli piangevano a vedermi mandato via ma non riesco a dire troppe bugie, devo fare altro sano allenamento su questa cosa della tensione drammatica. Se mi trovi peggiorato nel parlare è che sono stato via, perché non sono stato attento e i miei fogli non erano come le guardie li volevano. Adesso ho un nuovo nome e dei nuovi fogli, per qualche mese nessuno può mandarmi da nessuna parte se io non sono d'accordo.
Ho deciso che quando sarò ricco e famoso per via di questo libro diventerò potente e farò le leggi e la prima legge dirà che le guardie devono farmi vedere un foglio coi tanti timbri colorati molto difficili da trovare. Poi andrò in giro a fermare le guardie e dirò il tuo timbro è sbagliato (non sarà vero ma l'allenamento in tensione drammatica mi farà produrre tante bugie senza fatica) e dirò tu devi andare via e cambiare nome quando ti rivedo forse ricordo la tua faccia forse no. Dirò non sei stupido, devi stare più attento. L'altra legge sarà che le mie mogli non devono uccidermi mentre dormo, che uno deve avere il potere di difendersi anche se sono le sue mogli. Un'altra che i miei figli e le mie bambine devono avere delle statue perché sono davvero mirabolanti. Un'altra che dice solo Maichol e quello là sono amici come fratelli, però di più, inventiamo una parola apposta.

martedì 27 aprile 2010

Il sale della terra.

Eppure era senz'altro il più grande esperto nell'arte del camuffamento. Riusciva a nascondere perfino il fatto di esserlo. A guardarlo nessuno avrebbe scommesso sulla sua capacità di occultare, dissimulare, mimetizzare. Perché decise di farmi partecipe della sua avventura, non lo so. Forse mi aveva scelto a caso, pescando in mezzo al mucchio. Non ha smesso di svelarsi ai miei occhi neanche quando decisi di tradirlo, per il suo bene, raccontando pubblicamente che la sua era tutta una finzione, una presa in giro. Lui non è stupido, lui non è ignorante, lui non è quello che sembra. Sta facendo un esperimento su di voi, scrissi, sta giocando, affermai. Nessuno mi credette. Lui non si arrabbiò, mi diede una pacca sulle spalle, disse come volevasi dimostrare, ridacchiò. Era senz'altro il più grande esperto di camuffamento di cui si abbia notizia.

Senza di me nessuno l'avrebbe mai saputo, il suo talento sarebbe rimasto taciuto. Mi chiedo se la sua vera personalità si sentisse sola, confinata in sala di regia, lontana dalla vita, obbligata a guardare il mondo da un monitor e lanciare suggerimenti in cuffia all'attore. Eppure nessuno mi crede, per cui è tutto inutile. Mi immagino che stia ridendo di me, che sono l'unica persona rimasta danneggiata da una mistificazione lunga una vita. Ho fatto delle ricerche per trovare nel passato testimonianze simili alla mia, qualcuno che non sia mai stato creduto parlando di inganni altrui. Non ho trovato niente, forse sono davvero l'unico testimone di una grandezza andata perduta, o meglio buttata via. Aveva deciso di sedersi in terra, di stare in un angolo, di essere ignorato.

Ho delle registrazioni, conservo delle lettere, perché nessuno ritiene possibile attribuirle a lui? Era quello con la faccia da ebete, quello che camminava un po' storto, che ti guardava allibito quando cercavi di spiegargli un concetto difficile. Era quello che era ubriaco dopo una birra, e questo la dice lunga su quanto fosse bravo a mentire. Quello che faceva battute sceme, rideva in quella maniera sguaiata tipica di chi non si rende conto di provocare disagio. Eppure vi dico che era senz'altro il più grande esperto nell'arte del camuffamento. Quello distratto, inconcludente, superficiale, pronto allo scherzo. Quante volte l'ho visto subire prese in giro senza battere ciglio. Mi arrabbiavo al posto suo, cercavo di difenderlo, voi state prendendovi gioco di un fantoccio, potrebbe schiacciarvi con un dito se volesse, e giù risate come se il mio fosse il non plus ultra dello scherno.

La tua è solo presunzione, lo accusai un giorno, consideri l'intero genere umano indegno di te, per questo reciti una parte. Lui fece spallucce, disse non capisci niente, ti ho scelto per questo, perché non puoi capirmi. Allora perché, dimmelo, dimmi cos'è che non capisco. Che paragone vuoi, culinario, matematico, economico? Mi disse che c'era convenienza. Ma quale convenienza hai nel evitare di dare qualsiasi contributo reale, nel soffocare le tue vere attitudini, nel tenere per te le espressioni, i sentimenti, le opinioni, tutto quanto? Lui guardò in terra, cosa ci guadagnerei a smettere? Soldi, che me ne faccio. Stima e rispetto, che me ne faccio. Paura e soggezione magari, peggio ancora. Ammirazione e invidia, bell'affare.

Capii che c'era qualcosa di rotto dentro il più grande esperto nell'arte del camuffamento. Un atleta che non vuole medaglie. Un aquilone che disdegna il vento. Avrei dovuto tacere, se avessi tenuto la bocca chiusa adesso saprei dov'è, cosa sta facendo, e invece ho parlato senza riflettere, gli ho chiesto se fosse mai stato davvero amato. Lui disse sì, moltissimo, ma sentirsi amati è tutt'altra cosa. Possono amarti in una varietà di modi pressoché innumerabile, usò queste precise parole, parlava così quando non indossava travestimenti, senza maschera non diceva ci stanno tanti modi di amare o te puoi amare diverso se vuoi, riuscite a capire quanto profonda e articolata fosse la truffa che organizzava nei confronti di chi parlava di lui come dello scemo del villaggio?

Possono amarti in una varietà di modi pressoché innumerabile, ma non significa che riescano a farti sentire amato come la parte più profonda di te desidera e anela. Ci sono forme di arsura che non possono trovare sollievo. Se lo capisci allora smetti di cercare, ti arrendi, oppure ti inventi giganti a forma di mulino a vento. Comunque sia quel che rimane è il ricorso all'illusione. È più facile per me prendere in giro gli altri che prendere in giro me stesso. È più conveniente, tutti lodano il cane feroce ma scelgono il cane docile. Non voglio essere quello col pelo lucido, con la linea aerodinamica. Non voglio essere un proiettile, una decorazione post-moderna per abbellire il salotto in attesa di stupire ospiti importanti. Non voglio dimostrare qualcosa a qualcuno, non ne sento alcun bisogno.

Per questo rinnego tutto quello che ho detto finora. Non era il più grande esperto nell'arte del camuffamento. Non ha mentito né imbrogliato. Ha scelto di non dimostrare niente a nessuno, tranne che a me. Si può scegliere una cosa simile? Ho distrutto le registrazioni, bruciato i suoi scritti. Date la colpa a me, me lo sono inventato, non c'era niente da scoprire dentro di lui, era davvero lo scemo del villaggio. Era giusto prenderlo in giro, non c'era nessun tipo di sottovalutazione nel trattarlo con sufficienza. Continuate a pensare che non avesse nulla di cui andar fiero, che non ci fosse niente in lui di cui andare orgogliosi. Non aveva capacità, non aveva un briciolo di intelligenza, voi eravate e siete mille volte meglio di lui. Come volevasi dimostrare, a volte riesco a capirlo.

lunedì 26 aprile 2010

Gemellaggio.

Abbiamo agito d'impulso, è stato come alzarsi dalla sedia a rotelle nello stesso momento. Fino a poco prima stringevamo i copertoni della carrozzella, i guanti con inserti di gomma per migliorare la presa, gli avambracci tesi, le spalle muscolose. Ci siamo guardati e abbiamo letto l'uno negli occhi dell'altro lo stupore, Che ci fa tu, proprio tu, su quella sedia?, Perchè?, ci siamo alzati e abbiamo camminato fino alla macchina. Mi sono messo al posto di guida e siamo tornati indietro negli anni al tempo in cui ero sempre io quello al volante, quando lui se ne stava col broncio fino a destinazione e io me la prendevo con le altre macchine, coi motocliclisti, con le biciclette i pedoni i semafori, il sole e la pioggia, tutto strada con lui a leggere - Come si fa a leggere in macchina? Ti chiedevo. Ricordi? E tu non mi rispondevi mai. - e io a sbraitare, lui con gli auricolari a chiuderlo dentro al suo mondo asfittico e io a gesticolare per non restare chiuso in nessun tipo di mondo.

Non ci siamo messi d'accordo prima. Come avremmo potuto, del resto? Non era nemmeno previsto che ci incontrassimo, ne sono sicuro. Qualche falla nei protocolli, una piccola distrazione, un inconveniente. Eccoci lì, tutti e due, a guardarci in faccia. Lui ha puntato un dito verso la macchina, io ho annuito. Era proprio simile a quella che avevamo quando puntuali ogni mattina passavamo giù da Canal Street e mandavamo un segnale col clacson su attraverso i vetri della finestra al secondo piano, per salutarla - Ti ricordi? Alzavi la testa quando la mia mano stava ancora ipotizzando il gesto. Come ci riuscivi? Cosa ti faceva smettere di leggere? Un suono, una luce, una sensazione, un insieme di percezioni limitrofe? Perché non dicevi niente? Non avevi proprio niente da dire? - nel punto in cui la salita termina e si vede giù fino alla baia quando va male, fino al profilo dell'isola dei conigli se va bene.

Mi sono avvicinato e gli ho chiesto le chiavi e lui me le ha date. Deve aver visto anche lui le sedie a rotelle che, abbandonate, cigolavano ancora nelle nostre teste. Deve aver visto che ci eravamo alzati, contro ogni probabilità, sfidando le leggi naturali. Ci eravamo alzati e quell'uomo ci ha dato le chiavi per ringraziarci di quello a cui stava assistendo. Perché noi saremmo saliti a bordo e avremmo fatto ciò che anche lui aveva sempre desiderato. Saremmo partiti adagio, senza sgommare, senza pestare sull'acceleratore. Avrebbe chiamato le forze dell'ordine, ma non prima di sorriderci, di incoraggiarci, Fatelo anche per me, ragazzi. Puoi contarci, amico, ti dedichiamo la polvere che nuvoleggia nello specchietto retrovisore, quando tagliamo per il cantiere abbandonato per evitare lo svincolo con la 119. Non ho mai sopportato quello svincolo - Ti dovevi attaccare alla maniglia di sicurezza per la violenza della svolta, ti ricordi? Prendevo il cordolo del marciapiede e saltavamo sui sedili, il cancello che più di una volta grattava la carrozzeria con verso da uccello rapace. Ti sentivo ridere, non potevi farne a meno. Strizzavo gli occhi incattivito e ti ringhiavo Cosa ridi? E più forte ripetevo Cosa ridi, cosa riiiidiiii? - con tutti quei nodi le precedenze gli innesti laterali, uno svincolo tentacolare.

Abbiamo puntato verso il sole, solo per il gusto di abbassare i deflettori, di mandare fastidiosi lampi dal parabrezza contro quelli che ci venivano incontro. Non ero più io, non era più lui. C'era solo il vento dai finestrini abbassati, la radio a tutto volume, il sole proprio lì davanti con le sue esplosioni nucleari troppo distanti per poterci impressionare. Tutto era troppo lontano, tutto, tranne lui per me e io per lui, tornati a correre dopo un periodo di contenzione forzata. Facevo avanti e indietro col busto e lui batteva sul cruscotto con le mani aperte, per segnare il ritmo - L'hai fatto anche quella volta, quell'unica volta, ti ricordi? Cantavamo addirittura, quella volta. La tua voce da bambino e la mia resa grottesca da tabacco scadente. Cos'è successo poi? Perché abbiamo smesso, tu lo sai? Era per sempre o niente lo è? - e siamo passati davanti alla clinica, al macello, alla chiesa sconsacrata nella zona dei magazzini distrutti dall'incendio.

Non ci ha fermato nessuno, eravamo come invisibili. Quando siamo usciti dalla città continuavamo a guardarci intorno, a riempirci di verde e di blu. Mi sono fermato a una deserta piazzola attrezzata, i tavoli da picnic sbiancati di salsedine, i giochi per bambini inutilizzati e afflitti. Cercavo qualcosa da dire, mi veniva in mente solo sangue e muco sputato in un bicchiere di plastica, da svuotare nel lavandino trattenendo i conati. Persone che improvvisamente perdono l'equilibrio e cadono, occhiali scuri che si rompono, il tonfo che fa la corrente elettrica quando salta. Wooomp! L'ho guardato e alla fine ho detto qualcosa - Lo sai come mi capita, vero? Dicevo una cosa che non c'entrava niente fra grandi parentesi di silenzio. Quando succedeva tu scuotevi la testa e mi davi una risposta adeguata, mi tiravi fuori dal pozzo come se fosse una cosa semplicissima, che chiunque al tuo posto avrebbe saputo fare – è stata l'unica volta che ha risposto a bassa voce, Forse hai ragione, non si è nemmeno voltato a guardarmi, concentrato su qualcosa laggiù nel mare, qualcosa di piccolo e appuntito.

giovedì 22 aprile 2010

alla stregua di sghembi parallelismi

ginavo di parlare con Maurizio Costanzo era tanto tempo fa c'era una ragazza bionda con la voce acuta che gesticolava in vestiti da bambola c'era la ragazza bionda quasi ogni sera e aveva la parlantina non era tanto quello che diceva non saprei stabilire se quello che diceva avesse un senso ma il modo in cui metteva assieme le parole aveva una padronanza della lingua stupefacente la ascoltavo e non mi arrivavano i concetti ma solo la musica quella specie di ritmo che ottieni quando le sillabe fanno la cavallina con rime involontarie non è l'accento non è la cantilena si tratta di matematica c'è stato questo periodo che non si arrabbiava non alzava la voce era prima che si lasciasse sopraffare dal personaggio mi piaceva ascoltarla e quando spegnevo tutto per dormire sapevo già che avrei passato ore a parlare con Maurizio Costanzo per il solo gusto di parlare con qualcuno anche a telecamere spente non aveva importanza anche con un pupazzo a forma di Maurizio Costanzo capace solo di annuire ogni tanto quando si sgonfia così me ne stavo seduto su una seggiola col piede sulla pompa del canotto e agitavo la gamba per impedire a Maurizio Costanzo di sgonfiarsi questa faccenda mi faceva rigirare nel letto e muovere le labbra senza emettere suoni a volte entrava Sgarbi e allora stavo zitto e fermo finché non se ne andava poi ricominciavo a pompare aria dentro Maurizio Costanzo e andavo avanti fino a quando ero così stanco da emettere vagiti da usare il linguaggio dei neonati perché non era tanto quello che dicevi era il ritmo era come invertire l'ordine dei fattori sviluppare le equazioni senza mai arrivare a un risultato definitivo poi una sera Maurizio Costanzo è scoppiato ho cominciato a sudare nel letto senza riuscire a svegliarmi cercavo di fermare l'emorragia con lui che faceva questo rumore fortissimo l'equivalente di un grido disperato sotto forma di pernacchia l'aria che gli faceva sventolare i bordi della ferita e pompavo mentre con le dita tentavo di chiudere lo squarcio che aveva sulla pelata il riporto dei capelli tutto scompigliato per non destare sospetti continuavo a parlare a usare il trucco della ragazza bionda le sillabe come palline di un giocoliere pregavo che non entrasse Sgarbi proprio in quel momento perché se l

martedì 20 aprile 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (24 di N)

A un certo punto non te la puoi cavare con spiegazioni illogiche. Inventare serve solo a evocare nel bambino espressioni da adulto che un adulto vero non lascerebbe emergere. Espressioni che stanno per 'Ho l'impressione di avere a che fare con un idiota'. Gli adulti veri cercano sempre di evitare l'innesco di situazioni conflittuali a titolo gratuito. I bambini no, sono immuni a certe piccole furbizie ipocrite, ai collaudati stratagemmi della diplomazia. Non conosco nessuno che più di mio figlio sa darmi tante volte del pirla al giorno con la sola potenza dello sguardo, tranne forse mia madre, e mia moglie, a ben pensarci. Forse è una facoltà connessa a uno stretto legame di parentela.

Come fai a ricambiare con un atteggiamento sprezzante, a farti valere con un bambino che deve aspettare altri tre mesi per compiere cinque anni? Ammesso che tu abbia un carattere con la tendenza a farti valere anche quando la fatica che comporta è superiore ai benefici che ne potresti ottenere. Al massimo un po' di autostima, niente di che se non ne soffri una carenza patologica. Si nasce predatori e si muore prede. Diventare vecchi ha qualche vantaggio, se si è in grado di riconoscerlo. È più facile adattare una mente giovane a un corpo vecchio, non c'è bisogno del bisturi, è sufficiente sdraiarsi a terra con le mani sulla testa, non opporre resistenza all'arresto.

Fuori tema, certo, è colpa del rap di frontalot, scrivere con frontalot a tutto volume in cuffia porta degli scompensi. Adoro il fuori tema, fosse per me affronterei qualsiasi argomento solo per avere l'occasione di parlare d'altro. L'ultima volta che mio figlio mi ha dato del pirla sfoderando una faccia da adulto è stamattina. Si è messo con un libro aperto in grembo, sdraiato sul divano. Che tenero, fa finta di leggere, anche la posizione assomiglia a quella del papà, quando si stravacca sul divano a leggere.
“Stai leggendo?”, chiedo.
“Sì, non vedi?” L'asilo, la colpa è dell'asilo se ha preso certe cattive abitudini. Risposte sgarbate, ordini perentori, l'interazione con i coetanei dà i suoi frutti.
“Cerca di essere gentile, non sono tuo fratello.”
“Lo so, lo so. Adesso sono impegnato.”
“Non sai leggere.”
Seconda occhiata politicamente scorretta.
“Non mi rispondi, eh?”
“Mi lasci leggere in pace o cosa?”
“Non sai leggere.”
Terza occhiata.
Punto il dito su una parola e dico “Leggi, che parola è?”
Fa lo spelling. “Ti, e, erre, erre, a.”
“Visto? Non lo sai.”
“Terra. La parola è terra.”

Ha imparato a camminare, a correre, a saltare. Il tuo controllo è sempre più risicato. Lui diventa grande e tu diventi piccolo. Ti senti piccolo, in maniera diversa, una modalità correlata al dare un senso al domani, ti si restringe l'ego, ti diventa come quei calzini che sbagli il tasto della lavatrice e te li puoi usare come scaldadito. Ti sei dato troppo da fare. Gli hai insegnato i numeri che aveva appena smesso di gattonare, sapeva più numeri che parole. Tutti quei programmi per computer che insegnano a leggere, scrivere, far di conto. Correlazione occhio mano. Puzzle, giochi di logica. Labirinti, cruciverba, la fottuta penna parlante. Hai creato un mostro, ti meriti le occhiate che ricevi. Dovevi fare l'opposto, impegnarti a ritardare la crescita. Dov'è finito quel coso sbauscioso che rideva quando facevi le imitazioni di animali marziani, ballando davanti al seggiolone, eh? Non ti guardava così allora, vero? Bastava poco. Quante cose sono già andate perdute per sempre. Si avvicina il momento, sai che arriverà. Imbraccerà un fucile metaforico e comincerà il tirassegno. Maledetto Freud.

“Adesso sai la vera storia del pinguino?”
“Sì, Pablo, è ovvia e banane.”
“Banale, non banane.”
“Dove la leggevi tu?”
“Non capisco.”
Quarta occhiata.
“Quando leggevi tu, dove leggevi quelle diverse?”
“Ah, in quel senso. Non leggevo, inventavo.”
“Non sai leggere? Vuoi che ti insegno come si fa?”
Quinta occhiata.

Meno male che per il momento rimangono le finte lotte sul tappeto Ikea, il tappeto più venduto al mondo, quello con il paesaggio e le strade su cui far correre le macchinine. Non sa capire la tabella degli orari dei treni, non ha un lavoro, le sue possibilità di indipendenza sono al momento ancora piuttosto ridotte. Già lo vedi che tirerà fuori opinioni e convinzioni che reputerai assurde, che se ne andrà in giro in posti in cui tu non metteresti mai piede. Sta crescendo. Adesso quando non vorrà andare all'asilo gridando “Sono stufo di asilo! Stufo, stufo, stufo! Ci sono andato mille volte, è sempre lo stesso, io mi stufo all'asilo!” non potrà nascondersi dietro la scusa di essere piccolo, di potersi concedere scenate infantili, non dopo che le sue espressioni facciali hanno tradito una complessità inaspettata. Tutto ciò è un guadagno ma è anche una perdita.

“Andiamo, metti le scarpe.”
“Dove, a cercare i sassi per fare la grotta al mio pesciolino? Così potrà entrarci quando vuole fare un pisolino?”
“No.”
“Dove, a prendere il drago che aveva la coda rotta e non poteva volare e poi l'aggiustiamo e gli diamo da mangiare?”
“No.”
“Lo sai cosa mangia il drago nero?”
“Veloce, metti anche l'altra che andiamo.”
“Mangia l'erbetta? Nooooo.”
“Sei pronto? Metti il giubbetto che fuori c'è frescolino.”
“Mangia frescolino? Noooo.”
“Mangia i bambini che non vanno all'asilo.”
“Asilo? Asilo?!?!? Non posso andare all'asilo oggi, c'è chiuso.”
“Oggi è martedì, è aperto.”
“No, sono sicuro che è chiuso. E poi sono stufo, te l'ho già detto ieri.”
“Poche storie, non ricominciare, tutti i giorni la stessa storia.”
“Quale storia, quella del drago? Sai cosa mangia?”
“Lo so che è tutta scena, me l'ha detto la maestra che ti diverti.”
“Beh, mangia pesci, ecco cosa, non serpenti, non camellonti.”
“Camaleonti.”
“All'asilo ci sono i cameolenti, io ho paura dei cameolenti, quindi, oggi, non ci posso andare, oggi, all'asilo. Hai capito?”
Sesta occhiata e sono solo le otto del mattino.

venerdì 16 aprile 2010

Lemming-o-matic.

Alla festa c'è il rappresentante dei perni snodabili di nuova generazione, se ne sta vicino al bancone a distribuire materiale informativo coi polsini iridescenti a galleggiare nel buio sotto le luci stroboscopiche. I polsini e la parrucca azzurri, le fibbie smaltate dei mocassini e la punta bianca del fazzoletto nel taschino, il resto di lui pressoché invisibile. Tutt'intorno corpi in movimento, nel rombo di tamburi e delle nenie sassofonate. Onde di braccia, corpi di odalische e danzatrici hawaiane, teste di cane a molla incollate sul cruscotto. Ogni tanto uno sparo stuzzica la curiosità del rappresentante, allora si muove veloce, un gioco di gambe e una schivata, quindi torna lentamente alla compostezza di un distributore automatico. Giornalisti e manifestanti sono rimasti fuori, i poliziotti arrestano chiunque tenti di entrare senza invito. Aumenta il conto dei feriti quando una ragazzina, che fino a poco prima stava fingendo di scandalizzarsi per giungere all'ingresso senza impedimenti, estrae l'invito e lo sventola urlando insulti alla folla. Perché lo fai? Le chiede una voce stridula da vecchia, coperta da strepiti di indignazione. Benvenuti all'apocalisse, risponde lei con un sorriso sfacciato, quindi entra e l'apertura del portone è come la rottura del vetro di una vasca per cetacei, quintali di liquido sonoro coprono la folla che si porta le mani alle orecchie. Sono le percussioni, è il richiamo al villaggio per i cacciatori nascosti nella giungla. La ragazzina riempie i polmoni come prima di un tuffo e corre dentro tenendo sollevato il medio teso dietro di sé. La cronista famosa si sistema i capelli, si schiaccia qualche goccia di collirio negli occhi, fissa la telecamera e commenta il filmato. Dagli altoparlanti una voce profonda ogni tanto sovrasta la musica, dice cose come “Essi nasconderanno ogni opera delle loro mani e la getteranno nelle grotte”, “Questo è il nostro vanto, la testimonianza della nostra coscienza.” Quando succede gli scalmanati si gettano in terra e piroettano, le forsennate sollevano strati di gonne e volteggiano. La ragazza entrata da poco è pietrificata, il volto in estasi, una mano sul cuore e l'altra fra i capelli, fissa l'enorme piñata a forma di tetraedro che diffonderà gas letale quando il timer segnerà gli zeri. Una donna imporporata trascina il rappresentante verso il centro della pista, lei fa dondolare i lucchetti, lui tiene una pacco di opuscoli sotto il braccio lanciandone manciate in aria. Ci sono animali feroci dipinti su corpi seminudi che si aggirano bramosi alla ricerca di entusiasmo, elettrizzati dall'odore di sudori misti a paure. Il tempo scorre ovunque, le cifre del timer proiettate da raggi laser nella nebbia artificiale. “È un legno reciso nel bosco, è l'opera di un artigiano, è una fusione in argento” la voce è seguita da un boato di esaltazione e i tamburi vengono accompagnati da voci di donna che incitano, alitano inviti al limite del morboso.

[I]gnore [R]etry [A]bort

Il guardiano proietta un reticolo, immagina linee che percorrono la superficie omogenea che sta sotto il panorama. È in piedi su uno sperone di roccia, da quell'altezza percepisce la curvatura terrestre in lontananza. C'è polvere, ci sono crepe nel terreno prosciugato, la gamma dei colori che ha di fronte è costituita interamente di variazioni di marrone. Il guardiano rimane immobile, rigido, impugna la lancia nella mano destra e un amuleto levigato dal continuo strofinio nella sinistra. Un reticolo di linee coperte di textures, immagini che zoomando raggiungono un'altissima risoluzione. L'intensità luminosa è al massimo, un sole che provoca gibigiana e diafane barriere di calore. Dietro al guardiano c'è un portone sbiadito dal tempo, le borchie d'ottone opacizzate, un portone sbarrato dall'interno. Una distesa infinita, vuota, in cui il guardiano è l'occhio nel corpo immanente di un dio per metà addormentato e per metà in coma, veglia l'accesso a qualcosa da cui è perennemente escluso, di cui ha coscienza solo del portone e di niente oltre a quello. Coglie i tremolii con la coda dell'occhio, in zone che vengono aggiornate solo quando vi cade sopra lo sguardo. Rocce che cambiano posizione con rapidità impercettibile, vento che muta direzione in microscopico ritardo di sincronizzazione con gli effetti sonori. Il guardiano deframmenta pensieri, li decomprime, li trasmette dalla fronte sfruttando una connessione senza fili. Si apre alla condivisione per combattere la solitudine del suo incarico. Alcuni frammenti di codice sono ridondanti, si nota la ricorsività di comandi non riconosciuti dal sistema. Quando succede è come se apparisse l'opzione ignore, retry or abort. In quel caso il flusso entra in stand by e ogni volta la scelta del guardiano cade sulla richiesta di venire ignorato. Una missione importante: difendere, proteggere, vigilare. L'ultimo baluardo, senza di lui il portone sarebbe alla mercé di chiunque. Impedire che il nemico si avvicini di soppiatto, intimare l'alt, chiedere segnali di riconoscimento. Perché è il guardiano, controlla che tutto rimanga com'è, veglia sul sonno di un dio che ha esaurito le risorse, assicura la tranquillità allo scorrere dei cicli di computazione. Frattali di polvere fra i suoi piedi, il guardiano muove solo gli occhi, il resto del corpo immobile, concentrato sul proprio compito. Nessuno potrà mai entrare nel portone senza essere visto, il guardiano rimarrà per sempre a vegliare, l'ultima retroguardia in un mondo spopolato. Gridare 'Svegliati!' per l'ultima volta e scegliere abort al posto di ignore, non avere più nulla da perdere, girarsi e sfondare il portone. Ma non adesso, non ancora.

mercoledì 14 aprile 2010

Illusioni.

A un certo punto si deve smettere di avere paura. Quando sono troppi i possibili rischi da fronteggiare bisogna accettare l'impossibilità di ottenere o mantenere il controllo. Il che non significa agire da irresponsabili correndo incontro al pericolo. È un passaggio molto difficile, innaturale, quello che implica il passaggio a un atteggiamento passivo, di accettazione. Stoicismo, epicureismo, sono molteplici le correnti filosofiche che nel corso del tempo si sono occupate del modo migliore di porsi nei confronti della realtà. In seguito abbiamo abbandonato la questione concentrandoci sull'ontologia, la fenomenologia, l'epistemologia.

Per quanto ci riteniamo progrediti abbiamo invece gli stessi identici problemi che assillavano gli antichi. La vita è più lunga ma continua a finire, prima o poi. Ci sono più medicine ma permangono malattie incurabili, anzi, ce ne sono di nuove. Il lavoro è meno pesante ma in compenso lavoriamo di più. Abbiamo tolto un volto alle divinità ma continuiamo a venerare cose come la fortuna, il successo, la bellezza, l'amore, la creatività, e a disprezzare l'invidia, l'odio, la crudeltà.

La paura, dicevo, tralasciando tutti gli altri aspetti vorrei concentrarmi sulla paura. Deridiamo le paure degli antichi come forma di sciocca superstizione. Eppure sono paure identiche alle nostre attuali, hanno solo cambiato nome. I pericoli che l'uomo teme sono sempre gli stessi e col passare del tempo al posto che diminuire aumentano. Ad esempio venir colpiti dal fulmine, naturale o di Zeus, è poca cosa di fronte a un asteroide che incrocia l'orbita terrestre. A ben vedere gli antichi erano protetti dalla loro ignoranza, più cose impariamo e più ci rendiamo conto di essere fragili e indifesi.

Lo stratagemma delle divinità e dei miti, oltre a incentivare un comportamento improntato all'etica, ci davano uno strumento per ricevere protezione e benevolenza. Oggigiorno non abbiamo più neanche quella, ci restano solo i nostri sforzi e la fiducia nella scienza e nello sviluppo tecnologico. Il commercio con potenze soprannaturali, in cui si viene premiati o puniti e ogni comportamento è soggetto a un giudizio divino, è cessato. L'unica fonte morale adesso è l'individuo e l'unica punizione può venire da un sistema giuridico che deve stabilire cosa è reato, trovare il colpevole, dimostrare la colpa, non punire ma avviare un processo di riabilitazione e reintegrazione nel tessuto sociale.

Non abbiamo più modo di dialogare con qualcuno che governa l'universo, col potere di infliggerci punizioni o salvarci da sofferenze ingiuste. Dio si è fatto uomo ed è morto, realizzandosi nella Storia. Ora dobbiamo far conto solo su noi stessi, sulle nostre scarse capacita di aiutarci a vicenda, niente più interventi dall'alto. Facciamo una piccola lista delle cose che ci fanno paura e che solo una divinità potrebbe aggiustare. Il sole morirà, il riscaldamento globale è ormai un processo irreversibile, terrorismo, bombe nucleari, crisi economiche, carestie, inquinamento, specie animali in pericolo, ecosistemi distrutti, un lampo di raggi gamma proveniente dal collasso di una stella nello spazio basterebbe a provocare un'estinzione della vita sul nostro pianeta, la luna si allontana, lo spostamento dell'asse di rotazione della Terra di qualche grado significherebbe una nuova glaciazione, terremoti, vulcani, epidemie in grado di decimare la popolazione mondiale nel giro di qualche mese.

Abbiamo così tante cose di cui aver paura che non riusciamo più a razionalizzare. Il meccanismo che governa tutti gli animali, uomo compreso, è il cosiddetto attacco-fuga. Di fronte a una situazione di stress il cervello attiva la produzione di molecole finalizzate a potenziare i muscoli. Nel giro di qualche secondo si deve prendere una decisione fondamentale: scappare o reagire. Se non si prende la decisione si entra in stato di shock, si va in corto circuito. Come stiamo reagendo di fronte a tutte le nostre paure? Stiamo scappando nell'ignoranza, volontaria o involontaria, che proteggeva gli antichi? Stiamo reagendo tornando a chiedere l'aiuto di potenze superiori? Siamo in corto circuito, come quelli che si fingono morti per ingannare il predatore?

Alcuni suggeriscono di imparare a convivere con le proprie paure. “L'unica cosa che dobbiamo temere è la paura stessa”? Ma la paura è un meccanismo fondamentale per la sopravvivenza. Impedisce azioni avventate, suggerisce prudenza, innesca riflessioni e sforzi tesi a neutralizzare i pericoli. L'unico problema è l'orizzonte temporale. Per l'uomo qualsiasi cosa perde di interesse se non sta per accadere entro un limite di tempo con un'alta percentuale di probabilità. L'attacco-fuga non si accende se la fonte di stress si presenterà in futuro lontano o imprecisato. Anche questo serve a sopravvivere, se così non fosse saremmo in uno stato di perenne agitazione in attesa della morte.

Qualsiasi sia la scelta, è sbagliata. Forse è la teoria di Darwin in azione nella Storia: gli esseri umani si devono adattare ai cambiamenti nell'ambiente del sapere modificando il loro modo di utilizzare l'intelligenza. Ma esiste davvero un'evoluzione in grado di affrancarci dalla paura? O l'antica soluzione di postulare il divino rimane la strategia più efficiente?

martedì 13 aprile 2010

Primavera.

La domenica mattina Gregorio si sveglia alle sette in punto, come tutti gli altri giorni. Postacqua la domenica mattina esprime un atteggiamento mellifluo, indulgente. Le saracinesche abbassate, tranne quelle della pasticceria, del bar, dell'edicola e poche altre. La gente viene chiamata a raccolta dalle campane, si aggira malvolentieri con le mani in tasca come Pietro o baldanzosa come Beppe. Pietro è di nuovo in cassa integrazione, suo figlio Ronnie fa passi lunghi per restagli al fianco e anch'egli tiene le mani in tasca, cercando di imitarlo. I due non si parlano quasi mai eppure, vi diranno entrambi la stessa cosa, vanno molto d'accordo. Ronnie è un bambino che ascolta parecchio, anche adesso che suo padre sta parlando con Beppe. Osserva le espressioni e adegua la propria a quella del padre, sempre, ma le poche volte che esprime un parere, solo se interrogato, si capisce che i suoi pensieri non sono imitati.
Beppe sta parlando di biscotti, di qualcuno che dovrebbe smettere di criticare, di qualcosa che ha visto in televisione la sera prima. Beppe è molto informato e ha sempre un'opinione precisa. Pietro annuisce, fa quella sua risata che sembra lo scuotere una lattina con dei sassi dentro. Ronnie ride subito dopo, per quanto si sforzi la risata di suo padre è l'imitazione che gli riesce peggio. Un saluto frettoloso e Beppe corre via.
“Papà.”
Pietro cammina guardandosi le scarpe, ma non è triste, è fatto così. È come se non si ricordasse più come si faccia a essere in un altro modo. A un certo punto non ha più importanza e anche se non ti stai più sforzando il tuo corpo continua a pensarci.
“Papà?”
“Ti sento.” Pietro si volta a guardarlo per un momento.
“Oggi è una bella giornata.”
Pietro alza la testa, si guarda intorno, ci mette un po' prima di fare un cenno affermativo. Passano sotto l'arco che dà accesso alla piazza principale. Hanno montato una struttura, un tendone di plastica, ne esce profumo di pane e di pizza.
“Hai fame?”
Ronnie sorride, quando suo padre gli chiede se ha fame, se ha sete, se ha bisogno di qualcosa. Quello che sta dicendo in realtà è 'Ti voglio bene'. Pietro è fatto così. È molto difficile imitarlo. Ronnie è un bambino spigliato, entusiasta, solare. In questo momento la sua espressione è l'esatto opposto di quella che vorrebbe imitare. Se ne rende conto e prima di rispondere recupera, diventa accigliato, con un velo di ironia. Gli occhi di Pietro ridono, pieni di rughe. Toglie una mano dalla tasca e spettina suo figlio.
“Eddai, papà”, si ferma a specchiarsi in una vetrina.
“Tu fa come vuoi, io prendo qualcosa da mangiare, senti che profumo.”
Alcuni anziani hanno già fatto comunella, radunati sul sagrato, in uno spicchio di sole. Terenzio agita le mani, le guance arrossate, lanciato nell'ennesima discussione. Fabio lo usa come fosse un juke-box, quando Terenzio perde entusiasmo butta lì un commento ed è come se schiacciasse lettera e numero per una nuova canzone. Gli altri fingono di ascoltare e si guardano attorno, salutano conoscenti di passaggio, controllano i titoli sulla copertina del giornale. Aspettano. L'impressione generale è che aspettino qualcosa che sta per accadere o di cogliere sul fatto qualcuno.
Oltre al tendone dei fornai ci sono altri baracchini. Uno vende piante aromatiche in vaso, un altro raccoglie firme e offerte, ci sono palloncini da regalare ai bambini, un altro espone libri usati. Davanti a quest'ultimo c'è Enza, sempre pronta a sorriderti e a guardarti come un animale in gabbia, consapevole che non hai la chiave del lucchetto. Sta sfogliando un libro che ha scelto direttamente, senza degnarsi di sfiorare tutti gli altri. Ci sono romanzi d'avventura mai sentiti, vecchi bestsellers con la copertina rigida, manuali per il fai da te. Enza ha scelto 'L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello'. C'è una dedica, c'è una piuma fra le pagine, c'è una busta, attaccata con lo scotch dietro l'ultima pagina, con dentro un biglietto scritto a mano. Quando arriverà a casa Enza aprirà la busta, leggerà il biglietto. Ci sarà scritto qualcosa di commovente, ne è sicura, ma se anche così non fosse lo rimetterà dentro e fingerà che sia importante. Importante per chi lo scrisse, inutile per chi ha lasciato che finisse su una bancarella.
Il volume del chiacchiericcio aumenta, con l'aiuto di bambini nel passeggino che succhiano focaccine appena sfornate, di bambini che tengono i palloncini nella mano mentre rincorrono i piccioni. Terenzio a furia di parlare si è trovato costretto a una pausa e sta offrendo un bicchiere di vino agli amici. Lo bevono in piedi, non si siedono mai ai tavolini all'aperto che vanno via via riempiendosi quando le campane suonano a distesa la seconda, un quarto d'ora alla messa. Beppe sta parlando in inglese con gli americani, i coniugi in pensione Baylier, che si sono trasferiti qui l'anno scorso e stanno ancora finendo di ristrutturare la villetta. Enza ha ancora la cartolina che gli hanno spedito a Natale, il pupazzo di neve nel giardino col fumetto di 'Happy Xmas' e la scritta in gotico sul retro 'Baylier Mansion'. I sassi nella lattina di Pietro fanno girare chiunque venga raggiunto dalla risata. È per qualcosa che ha detto Ronnie. Uscito dal personaggio, il bambino si sta esibendo in una specie di balletto mentre racconta al padre come sono andate veramente le cose, quel giorno di tanto tempo fa, ovvero qualche mese prima.

lunedì 12 aprile 2010

Neverwas

Molti attori collaudati per un film sul malessere. Un uomo senza casa e senza contatti umani reagisce creando attorno a sé un mondo immaginario nel quale si svolge la favola della sua vita. In questa favola lui è un re che deve difendere il suo castello. Uno scrittore mette in un libro queste fantasie. Il protagonista parte da zero. Prima scopre che il libro si basa sulle allucinazioni grazie alle quali un uomo in carne e ossa riesce a far fronte al vuoto della solitudine e della povertà. In seguito scopre che la favola possiede degli ancoraggi nel mondo reale: la mappa dei luoghi in cui si svolge la narrazione aderisce a un luogo fisico, un bosco che esiste davvero appena fuori città. Il re ha veramente un castello da difendere, una catapecchia abusiva che una ditta incaricata del disboscamento vuole abbattere.

Anche questa sceneggiatura segue il modello del viaggio dell'eroe. Oltre al problema professionale (psicologo che cura l'uomo che si crede un re) del protagonista abbiamo anche il problema personale (lo scrittore che ha usato le fantasie del re era il padre del protagonista e si è suicidato, causando uno shock nel figlio adolescente che gli ha provocato perdita della memoria e sensi di colpa vari) e il problema privato (inizia relazione con una ragazza che lo inganna, nascondendogli il fatto di essere una giornalista che sta scrivendo un articolo sul padre scrittore e sul libro in questione). Anche i vari personaggi sono ricalcati da archetipi: l'araldo, il cambiaforme, il guardiano, il mentore, l'alleato, il giullare. Addirittura la caverna passa da metafora a oggetto materiale inserito nel plot. Crisi nel secondo atto e climax nel terzo, c'è proprio tutto.

Se qualcuno sta studiando l'arte di scrivere, in particolare una sceneggiatura, può divertirsi a scomporre questo film per collocare i vari pezzi nelle caselle del manuale di Campbell o di Vogler o di qualcun altro. Ma forse, purtroppo, questa è l'unica qualità importante del film. Gli attori si impegnano. Scenografia e fotografia curate. Regia con alcuni guizzi d'ingegno. Ma l'impressione generale rimane quella di un congegno a orologeria. La tensione drammatica è blanda e sfilacciata. La sindrome dell'uomo seduto fra due sedie si esprime anche stavolta nella decisione di aggiungere romanticismo a mistero, poesia a thriller, ecologia a depressione. Il tentativo di accontentare tutti finisce come al solito per deludere.

giovedì 8 aprile 2010

Sogni 001

mera con Elia una camera soleggiata con tende mosse dall'aria che entra dalla finestra socchiusa e dietro le tende bianche di lino che non si devono stirare basta appenderle ancora umide le riconosco quelle tende anch'io ne ho di uguali a casa per cui mi sento un po' a casa anche se sono al sesto piano di un albergo e dalla mia camera si vede il mare e gente che cammina sul lungomare ma io sto preparando la valigia non ho tempo di guardare fuori controllo che Elia non si avvicini alla finestra anche se c'è la ringhiera non si sa mai quando ecco mia madre arriva mia madre e mi chiede della tartaruga se ho un'altra tartaruga e io dico ma come un'altra tartaruga non è possibile e ho quest'immagine di una tartaruga con ferite punteggiate di bigattini color crema la tartaruga che cerca di levarsi i bigattini con la zampa ma non ci riesce e tutte quelle formiche attorno che aspettano di mangiarsela viva così mi arrabbio con mia madre le dico basta tartarughe basta non è possibile e penso che lei venderà la pelle della tartaruga e mi arrabbio di più le chiedo e le uova la mia tartaruga aveva fatto le uova dove sono le uova e lei dice le ho vendute e lo dice come se fosse una cosa logica e in effetti lo è ci penso su e non trovo niente da replicare non sono più arrabbiato solo stanco solo un po' triste per le uova e per la pelle e per l'esistenza di inutili zampe troppo corte per togliere i bigattini dalle ferite penso che in fondo le tartarughe siano esseri molto sfortunati ma che non è colpa mia non le ho fatte io così riprendo a fare la valigia e mi sembra tutto così inutile le tende sono inutili il sole è inutile la musica che entra dalla finestra passando fra le tende con la brezza è inutile mi accorgo che non respiro non sto respirando dall'inizio del sogno allora faccio uno sforzo riempio i polmoni è come tornare a galla come tornare in vita come uscire dal coma la decisione di uscire di andare via prendo per mano Elia e andiamo usciamo prendiamo la bici e pedalo con lui felice nel seggiolino che grida più forte papa vai più forte con me che metto tutto il peso prima su un pedale e poi sull'altro dove andiamo papa mi chiede lui e io dico dove capita capita e lui dice bello mi piace capitacapita è un bel posto capitacapita la bici diventa sempre più leggera la bici si muove sospesa nell'aria non faccio alcuna fatica le macchine sono tutte ferme in colonna ci sono colonne di auto ferme sotto il sole a perdita d'occhio in ogni direzione qualcuno suona il clacson per protestare ma senza convinzione solo una placida e divertita protesta contro il traffico bloccato anche il campanello della mia bici emette barriti bitonali Elia ride moltissimo e fa spaventare un altro ciclista che è un prete mi guardo attorno e ci sono tutti questi preti in bici con le sottane a sbatacchiare come mantelli di batman tutti questi preti in bici che si muovono come un branco di pesci incrociando le rotte curvando all'improvviso frenando e schizzando via di lato chi si tiene il cappello chi è chinato sul manubrio chi cerca di impennare e uno di loro mi sorpassa a destra dicendo attento arriva una salita io rallento e la vedo una salita quasi verticale capisco subito che non posso farcela e nemmeno voglio andare fin lassù i preti invece si lanciano sparati sulla rampa con alcuni di loro che fanno acrobazie prendono rincorse e sfrecciano su senza sforzo apparente Elia mi chiede se siamo arrivati a capitacapita e io dico quasi sì ci siamo quasi ma non so dove andare la salita no rimane un vicolo da cui provengono schiamazzi da quella che potrebbe essere una sagra o una manifestazione da quella parte ci sta andando gente che cammina a testa bassa tenendo i lembi di coperte legate al collo e sembrano cospiratori che vogliono fartelo sapere sembrano anche finti straccioni con bei vestiti sotto le coperte stinte e maltrattate sembrano anche squilibrati per cui escludo anche quella direzione mi rimane una grotta in cui si scende a spirale come nei parcheggi sotterranei e là sotto ci sarà frescura ci sarà acqua di fonte ne sento l'odore fin da qua e una voce interiore mi dice non ci andare c'è gente morta là dentro quelle sono catacombe ma ho sete ho caldo e allora entro e mi trovo davanti qualcuno che mi blocca la strada è uno di quei tizi che vanno in giro in bici con le tutine aderenti da Nureyev che tirano fuori roba da mangiare da tasche sulla schiena che si depilano le gambe che indossano scarpette studiate nella galleria del vento che portano al polso orologi che ti raccontano quanto stai sudando e calcolano in tempo reale il rischio d'infarto e già questo mi farebbe ridere solo che questo tizio ha l'aggravante di essere Branduardi e tiene il caschetto a punta in mano e io penso ci credo con tutti quei capelli non riuscirai mai a indossarlo Branduardi mi ferma e mi dice io non le capisco Elia si nasconde la faccia tra le mani e rimane zitto forse è spaventato forse intimidito io dico che cosa mi scusi che cos'è che non capisce e Branduardi si rigira il caschetto fra le mani poi mi guarda perplesso e dice continuano a toglierci minuti qua e là finiremo per sentirci sempre in ritardo e io scendo dalla bici tiro giù Elia per andare a piedi verso l'acqua ho molta sete sto cercando qualcosa da dire a Branduardi per farlo sentire meglio inizio a dire qualcosa ma diventa tutto nero mi rendo conto che è successo qualcosa e quel qualcosa è che sono morto forse un proiettile forse un collasso forse sono scivolato e mi sono spaccato la testa comincio già a sentire i bigattini che crescono nelle ferite a preoccuparmi del valore della mia pelle non riusciranno a venderla se le formiche la mangeranno e me ne sto lì morto per un po' a riflettere cercando anche di ricordare cosa stessi rispondendo a Branduardi quando sono morto c'è qualcosa che mi sfugge sì Elia sì mi viene in mente che devo tenerlo per mano anche se il traffico è bloccato ci sono tutte quelle bici in giro potrebbe farsi male così mi sforzo di tornare in vita uso tutte le mie energie per sollevare le palpebre obbligo a muoversi il mio corpo morto Branduardi è ancora lì a lambiccarsi col caschetto mentre costringo il mio corpo morto a risalire sulla bici e in fondo non mi sembra così male tranne la consapevolezza che sarà faticoso tornare a casa perché da morto la bici non mi vola più e ho ancora sete e ora ho anche questo nuovo dubbio che forse davvero continuano a toglierci minuti qua e là che forse davvero finiremo per sentirci semp