lunedì 30 novembre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (18 di N)

“Papa, posso fare una domanda?”
“No”
“Ti trasformo in... libellula, zaaap!”
...
“Posso fare una domanda, adesso?”
“Fammi finire il capitolo.”
“Ti trasformo in un eleeefaaante! Swishhh!”

“Posso fare una domanda adesso, perfavore?”
“E fammela.” Chiudo il libro.
“Arriva il Natale?”
“Manca un mese.”
“Ma arriva il Natale?”
“Sì, arriva.”
“Bene, cosa leggi papa?”
“Il ragazzo giusto, 1618 pagine corpo 8, se inizi a leggerlo in questa vita e lo finisci nella prossima.”
“In cosa ti trasformo papa?”
“In una statua, che legge.”
“Posso farti una domanda?”
“Dopo.”
“Leggi ad alta voce!”
“Dopo cena si trasferirono nell'Imambara per ascoltare Ustad Majeed Khan. Poiché mancava ancora qualche settimana al Moharram...”
“Basta! Basta, tocca a me.”
“Son fermo a questo paragrafo da un quarto d'ora.”
“Tocca a me”, prende il libro e fa scorrere il dito, da destra a sinistra, “Me ha dun fa gaga, sassosauro!, fada bu cari. Ecco, visto?”
“Sì, bravo, adesso dormi che papa finisce il capitolo.”
“Va bene, buonanotte papa.”
“Buonanotte.”
“Posso fare una domanda?”

Saluti da Andrea.




Non ci sono mai andato di persona ma chi ci è stato è tornato diverso, cambiato. Devi prendere aerei sempre più piccoli, poi una barca a motore, poi una barca a remi, poi una macchina, una moto, una bicicletta, un mulo. Poi a piedi, poi sui gomiti, poi crolli e quando ti svegli sei arrivato. Questo scrive il mio amico sulle cartoline che mi spedisce. Il posto è bellissimo, ci sono le palme e i pappagalli, i pappagalli forse, ma non è detto, li senti fischiare, a volte parlano, ma potrebbero essere nastri amplificati. Quando arrivi non ti è permesso guardare fra i rami, ci sono delle procedure. L'ingresso è decorato a motivi floreali e un ragazzo con maschera tribale ti chiede i bagagli. È una specie di scherzo, nessuno ha bagagli. Questo scrive il mio amico su cartoline tutte uguali, le uniche in vendita alla reception. Poi entri ti vai a sedere perché ti senti stanco, forse per il caldo, l'umidità, gli insetti invisibili che vivono negli angoli ciechi, e vedi dei libri sui tavolini del bar. Sono tavolini spartani, fatti di rami scortecciati e noci di cocco una sull'altra in fragile equilibrio. Pensi che sia un posto bellissimo, così pensi, pensi che le noci di cocco crolleranno da un momento all'altro. Afferri un libro dalle pagine consumate dall'uso, sporche di salsedine e sughi e guano, fai finta di leggere perché le parole sono scritte in una lingue inventata e comunque sei troppo occupato a pensare che sia un posto bellissimo. Questo scrive il mio amico e le sue cartoline hanno francobolli completamente bianchi. Non è un hotel come tutti gli altri, la spiaggia è troppo lunga, la giungla fitta di sentieri, non ci sono indicazioni, cartelli, solo una freccia, ogni tanto, e continuano a spostarla. Ti puoi sedere sulla sabbia, facendo attenzione ai paguri e agli anellidi fuori misura che esistono solo lì, così gialli e neri da sembrare velenosi. Il ragazzo tuttofare, quando si sente particolarmente in vena, se li mette sulla lingua, li fa girare in bocca e li sputa fuori, masticati, per la gioia degli ospiti. Anche se dopo un po' gli ospiti non li vedi più così spesso. Si sparpagliano nei bungalow. Pensi che siano tornati a casa, soggiorno terminato, anche se ogni tanto ti sembra di averne visto uno imboccare un sentiero, o entrare in mare quando è già venuto buio. Questo scrive il mio amico e la sua calligrafia cambia, cartolina dopo cartolina, diventa sottile. E come si mangia bene. Lumache, crostacei, pipistrelli, bocche iperdentute di pesci abissali. Salse, architetture vegetali per contorno, e acqua, acqua pura, a volontà. Le pietanze non sono fatte per essere mangiate, si capisce, servono solo per consentire le grandi bevute. C'è sempre questa sete in giro che ti insegue, ti tiene sveglio a sudare mentre, nudo, giaci sulle lenzuola fradice a riflettere. I pappagalli di notte tacciono, questo scrive il mio amico, non firma più le cartoline ultimamente. Dopo un po' il sole, tutta quella luce, ti cambia il colore degli occhi a furia di cercare nuvole in quel cielo bellissimo, pensi che sia tutto bellissimo, anche il cielo, ma soprattutto le nuvole. Le nuvole ogni tanto cadono, tutte intere, senza preavviso, vengono giù, si schiantano da qualche parte là in fondo, vicino all'orizzonte, o il giorno dopo trovi alghe putride e pesci morti sulla battigia. Hanno un buon odore, pensi, e tutto è bellissimo. Avere sete, ascoltare i pappagalli, resistere alla tentazione di imboccare un sentiero, uno qualunque, immaginando che porti a una cascata, a un lago, a una fabbrica di nuvole. Questo scrive il mio amico e l'inchiostro che usa da nero sta diventando azzurro. A un certo punto arriva la febbre, inizi a scottare, il ragazzo tuttofare dice che è normale, che non ti devi preoccupare, passerà. In effetti non è così male, sei solo più lento nei movimenti, vai soprappensiero con più facilità. Diventa anche più facile aspettare che venga sera, la schiena appoggiata al tronco di una palma, i pappagalli da qualche parte là in alto, felici, sembra che ridano. Quando non riesci ad alzarti qualcuno ti porta dell'acqua, ti accarezza la testa, ti lascia dove sei mentre sbucano le stelle, oh, le stelle, oh, così luminose, così silenziose. Questo scrive il mio amico, dopodiché le sue cartoline contengono solo disegnini e scarabocchi.

venerdì 27 novembre 2009

D. Gibbons è un uomo cattivo.

Le serie tv alcune sono belle. Ho iniziato tardi a guardarle perché sono vulnerabile alle dipendenze, ne sono consapevole, devo evitare il più possibile il contatto con attività e sostanze che possono stimolare la mia coazione a ripetere, in termini tecnici manie ossessive compulsive. Alla fine ho ceduto nel modo più semplice, per curiosità. Ce ne sono di brutte ma quelle poche che ho guardato a me son piaciute tutte, sarò io di bocca buona, può darsi. Ho iniziato con salva la cheerleader, heroes. Poi ho guardato tutte le puntate di Lost, in fila, alcune in lingua originale sottotitolate. Ho guardato alcune puntate di in treatment e le prime di fast forward.

Le serie tv hanno di bello che ne puoi parlare con gli amici, ci puoi litigare sopra perché nessuno sa ancora come andranno a finire. Ho finalmente capito perché le ragazze al liceo guardavano saranno famosi dallas e beatiful. Mi chiedevo come facessero a parlare per tutto quel tempo di una cosa vista alla tv. A quei tempi il motivo che mi teneva lontano dalle serie tv non era la paura di non riuscire a smettere, il motivo era cose da femmine, alcune cose erano di esclusiva pertinenza femminile e già mi immaginavo le ragazze del liceo nei panni della casalinga frustrata, molto prima della comparsa di disperate housewife. A un certo punto le serie tv si sono evolute, sono diventate anche per uomini. Il sospetto è che molte altre cose che erano solo per donne abbiano invaso l'universo maschile. Così adesso ci sono uomini, ci sono anch'io fra quelli, che parlano di cosa come quando perché di quel che succede nelle serie tv. Mia moglie ride, immagino che come lei riderebbero anche le ragazze che prendevo in giro al liceo chiedendo “Come sta il mascellone?”, c'era un tizio a quei tempi in tv che aveva una mascella grossa come il paracarro di un camion, le ragazze lo trovavano sexy, quel tizio, e io ogni tanto mi sono interrogato sulla mia mascella, allo specchio, chiedendomi se fosse adeguata agli standard moderni. Tanto tempo fa i ragazzi più coraggiosi le guardavano solo per attaccare discorso con le ragazze, oggi ci sono serie tv con sparatorie, misteri della fisica, superpoteri. Non sono più come x-files, ogni puntata una storia completa. Adesso non sappiamo neppure se la serie stessa finirà mai. Moriremo senza conoscere l'epilogo, e questo è poetico, c'ha dei risvolti filosofici. Non posso entrare nei dettagli, di queste cose parlo solo con chi ha visto quello che ho visto io, se non hai mai guardato le serie tv non capiresti.

Le serie tv ogni episodio finisce con un colpo di scena. Sembra fatto apposta, aspetti da una settimana di scoprire il significato del colpo di scena precedente. Vivi in perenne attesa di una risposta, e quando la ottieni eccoti un'altra domanda, più grande, e anche questo è poetico. Per esempio sparano nella pancia di una donna che ha visto nel futuro se stessa incinta. Non sono il solo a considerare quella scena un capolavoro. La donna col proiettile in pancia giace in terra, per strada, col sangue che le sporca la camicia, e pensa a se stessa incinta nel futuro mentre la sveglia. La sua amica, che è la sua amante, la donna è lesbica e anche questo entra in conflitto con la visione del futuro, la sua amica le ha regalato una sveglia robot che si muove su ruote e dice svegliati è ora ripete è ora svegliati. Da tutt'altra parte sta accadendo una sparatoria nel parcheggio sotterraneo sulle note di like a rolling stone di Bob Dylan. Le due situazioni si sovrappongono. Una sparatoria infinita con il rumore degli spari che si mischia alla musica e ogni tanto lasciamo che vadano avanti a spararsi addosso e l'attenzione torna alla donna in terra, sdraiata scomposta sull'asfalto nella luce arancio dei lampioni, la sveglia uscita dalla borsa che si è attivata e corre in cerchi caotici gridando è ora svegliati con voce metallica, svegliati è ora, le ruote che si sporcano di sangue e disegnano curve al roteare della sveglia, la donna che guarda nel vuoto e piange senza fare smorfie, in estasi, forse per il dolore, forse perché vede se stessa incinta, nel futuro, poi torniamo alla sparatoria e c'è fuoco, c'è violenza, e tutto questo va avanti per parecchi minuti, e vorresti che il tempo rallentasse fino a fermarsi perché ogni cosa è compiuta, non c'è bisogno di aggiungere altro, tutto ciò che verrà in seguito servirà solo a farci rimpiangere l'epifania.

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mercoledì 25 novembre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (16 di N)

Quando c'hai un figlio Natale diventa un tormentone. Vuole che arrivi subito. L'anno scorso non sapeva nemmeno cosa fosse. Non che adesso ne sappia molto di più, anche se le suore all'asilo gli fanno il lavaggio del cervello con preghiere, canzoni religiose, racconti su Gesù. Che poi torna a casa e nei momenti più improbabili dice “Grazie Signore” oppure per strada “Guarda papa, c'è Gesù” che ti vien voglia di insegnarli una bestemmia, per bilanciare. Ieri gli ho detto quando vai all'asilo domani corri dalla suora e leccale la faccia. Perché lo mandi all'asilo dalle suore, potrebbe chiedermi qualcuno. Non ho niente contro la religione, anzi, la trovo interessante, essenziale, solo trovo stupido tentare di insegnare ai bambini concetti profondi già difficili da capire dopo quarant'anni di interrogativi e approfondimenti. Trasformare in un gioco partorire in una stalla, metterci pastori che suonano la cornamusa e studiosi arrivati da lontano per allungare doni preziosi. Da una parte non gli devi far vedere superman che vola perché si potrebbe buttare dalla finestra per imitarlo, dall'altra gli mostri Gesù che cammina sull'acqua. Mi sembra di mettere nelle loro mani un bisturi e lasciargli operare il loro stesso cervello, per gioco. Comunque male non gli può fare, al massimo grida è morto! è morto! quando mi trova addormentato sul divano e poi è risorto! quando salto in piedi spaventato. L'unico rischio è che da grande riponga il tutto dove finiranno i giochi dell'infanzia, è questo che vorrei dire alla suora capo, quella che mi sembra il capo, mi viene da dirgli sono solo bambini, li vede?, finiranno per detestare o quanto meno ridicolizzare insegnamenti ridotti a semplice e monotona liturgia, ma poi la osservo e trovo che sia così fragile, come in costante equilibrio con un piede su qualcosa di piccolo e duro che le provoca dolore sotto il tallone. Mi viene da volerle bene. Allora desisto, mi dico lasciala fare, ne ha bisogno più lei che i bambini. Tanti padri nutrono l'illusione di poter far vivere i figli in un ambiente del tutto controllato, sigillato, io non sono uno di quelli. Che impari le preghiere, che intoni canti di lode al Signore, sempre meglio che prendere a calci i cani e sputare per terra. Ma ho divagato, il Natale, dicevo, il Natale quando c'hai un figlio si divide in Babbo Natale e Gesù bambino. Ci sarebbe anche Santa Lucia e la befana, ma lasciamo stare, finché non me le nomina lui io faccio finta che non esistano. Come decidi chi porta i regali? Babbo Natale o Gesù bambino? Entrambi? Insieme o separati? Ci sto pensando, per il momento ho stabilito che Babbo Natale è un alieno – a lui piacciono gli alieni, i robot e i dinosauri, e ciò mi rassicura sulla presenza in mio figlio di anticorpi intellettivi – e Gesù bambino scende dall'astronave alla guida di un dinosauro robot che si nutre di palle dell'albero di Natale. Arrivano qua a far scorta di palle e se non le trovano mettono tutto in disordine, Babbo Natale sputa fuoco, Gesù Bambino strilla e fa i dispetti, insomma scoppia un gran casino se non trovano le palle sull'albero di Natale. Non dirlo alla suora però, aggiungo, perché lei non lo sa e potrebbe diventare triste se lo scoprisse, sai, ormai è vecchia, non possiamo farle perdere l'equilibrio, quando sei vecchio se cadi ti fai male. Però puoi sempre correre da lei e leccarle la faccia se ti va.

La mia Testa era bionda.




Adesso c'è questa nuova moda della Testa, tutti mi chiedono se mi è già arrivata, di che colore ha i capelli. È il computer che sceglie per te, mi fa sapere la lettera del ministero, studia la tomografia assiale del tuo cervello e stabilisce non so che parametri, usa chissà quali algoritmi scritti da altri computer collegati ad altri computer ancora e giù a cascata fino a quando risulta impossibile capire da dove venga fuori la Testa fatta e finita, che ti arriva per posta e ti chiama per nome mentre è ancora chiusa nella scatola.

Vincenzo, il mio vicino, la chiama 'la mia amica speciale', e ogni mattina in ascensore mi chiede se ho ricevuto la mia amica speciale. Rispondo sempre di no, che non ancora, e sudo freddo. Un giorno scopriranno che fine ho fatto fare alla mia Testa e allora che accadrà, non lo so. Non hanno ancora inventato una punizione, non credo sia nemmeno considerato un reato, per adesso, non ancora, ma non conosco nessuno che non sia entusiasta della Testa, della sua nuova amica speciale, per cui immagino che sarò considerato un mostro, o come minimo un delinquente, quando scopriranno cosa ho fatto.

In realtà la mia Testa è arrivata il mese scorso. Ricordo che parlava, parlava, e parlava, non stava mai zitta. 'Assumi uno stile di vita!', mi diceva, 'Scopri le tue potenzialità'. Aveva sempre qualcosa da suggerirmi, da consigliarmi, arrivando a minacciarmi. Come se davvero fosse convinta che le sue minacce potessero avere un qualche effetto. 'Sei solo una Testa', mi piaceva ricordarle, e lei si arrabbiava, si immalinconiva, assumeva espressioni maligne, iniziava a dire cattiverie.

Ho chiesto a Vincenzo 'Che succede se ti cade, se la rompi?' Lui ha sobbalzato, inorridito, ha scosso la testa 'Spero ci sia una garanzia, che sia riparabile, che succederebbe a tutta l'esperienza che ha accumulato?' L'ascensore è arrivato al piano terra e Vincenzo è uscito senza salutare, a testa bassa, rimuginando preoccupazioni dal mio punto di vista ridicole. È solo una Testa, avrei voluto dirgli, scuotendolo, svegliati, è solo una Testa.

La mia Testa era bionda, con gli occhi azzurri. Le bionde mi piacevano da bambino, mi ricordavano gli angeli nelle illustrazioni degli opuscoli che le suore ci obbligavano a leggere e a cantare. Cantavo in chiesa e vedevo rispecchiati gli angeli dipinti sui soffitti nelle bambine bionde inginocchiate sulle panche. Con l'adolescenza rifuggivo le bionde, sarebbe stato come lordare con appetiti carnali l'innocenza cristallina degli angeli, come tirare fango su un abito da sposa. Gli occhi azzurri invece mi fanno da sempre paura. Negli animali gli occhi azzurri sono indice di una lunga catena di accoppiamenti fra consanguinei. L'avrei preferita né bionda né bruna, con dei normalissimi occhi castani. Il computer ha deciso altrimenti, e io l'ho distrutta.

Un giorno riusciranno a capire cosa ha ucciso tutte le donne, useranno l'immenso potere di calcolo di quei cervelloni elettronici per ricreare le donne. Donne vere, non questi surrogati da tenere sul comodino. Non hanno nemmeno un corpo! Dicono che non ci serve un corpo, che quel che sta rovinando il nostro cervello di uomini è solo la mancanza della femminilità nelle nostre vite. Vincenzo non porta con sé la sua Testa solo perché ha paura di rovinarla, la tiene sotto una teca di vetro e non permette a nessuno di toccarla, di parlarci, nemmeno di vederla. Forse teme che possa rivelare qualcosa su di lui che deve rimanere segreto, qualcosa che i computer hanno scoperto unendo i puntini sulle lastre delle sue tomografie.

Sempre meglio di questi che girano col la Testa sottobraccio. Teste spettinate, sporche, che gridano inascoltate mentre vengono gettate nel bagagliaio o dimenticate – volontariamente? - da qualche parte. Sono Teste sfortunate, mi fanno pena. Ma che dico? Non mi fanno pena, sono oggetti, a volte me ne dimentico. Non ho ucciso nessuno, la mia Testa era solo un ammasso di circuiti stampati, lo so perché l'ho aperta, ci ho guardato dentro. Ci ho messo parecchio perché ero sconvolto, piangevo, tremavo, mi veniva da vomitare. Ma alla fine ce l'ho fatta, ho smesso di ascoltare le sue suppliche e ho aperto la mia Testa. Mi aspettavo di sentire suonare un allarme, di vedere uomini in divisa sfondare la porta del mio appartamento. Invece niente. Non è successo niente.

Non so se riuscirò a rimetterla insieme. Quando ho iniziato a strappare fili dentro la mia Testa ci ho preso gusto, non riuscivo più a fermarmi. Dentro di me sapevo che era inutile accanirsi, ma le mie mani volevano scavare dentro la mia Testa fino a trovare qualcosa, che cosa non saprei dire. Ho pensato di tingerle i capelli, di dipingerle gli occhi di verde. Potrei rimetterla insieme. Magari non parlerebbe più, forse rimarrebbe semiparalizzata, ma tornerebbe in vita, quella parvenza di vita femminile che gli scienziati assicurano ci sia indispensabile per mantenere l'equilibrio mentale.

martedì 24 novembre 2009

Restituire la vita con gli interessi (sottotitolo: la morte fa paura)




Ho letto questa cosa dei talenti, molti parlano di questa parabola, spesso senza averla mai nemmeno letta. Pare che tutti siano concordi a interpretare i talenti come la capacità di far bene qualcosa dataci da Dio. Eppure se uno legge il vangelo scopre che l'interpretazione più comune non è del tutto condivisibile. Tanto per cominciare ci sono due versioni, una di Luca e una di Matteo. Ci sono delle differenze, e belle grosse.

1– nobile o uomo qualunque?

In Luca c'è un nobile che parte per ricevere l'investitura a regnante nonostante il popolo lo odi e non lo voglia come re.

In Matteo non ci sono più nobili né regni, solo un uomo qualunque che parte per un viaggio, però diventa un profezia. Succederà, in futuro, come succede in questa storiella.

2 – talenti o mine?

In Luca non sono nemmeno talenti, sono mine. Una mina vale molto meno di un talento.

3 – in parti uguali o secondo la capacità di ognuno di far fruttare il capitale?

In Luca consegna dieci mine ai dieci servi, senza suddivisioni.

In Matteo consegna i talenti a seconda della capacità di ognuno: cinque a quello più capace, due a quello meno capace, uno solo all'incapace.

4 – chi ha dato i soldi ai servi è severo (Luca), duro (Matteo)

In entrambi è una persona che prende quello che non ha messo in deposito e miete quello che non ha seminato. La regola dunque è che devi restituire più di quello che ti viene dato, anche se lo trovi ingiusto, perché non verranno accettate scuse.

5 – il ritorno

In Luca il nobile è diventato Re anche contro il volere del popolo che lo odia. I servi avevano di fronte due possibilità: credere che sarebbe diventato Re e sarebbe tornato a chiedere conto dei suoi soldi, oppure credere che il popolo l'avrebbe avuta vinta e fregarsene perché nessuno sarebbe tornato a riprendersi i soldi.

In Matteo l'uomo torna dopo molto tempo. I servi potevano continuare a far fruttare i soldi nella certezza che prima o poi sarebbe tornato, oppure a un certo punto dirsi che era probabilmente morto chissà dove e usare i soldi che avevano in tasca.

6 – bilancio

In Luca uno fa fruttare il capitale dieci volte, uno cinque volte. Vengono ricompensati non in modo uguale, ma in proporzione ai risultati ottenuti.

In Matteo il servo capace e quello un po' meno capace hanno entrambi raddoppiato il capitale. Sorpresa: quello più capace ha fatto quanto il meno capace. O quello più capace si è impegnato poco, o quello meno capace si è impegnato tantissimo. Eppure vengono ricompensati in modo uguale.

In entrambi però nessuno dei servi ha mai considerato come suo il capitale, che fosse mina o talento (sembra cosa da poco ma è diverso considerare una mina o un talento. Il talento era il taglio monetario più grande in circolazione a quei tempi e valeva 60 mine. Un talento pesava 26 Kg. Una mina pesava quasi mezzo chilo).

La mina o il talento sono e rimangono soldi del padrone. Il dovere dei servi è farle fruttare affinché al suo ritorno il padrone conceda loro autorità e gioia secondo Matteo, potere su intere città secondo Luca.

7 – paura

Il servo che non ha fatto fruttare il capitale ricevuto in entrambi gli evangelisti ha agito così per paura. Sia in Luca che in Matteo ha avuto paura di un uomo duro e severo che miete quello che non ha seminato e prende quello che non ha messo in deposito.

8 – interessi

La reazione del padrone è il rimprovero e la punizione.

Definisce il servo malvagio (anche infingardo in Matteo) e lo accusa di non aver affidato ai banchieri il capitale.

Quindi il messaggio è che se non siamo capaci di far fruttare il capitale e abbiamo paura del ritorno di chi ci ha affidato i suoi soldi, faremmo bene a darlo ai banchieri e non metterlo in un fazzoletto (Luca) o sottoterra (Matteo).

9 – morale

Sia in Luca che in Matteo: a chi ha verrà dato, a chi non ha verrà tolto anche quello che ha.

10 – epilogo

In Matteo il padrone fa buttare il servo pauroso nelle tenebre a piangere e stridere i denti.

In Luca il Re fa condurre alla sua presenza quelli che non volevano diventasse Re e li fa uccidere sotto i suoi occhi. Il servo pauroso non subisce altre punizioni di sorta.

Pulire i denti




Ieri sono andato a pulire i denti. La Terra sta diventando un forno, muoiono migliaia di bambini al giorno di fame e malattie, ci sono dittature, fondamentalisti, bombe atomiche, pandemie, specie animali che spariscono, foreste che scompaiono per sempre a colpi di motosega, violenza, malcostume, malvagità e paura. E io vado a pulire i denti. Arriverò nello studio del dentista e ci sarà Elena ad accogliermi col sorriso, dandomi il buongiorno, pronta ad usare apparecchiature sofisticate, ultrasuoni, paste chimiche, gomme di diversi colori, per togliere dai denti, da ogni singolo dente, quella roba dura che lo spazzolino non potrebbe mai levare.

Nei libri e nei film succede che salta fuori un problema e qualche eroe se ne accorge e interviene, mette tutto a posto. Io non posso fare niente, non sono il protagonista, tanto vale che vada a pulire i denti. Uno su due, per strada, parla lingue che non sono la mia, hanno facce che vengono da altri posti, anche la pelle ha un colore diverso. Quelli che un po' mi assomigliano e parlano una lingua che capisco sono molto anziani. I pochi giovani sembrano più stranieri degli stranieri perché indossano vestiti strani, ti guardano con ostilità, tranne alcuni che sembrano chiederti aiuto con lo sguardo, come cercassero di capire se sei tu l'eroe del film. Mi spice, non sono io, io sono una comparsa, il regista mi direbbe solo, tu cammina come se stessi andando dal dentista, ma senza tutta quella preoccupazione, non hai ascessi, non hai la faccia gonfia di dolore, cammina come se stessi andando a pulire i denti.

Gli eroi sono quelli che muovono eserciti, che raccolgono i soldi del popolo e li amministrano per il bene del popolo. Dovrebbero esserlo. Poi leggi che si drogano, vanno a puttane, rubano, mandano sicari a uccidere testimoni, fanno fare carriera a chi ha il solo merito di essere amico leale e obbediente. Leggi che i presunti eroi sono finanziati dalle lobbies e quello che fanno è in primo luogo un rimborso, che non hanno interesse a far qualcosa per il genere umano ma solo per umani specifici. E allora dove sono gli eroi, ti chiedi, esistono davvero? Ma sono solo una comparsa che cammina per strada, nel film le comparse non parlano, a nessuno fra il pubblico in sala interessa sapere cosa pensa una comparsa che sta andando dal dentista a pulire i denti.

Il dentista ormai ci trattiamo da amici, non so perché, non so se lo fa con tutti i suoi pazienti o solo con me. Viene a trovarmi nella stanzetta di Elena, che smette di sparare acqua e ultrasuoni così che possa salutarlo con una salda stretta di mano. Ci informiamo sulle rispettive famiglie, come stanno i figli. Facciamo i filosofi con pensieri alla spicciolata, del tipo si sta meglio soli o sposati. Dico non vorrei che sia come un posto che ti piaceva quand'eri giovane, che quando ci torni scopri che adesso ti fa schifo. La vita come successioni di luoghi che non sono belli o brutti di per sé. Risponde 'Non so te, ma io alla mia età comincia a bastarmi un libro.' Un libro, sì, anche meno, ma son cose che si dicono per esorcizzare, per fare ironia, per quanto ci sforziamo non riusciamo a parlare dei figli piccoli senza sorridere.

Ieri il mio, quattro anni, quando è sceso dalla bici, si è messo una mano fra le gambe e ha esclamato 'Che mal di palle!”, ridendo, per fare scandalo. Son cose che gli invidio. Mi immagino a farlo io, adulto: arrivo, scendo dalla bici, mi ficco una mano fra le gambe e grido “Che mal di palle!” Quante cose che da adulto non puoi più fare. Da adulto finisci come quei tizi che minacciano la fine del mondo agli angoli delle strade, classificati pazzi non pericolosi, o semplicemente eccentrici, anche simpatici se hanno molti soldi da parte e c'è la possibilità anche remota che te ne diano un po'.

Con i denti puliti la comparsa torna sui suoi passi, schivando merde di cane, immondizia, sotto gli addobbi natalizi appesi ai balconi. Ogni tanto guarda in alto, nella speranza di vedere un segno, un'astronave a forma di arca venuta a caricare quello che rimane da salvare su questo pianeta. Ci sono solo nuvole, vetrine con manichini senza volto, in pose provocanti, un pupazzo a misura d'uomo, un gigantesco coniglio giapponese rosa e bianco, con dentro un uomo vivo, che se ne sta lì fermo a reclamizzare un negozio di giocattoli. E io ho i denti puliti.

venerdì 20 novembre 2009

Una vita fantastica (1)




Venerdì

Devo tenere questo diario per ordine della mia analista, Maria. Non è proprio un ordine, più un consiglio, lei indossa un foulard celeste e la sua mano ogni tanto lo accarezza, prima di fare una domanda, sorridendo, o darmi consigli come questo. Non per me, devo tenerlo per mia sorella, è lei che non sta molto bene, per questo siamo venuti qua, nell'agriturismo, in campagna, siamo qua per i suoi nervi, la sua psiche.

Rachele, mia sorella, ha un disturbo che la fa sentire felice, sempre. L'idea è che la campagna lombarda possa aiutarla a ritrovare se stessa. La nebbia, le vacche, il fango sulle scarpe, cose primordiali, la nascita la morte il ciclo della vita. Maria è convinta che possa servire, si accarezza il foulard, sorridendo, quando butta lì il consiglio del diario. Non so perché ma sono convinto che la mia analista non dica nulla di vero. No, non sto affermando che menta, magari consapevolmente. Solo che trovo impossibile l'ipotesi che non ci sia un filtro tra ciò che pensa e ciò che dice. Sono certo che esista tutta una catena di pensieri che subiscono un processo di distillazione nel percorso fra cervello e lingua. Questa cosa richiede molta fiducia, ma non ho scelta se voglio che mia sorella smetta di essere felice.

Quando siamo arrivati, stamattina, Rachele ha riso forte. Ha gioito in esclamazioni più che entusiastiche per tutto il tempo, come fa sempre di fronte a qualsiasi novità. Erano solo le nove del mattino e io già mi sentivo stanco all'idea di dover sopportare la sua allegria per chissà quanto tempo. Non guarirà mai, forse è per via di tale convinzione che mi arrabbio e mi sento frustrato quando sto con lei. Maria è stata categorica, la sua guarigione dipende anche e soprattutto da me, ha detto, fissandomi negli occhi con un sorriso, e non posso esimermi dalla responsabilità di contribuire al benessere di mia sorella. Devo starle vicino e tenere questo diario, scrivere ogni giorno almeno una pagina e spedirla la mattina dopo all'analista, per tenerla al corrente.

A me non piace niente di questo posto, Rachele invece ha già detto di voler restare qua per sempre. È un atteggiamento così irritante, dovunque la porti, qualsiasi cosa le mostri, a lei piace e dice di volerne ancora, per sempre. Le piace perché è brutto, la fa ridere perché è triste, non c'è modo di incrinare la sua felicità. A volte la invidio, vorrei anch'io non preoccuparmi di nulla, avere qualcuno come me che si occupi di procurarmi di che vivere. Sì, Rachele da sola non durerebbe molto, non riesce a tenersi un lavoro, la gente dopo un po' vuole che se ne vada, che porti via la sua felicità, che la nasconda almeno. Ha avuto diversi spasimanti ma sono scappati tutti, sopraffatti. Uno di essi l'ha anche picchiata, nel tentativo di spegnere quella luce divertita che ha nello sguardo, ma lei non ha versato neanche una lacrima, ha solo steso la mano in una carezza e ha sussurrato 'Ti perdono'. Lui è uscito di corsa di casa e dopo neanche cinque minuti il suo corpo smembrato sporcava i binari della metropolitana. Si chiamava Fabio, credo, o Mario, non ricordo.

I proprietari dell'agriturismo sono stati informati del problema di mia sorella e la signora Grenzi ha risposto che piacerebbe avercelo anche lei un problema simile, ma stamattina quando ha toccato con mano cosa significa essere come mia sorella la sua espressione spaventata esprimeva in modo chiaro quanto avesse cambiato idea. Niente è mai bello da vicino quanto sembra da lontano. Rachele si è sperticata in complimenti, 'Che bella cucina signora Grenzi', 'Che belle galline signora Grenzi'. La signora Grenzi in un primo momento sprizzava soddisfazione ma dopo un po', quando ha capito che avrebbe ricevuto complimenti a prescindere dall'esserseli meritati, ho notato l'ostilità emergere adagio sul suo volto rugoso.

Nessuno può capire davvero mia sorella, perfino io a volte faccio fatica. Maria, quell'unica volta che s'è tolta il foulard, ha detto che è tutta una questione di fede, che mia sorella è stata toccata dalla grazia, poi le sue labbra sono diventate sottili e il suoi occhi sono rimasti a lungo fissati su un rotolino di polvere nell'angolo. 'Tu credi in Dio?', mi ha chiesto continuando a guardare la polvere. Non ho risposto, ho avuto paura di dare la risposta sbagliata. È stata zitta ancora un po' e ha insistito: 'Tu sei religioso?' Ho pensato che fosse meglio lasciala sola, ho preso il cappotto e me ne sono andato.

Domani andremo giù in paese, quasi cinque chilometri a piedi su strada sterrata, anche le passeggiate, in teoria, dovrebbero avere un qualche effetto sulla psiche di mia sorella. Mi chiedo se ci sia un ufficio postale in questo posto o solo una buca per le lettere. Non so quanto potrò resistere, ho sempre detestato la campagna, la natura in generale. Qua la roba è sporca o puzza, o entrambe le cose. Ci sono animali, ci sono funghi muffe parassiti. Non posso lavorare in condizioni simili, non riesco a scrivere senza le mie cose intorno, non pensavo di sentire la mancanza del mio studio dopo nemmeno un giorno.

Rachele è venuta nella mia camera poco fa, interrompendomi. Lei ha parlato, io ho ascoltato. Funziona così fra di noi: lei ha sempre qualcosa da raccontarmi e io mai niente da aggiungere, e comunque lei non mi starebbe a sentire. Ha fatto una lista delle cose belle che sono successe oggi, mi ha detto di scriverle nel mio libro. Non sa che non è un libro questo, ma il diario per aggiornare la sua analista, la nostra analista, ma se anche lo sapesse non farebbe differenza, mi chiederebbe comunque di scrivere la sua quotidiana lista di cose belle. Tempo fa l'accontentavo, avevo ancora la forza di credere anch'io che fossero cose belle di per sé, e non solo per come lei le intendeva. Mi ha chiesto se doveva ripeterla, la lista, o se l'avevo memorizzata. Ho risposto come sempre di averla memorizzata, quando invece cercavo solo di capire cosa ci fosse di brutto in ogni singolo elemento, per difendermi da un ipotetico pericolo di contagio, sono terrorizzato all'idea che ci sia un fattore genetico, che un giorno finirò come lei. Ringraziandomi con un bacio sulla guancia, Rachele è andata a dormire, 'Non vedo l'ora che sia domani'.

martedì 17 novembre 2009

Mi hanno sequestrato il Nobel




Un capolavoro, non posso fare a meno di rileggerlo. A volte interrompo quello che sto facendo, che sia cucinare o riparare la moto, e corro a rileggermi certi passaggi che non son più certo di sapere a memoria. Ne tengo una copia anche in bagno, e ne ho una fatta a pezzi, le pagine incollate sui muri con parole evidenziate, parole come “ghermito” o “scarponi” o “contromano”. Prima di rispondere a qualsiasi domanda faccio mente locale per capire se c'è l'opportunità di fare una citazione, c'è sempre anche se io spesso non me ne rendo conto, non ho studiato abbastanza bene il testo di questo libro dei libri, il libro che annichilisce qualsiasi altro libro. Se l'avete letto sapete di che parlo. Quando ad esempio il vecchio demente scende in cucina – e già la cucina sepolta è un'immagine che esalta -, la cartolina nella mano tremante, e vede la tigre sdraiata sui fornelli, paciosa, rilassata, lo sguardo perso in giungle immaginarie. Come usa le parole, un che di musicale in ogni singola strofa, che mi vien voglia di cantarlo, il libro, mi vien voglia di sentirlo suonato al pianoforte, o su un organo di chiesa. La parte dei bambini, mi sconvolgo tutte le volte solo a pensarci, la manine strette sull'impugnatura delle pistole, i berretti calcati sulla fronte, nel vicolo dirimpetto la fermata del pullman, il pullman truccato, con il pelo sul tettuccio e gli occhi spruzzati di vernice dietro i tergicristalli sollevati. Che poesia, che profonda conoscenza della natura umana. Voglio regalarlo a tutti quelli che conosco, e lo regalerei anche a chi non conosco purché venga letto da chiunque, ne ho seppellita una copia in giardino, dentro una latta di caffè usata, perché in futuro venga riesumata e riscoperta, che una guerra o altra disgrazia non possa impedire la sopravvivenza di un'opera immensa, totale, qual è il libro più bello che sia mai stato scritto. Basterebbe la descrizione dell'auto in fuga sul ponte, di notte, la paura del pilota che evita le pozzanghere senza emettere un fiato, in una bolla di silenzio concentrato, mentre fuori le sirene, i lampeggianti, le foche sdraiate sulle panchine del porto che cercano di trasmettere il conforto di una madre assente. Anche se il mio personaggio preferito rimane il boss, il donnone col grembiule che lotta con gli ombrellini di carta, non riesco ancora a credere che vada incontro al sacrificio col sorriso e rileggo quelle pagine ancora e ancora, come se fosse possibile un miracolo, l'intervento di un dio vendicativo disposto a scendere a compromessi, ma le parole non cambiano, rileggo un destino segnato con inchiostro indelebile, e piango, oppure rido, dipende, dipende da cose futili, dipende da come cade la luce, da come si muove una mano, a volte basta un fruscio.

Johnny inghiotte lattine.




Non ho mai sopportato il successo di Johnny. Solo perché sa inghiottire lattine, guarda, non bastavano gli spot alla televisione, anche sui manifesti l'hanno messo. Non posso andare in giro in macchina con la mia fidanzata senza che il maledetto Johnny appaia nel parabrezza e, dall'alto di quegli enormi cartelloni, con la mano imbullonata che si muove avanti e indietro, sgargiante di luci al neon, inghiottisca lattine.

La mia fidanzata lo ammira in segreto, lo capisco da come gira la testa per seguire con lo sguardo la mano di Johnny, la lattina che si ficca in bocca, e la mastica, la deglutisce. Maledetto, non ha neanche uno straccio di laurea, bestemmia, ha i capelli così sporchi che ti ci specchi nell'unto, non oso immaginare la puzza di Johnny, maledetto, lui e le sue lattine che agganciano lo sguardo della mia fidanzata mentre andiamo in giro in macchina in quello che dovrebbe essere rilassante, per me, un momento di pace, di conforto, di amore.

Invece stringo le mani sul volante e fisso l'orizzonte, deciso a non lasciarmi abbindolare da Johnny, il maledetto, coi suoi stivaletti di cuoio e la camicia dai polsini, luridi, slacciati, penzolanti sul polso, sporchi di aranciata birra cocacola, roba che esce dalla lattina che si prepara a entrare in quella bocca dai denti perfetti, bianchi perfino, che alla tv senti anche il rumore amplificato dell'alluminio che scricchiola, si spezza in quelle mandibole spesse, muscolose, si frantuma come un onda contro gli scogli bianchi e diritti della bocca enorme, sorridente, oltraggiosa di Johnny, maledetto, che ingoia lattine per soldi, per fama, per quella che per me rimane l'inconoscibile motivazione che spinge un uomo bestiale come il maledetto Johnny a ingoiare lattine.

Ma le donne impazziscono, anche la mia fidanzata che seduta qua di fianco spalanca gli occhi e le labbra le diventano rosse mentre si gira a seguire con lo sguardo l'ennesimo cartellone folgorante sulla strada della nostra passeggiata domenicale, in adorazione della metallica ostia sconsacrata, massacrata dalla bocca del maledetto Johnny, gli sponsor di bibite che fanno a gara per mostrare il proprio logo, per arricchire chi non ha avuto abbastanza cervello da ottenere la licenza elementare, eppure eccolo lì, nello splendore mediatico a lasciarsi idolatrare per il fatto che ingoia lattine, maledetto Johnny, i denti così dritti e bianchi a far da garanzia, le mandibole una promessa mantenuta, e la lingua, oh, la lingua, come si riduce ogni volta, al punto che le ragazze, la mia fidanzata per prima, iniziano a piangere, in silenzio, e si stringono le mani al petto, come in adorazione del maledetto Johnny.

A volte dico basta, se lui ingoia lattine io ingoierò bottiglie, mi dico, e mi immagino la forza necessaria per spingere la bottiglietta giù per la gola, il fastidio del vetro freddo sulle delicate mucose, il virare del colore sul mio viso quando divento paonazzo per la mancanza d'aria, la bottiglietta incastrata in gola, magari per traverso, come nei cartoni animati, il fondo della bottiglia che spunta da un lato del collo e il tappo dall'altra parte, con io che dondolo sui piedi, gongolo, nei pochi secondi che precedono la perdita dei sensi, e la mia fidanzata inginocchiata su di me che invoca il mio nome, pentita, mentre intorno tutti urlano e qualcuno chiede l'intervento di un medico, quando alla fine, quando ormai mi danno per spacciato, deglutisco, mi riprendo, fisso la telecamera e con aria di sfida dico “Johnny”, non c'è bisogno di aggiungere altro, dico solo “Johnny”, e viene giù il mondo.



giovedì 12 novembre 2009

↑x8 (4\n)



Ci son dei giorni che proprio non ne hai voglia. Ti svegli e già lo sai che non avrai voglia. Ti darà fastidio, ti verrà il nervoso. Un senso di fastidio generalizzato nei confronti di tutto e di tutti. È tutto inutile, son tutti pazzi o stupidi, sarebbe meglio isolarsi, non guardare, non ascoltare, far finta di niente. Concentrarsi su un pensiero felice e volare via.

Poi ti alzi dal letto e pensi che era solo un momento di squilibrio ormonale, uno scompenso di chissà quale sostanza o molecola. Adesso passa, troverai un mondo pieno di logica e coerenza e buon senso. Un modo per non farti aggredire dalle notizie, dalle furbizie, dalle malizie. Qualche pensiero per riuscire a sorridere anche ai passanti, agli sconosciuti che incrocerai per strada.

È una presa in giro. Senti una risata dentro di te a troncare quel patetico slancio di ottimismo. Oggi ti farà tutto schifo, che tu lo voglia o no. Tua moglie forse ha ragione a dirti che ha sposato una folla di persone. Non dice più moltitudine di identità perché le hai spiegato che sei religioso e moltitudine è una parola che per te ha un significato terribile, che ti spaventa. Quella volta lei rise e ripeté moltitudine due, tre, dieci volte di fila per vedere l'effetto nei tuoi occhi e, soddisfatta o delusa, non aveva insistito.

Non sei moltitudine, o forse sì, che differenza fa? Ti sei informato e se anche fosse saresti l'ultimo a rendertene conto, se mai ti accadesse di farlo. A te non importano le analisi dell'anima o della psiche, non ti importa di sapere come funziona più di quanto possa importarti l'esistenza di vita dall'altra parte dell'universo. Son cose troppo lontane, del tutto ininfluenti.

Ciò che conta sono cose come il profumo del caffè, il respiro di tuo figlio che dorme, quel modo curioso che ha di tenere la mano sospesa nel vuoto tua moglie quando è assorta. Son cose che travalicano i muri delle personalità, che giacciono nel nucleo di ciò che sei. Anche quando, come oggi, vorresti sparare al tizio di quell'orrenda pubblicità alla radio. Questa schifo di luce, oggi, in questa orrenda angolazione, la mattina presto, tutto questo tempo davanti prima che arrivi sera. E là fuori tutta quella gente orribile, fatta di carne, quella gente che porta in giro i suoi chili di carne, è orribile.

Traffico, effetto serra, violenza, ma soprattutto inerzia. Tutto procede per inerzia, nessuno riesce a fermarlo, a fargli cambiare direzione. Parole, discorsi, blah blah e faremo questo e il futuro sarà diverso. Eppure a te sembra un ripetersi, l'ostinazione brutale di un animale in fuga che travolge qualsiasi tentativo di cambiare. Inerzia. In giorni come oggi dici andate avanti voi, io mi siedo a guardare. Hai voglia di niente.

Sospiri e ti ricordi che non è la realtà, è solo per via che ci son dei giorni come questo, che proprio non ne hai voglia, e ti riprendi. Non è colpa di nessuno, solo un guasto in qualche meccanismo rimasto assopito, una papilla del sentire in manutenzione, ecco; spento potrebbe essere una definizione adeguata. Oggi ti sei svegliato spento. Non spento come qualcosa che aspetta una scintilla per innescarsi, piuttosto qualcosa consumata fino in fondo che cova sotto la cenere.

venerdì 6 novembre 2009

Smettere - Capitolo 1 - 2






(Disclaimer: bozza, prima stesura, contiene linguaggio esplicito)




1

Se ne stava seduto composto su una delle panche di cemento della metropolitana. Non si alzava all'arrivo dei treni, non spostava nemmeno lo sguardo dal monitor del suo netbook. Sembrava una statua, come quella dell'uomo di bronzo con la ventiquattrore aperta sulle gambe vicino a Wall Street, nel parchetto con i tavolini a quadrati bianchi e neri, per giocare a scacchi. Muoveva le dita sulla tastiera, le cuffie con microfono a tenergli a posto i capelli, come un cerchietto che andava di moda tanti anni fa. Se ne stava lì, su quella superficie fredda e sporca, come stesse in poltrona, figura immobile circondata da luci, rumori, poster pubblicitari, graffiti, sbuffi di vento all'arrivo del treno, annunci gracchianti dagli altoparlanti.

Leonard lo osservava da lontano, giorno dopo giorno, includendolo nell'elenco delle solite cose. Cose come aprire il tubetto del dentifricio tenendo fermo il tappo e girando il resto, come strizzare il filtro della prima sigaretta rigirandolo fra pollice e indice della mano destra. Soffiare sullo zucchero a velo della brioche stando chino in avanti per evitare di sporcarsi i vestiti. Controllare l'ora passando davanti all'edicola per evitare di incrociare lo sguardo sempre così triste e confuso sul volto del giornalaio, chiuso nello sgabuzzino a scrutare i passanti con l'aspetto di un animale gravemente ferito. Le solite cose; anche osservare l'uomo statua era diventata una solita cosa.

L'uomo statua era vestito di roba scadente, da grande magazzino. Non sembrava un disperato di quelli che ti chiedono soldi raccontandoti tragedie personali poco verosimili. Non era così magro da far sospettare tossicodipendenze. Non aveva l'espressione di chi è abituato a nascondersi in un vicolo, al buio, ad aspettare la vittima ideale. Eppure. Eppure Leonard non capiva, era curioso di sapere, così se ne stava in piedi a distanza, ogni mattina dei giorni feriali, ad osservarlo. Non era il solo, c'era come un cerchio vuoto intorno all'uomo statua, come se un campo di forza impedisse alla gente di avvicinarsi troppo ed erano molti a fingersi distratti mentre si soffermavano a osservare. Alcuni perplessi, alcuni sospettosi, alcuni divertiti. Poi arrivava un treno e gli spettatori partivano, lasciando il posto ai nuovi arrivati.

C'era un cartello appoggiato in terra ma bisognava avvicinarsi parecchio per poterlo leggere. Bisognava entrare nel cerchio magico e correre i rischio di disturbare l'uomo statua, con effetti imprevedibili. Bisognava arrivare proprio di fronte all'uomo statua, e rivelare il bisogno irrazionale di immischiarsi in questioni che non ci riguardano. Se avesse alzato la testa e, incoraggiato dall'imprudenza dell'invasore, si fosse ritenuto autorizzato a instaurare un dialogo? Se avesse chiesto all'improvviso aiuto, soldi, favori? Magari afferrandoti per la manica o alzando la voce per rendere pubblica una tua eventuale reazione scomposta. Troppo rischioso. Solo un pazzo o un bambino di questi tempi potrebbe sottovalutare il pericolo degli incontri occasionali. Come il ragazzino in impermeabile e stivaletti di gomma che proprio in questo momento strattona inutilmente il braccio di sua madre per sbirciare il cartello, col solo risultato di essere trascinato di peso a distanza di sicurezza.

Leonard aggiornò l'elenco delle solite cose guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno l'avrebbe spinto giù sui binari prima di allineare la punta delle scarpe alla linea gialla quando il tabellone segnò due minuti all'arrivo del treno. Fu a quel punto che l'uomo statua si mosse. Leonard trattenne il fiato. La madre del bimbo in stivali accentuò la stretta sulla manina. La guardia appoggiata al muro in fondo afferrò la ricetrasmittente e si mise in attesa. L'uomo statua alzò la testa, fissò Leonard negli occhi, annuì, sorrise e tornò ad occuparsi di qualsiasi cosa stesse combinando col netbook. Leonard riprese a respirare. Un minuto all'arrivo del treno. Si era aperto un corridoio nella folla tra lui e l'uomo statua, come se avesse sparato un raggio laser dagli occhi capace di rendere inadatto alla presenza umana lo spazio fra di loro. Alcune persone si stavano lentamente allontanando da Leonard. Sei stato contagiato, disse una voce molto simile a quella di suo padre nella mente di Leonard. Aveva un tono canzonatorio quella voce, come quando da piccolo andava da lui in piena notte coi postumi di un incubo. Non esistono i mostri, diceva, sono solo dentro la tua testa. Si era scordato di aggiungere che in certe condizioni possono uscire e diventare veri, quando si diventa abbastanza grandi da poterli affrontare nonostante la paura. Riposa in pace papà, replicò Leonard in maniera automatica. Sentì montare la rabbia e cedette all'impulso nel modo in cui si cede quando si sta per fare qualcosa di cui ci si pentirà per il resto della vita: sorridendo solo con la bocca, gli occhi invece a fessura per proteggersi da se stessi, consapevoli che è già troppo tardi.

Leonard si avviò a grandi passi verso l'uomo statua. Gli si fermò di fronte, uno sceriffo da spaghetti western che ha raccolto la sfida del bandito. L'aria montava e già si sentiva in lontananza, nel tunnel, il sopraggiungere del treno. L'uomo statua non diede segno di averlo notato, di nutrire ancora l'interesse nei suoi confronti mostrato poco prima. Forse era soprappensiero e non stava davvero guardando me, pensò Leonard, era semplicemente immerso nelle sue fantasie. Come la spieghi la reazione della gente, disse la voce di suo padre, il fottuto corridoio. Non poteva essere davvero la voce di suo padre, non avrebbe mai usato parole come 'fottuto'.

- Riposa in pace papà. -

L'uomo statua chiuse il portatile e disse con voce forte e chiara, una voce profonda e roca da mal di gola: - Come dice scusi? -

Non aveva replicato a papà in silenzio? Leonard non lo sapeva. Il rumore del treno era molto forte adesso.

- Sta calpestando il mio cartello -, disse l'uomo statua puntando il dito a terra.

Il cartello era occupato da scarabocchi senza senso, una pseudo scrittura inframezzata di immagini ombreggiate a matita. Una sola scritta nel centro, in piccolo, in stampatello: 'Vuoi smettere?' Leonard scoppiò a ridere.

- Mi scusi -, stava per aggiungere signor uomo statua e ciò lo fece ridere ancora di più. Si sentiva come un ragazzino di fronte a uno scherzo ben riuscito. Lo sbuffo delle porte automatiche alle sue spalle lo fece sussultare mentre cercava di aggiungere qualcosa senza spruzzare di saliva l'uomo statua in un accesso di ridarella nervosa. Uomo statua che lo guardava con un sopracciglio sollevato, come lo Spock di quei telefilm quando non capiva una battuta del medico di bordo. Spock nella metropolitana con uno stupido cartello ai piedi fu l'ultima goccia, Leonard non risucì a trattenere le risate.

- Mi scusi -, cercò di aggiungere mentre si girava per correre nel treno prima che si chiudessero le porte. L'uomo statua era tornato a concentrarsi sul netbook, come se nulla fosse successo. Leonard alzò la mano con le dita aperte in un saluto vulcaniano quando il vetro delle porte si frappose fra di loro. Scoppiò di nuovo a sghignazzare raccogliendo le occhiate di rimprovero degli altri passeggeri.

2

Non era ancora uscito dalla metropolitana che il telefono di Leonard partì con la fuga di Bach a tutto volume. La suoneria associata al numero del suo datore di lavoro, Klaus Bazinsky, che stava già sbraitando prima della connessione.

- ...significa, eh? Rispondi! Volete che mi venga un accidente, vero? -

- Con chi ce l'hai, capo Kappa, voi chi? - Leonard camminava col telefono fra spalla e orecchio mentre rovistava nelle tasche in cerca delle sigarette.

- Finalmente rispondi, pensavo che fossi morto! Con chi ce l'ho? Con chi ce l'ho? - Leonard s'immaginava le guance sempre più rosse, gli occhi sporgenti - Mi prendi per il culo? Dove cacchio sei? -

- Dieci minuti e apro la porta del tuo ufficio, capo Kappa – rispose Leonard, strappando il pacchetto di lucky strike morbide per tirare fuori quella che ancora non sapeva essere la sua ultima sigaretta.

- Spero tu abbia una pala e che ti ricordi come si usa! - urlò Klaus.

- Una pala? - Leonard usò l'accendino e ispirò a fondo.

- Sarà divertente guardarti mentre ti seppellisci vivo se non hai con te almeno le bozze. - La risata di Klaus era una frana di odio in una miniera di malvagità.

Leonard non la sentì perché gli era caduto il telefono. Un attacco inatteso di colpi di tosse l'aveva fatto piegare in due e il telefono era caduto sul marciapiede. Era avvelenata, disse la voce di papà, ti rimangono pochi secondi di vita. Leonard gettò via il mozzicone e rimase chino, le mani sulle ginocchia, a riprendere fiato. Non gli era mai capitato di provare tanta repulsione in vita sua, per una sigaretta poi, l'adorato bastoncino catramoso.

Raccolse il telefono, ti rimise dritto e controllo il pacchetto. Le due sigarette rimaste sembravano normali, forse quella gettata era difettosa. Arsenico, disse papà. Si sentiva bene, la crisi di tosse era superata, forse più tardi avrebbe provato ad accenderne un'altra, facendo attenzione. Cianuro, disse papà. Ora basta, riposa in pace.

Klaus stava incornando l'aria, sbuffando come un toro, avanti e indietro a gran passi sul tappeto nel suo ufficio. Non salutò, non lo guardò in faccia, si fermò e allungò la mano.

- Dammi quello che voglio o te ne andrai -, disse.

Leonard gli mise in mano un fascicolo di A4 non rilegati, scritti a mano, pieni di correzioni e note a margine.

- Andarmene dove? -, chese.

Klaus andò a sedersi dietro la scrivania. - Era una citazione, ma cosa vuoi capirne tu? -

Leonard fece spallucce, capo Kappa era matto, questo era un dato di fatto in ufficio e nessuno stava più a interrogarsi sul significato di quello che diceva. L'importante era capire gli ordini e portarli a termine velocemente. Del resto si occupassero parenti, amici e dottori.

- Cos'è quanta roba? Ma porca di quella lurida! Allora ditelo che volete farmi esplodere un vaso sanguino nel cervello e vedermi paralizzato a sbausciare in qualche ospizio di merda! -

- Con che ce l'hai, capo Kappa? Voi chi? - Leonard controllava che il telefono non si fosse guastato nella recente caduta.

- Volete che mi incazzi, lo so, pazzi bastardi! -, Klaus si voltò a guardare finalmente Leonard in faccia, - Roba da caschetti di alluminio da cucina! Tre giorni alla scadenza e tu mi metti in mano questa merda? Dove siamo, in televisione? -

- No, capo Kappa, ascolta un momento -, ma Klaus era già partito in una delle sue sfuriate, si era alzato e fingeva di cercare telecamere nascoste in giro per l'ufficio.

- C'è qualche cazzo di presentatore decerebrato che ride di questa gag? Partono gli applausi registrati quando tiro fuori dal cassetto una bomba e minaccio di far saltare l'intero palazzo? Mi fate gli scherzi, eh? Volete mandarmi al manicomio! -

- Capo, non c'è nessuno, solo io e te, Kappa ascoltami -, Klaus portò gli occhi arrossati a pochi centimetri da quelli di Leonard e vi scrutava dentro.

- Hai ragione, calmati ora, ma che stai facendo? -, chiese Leonard.

- Sto cercando id vedere se c'è rimasto un briciolo di intelligenza e di talento in quella testa enorme che ti ritrovi. -

- Quella che hai in mano andrebbe bene, dai, lo sappiamo entrambi ma forse ho di meglio. -

- Ti ha mai detto nessuno, che so, tua madre, i tuoi insegnanti, che hai una testa enorme? - disse Klaus girandogli attorno, prendendo le misure della testa di Leonard con le dita.

- Nessuno prima di te, capo Kappa, ma dicevo stamattina ho avuto un'idea mentre ero nella metro, ne verrebbe un reportage, senti che roba, siediti che ti spiego. -

- Una volta ho conosciuto uno con la testa enorme quasi quanto la tua, era un idiota totale. - Klaus andò a riempirsi un bicchiere di rum, lo scolò d'un fiato e se ne riempì un altro.

- Hai sentito di quelle persone che appaiono come funghi in diversi posti della città? -

Ora Klaus era interessato. Aveva smesso di parlare della sua testa e far paragoni con zucche e palle da bowling. - Come funghi. -

- Sì, all'inizio si cercava di farne una notizia ma dopo un po', dal momento che non rappresentano un pericolo e non fanno niente di interessante, tutti hanno smesso di scriverci sopra e mandare servizi alla tv. -

- Bella merda. - Per Klaus tutto era degno di un bella merda a commento esplicativo per cui era difficile capire se bella merda nel senso di interessante o bella merda nel senso di noioso.

- Prendo Max, lo porto con me a scattare due foto, rimedio un'intervista e prima di sera ho materiale per qualcosa di meglio di quello che hai in mano.

- Anche il pelo sputato da un gatto randagio è meglio di quello che ho in mano. -

- È un via libera? - Leonard annuì speranzoso davanti allo sguardo depresso di Klaus.
- Un giorno mi farete perdere la pazienza e allora vi pentirete di tutto il male che mi avete fatto. -

- Capo Kappa, voi chi? Con chi parli, se lo chiedono tutti. - Leonard sorrise, componendo il numero di Max.

- Sei ancora qui? Porta quella testa orrenda fuori dal mio ufficio.- Leonard non raccolse, era già in piedi diretto alla porta e parlava al telefono con Max.