mercoledì 26 maggio 2010

La fabbrica dei mostri bellissimi (2 di N)

La fabbrica era un villaggio turistico, abbandonato a se stesso per anni dopo la chiusura. Occupa un grosso appezzamento a ovest dell'isola e ha il vantaggio della brezza serale e notturna. Il vento spinge via gli insetti, non c'è bisogno di fumigazioni e insetticidi come avviene dall'altra parte dell'isola, dove permetrina e deltametrina finiscono in circolo e capita di vedere bambini in preda alle convulsioni. La fabbrica è un'oasi, un rifugio, e solo tu abbandoni i suoi confini senza timore. Non hai più niente da perdere, non c'è più nulla di cui ti importi. Almeno così ti piace pensare. Grace dice che un giorno tornerai in te e allora capirai, e tu fai finta di crederle.

Osservi i manifesti pubblicitari, le insegne delle boutique, ti senti all'interno di uno di quei videogiochi che fanno impazzire Trent, dove ogni cosa sembra vera fino a quando non ti avvicini troppo e allora l'effetto viene rovinato dalla scoperta dei singoli pixel. Una miriade di quadratini colorati con gli angoli smussati, le facciate dei palazzi in centro rimangono al loro posto non grazie a forze naturali ma in base a un algoritmo finanziario, un'opportunità di profitto legata al turismo e all'evasione fiscale. Nessuno muore nel quartiere del business, a due passi dall'unico porto in grado di ospitare navi di adeguate dimensioni commerciali. Il sangue è finto, qui nessuno inciampa, starnutisce, qui non sono ammessi errori. Ti senti a corto di fiato, non vedi l'ora di uscire dalla cappa di magia aliena che ricopre e custodisce l'unica zona dove è possibile incontrare poliziotti e donne eleganti.

Grace è nata senza braccia. Trent è nato senza la capacità di provare empatia. Tutti lì dentro, nella fabbrica, sono mostruosi, anche tu. Giulan e le sue sfuriate contro i demoni della pioggia, Rachel che si esprime solo coi disegni. Frank, Willy, Jean Marie, Cho, non si nascondono più. Kevin che ogni mattina saluta il sole con note gutturali che trascina per minuti interi, facendo vibrare i petali, zittendo gli uccelli, spaventando i paguri. La voce di uno spettro che riesce sermpre a farti accapponare la pelle, un suono ogni volta uguale eppure diverso, nuovo. Leggermente più profondo a volte, indeciso passando da una O a una A a una U, oppure convinto, ti è impossibile prevederlo, dargli un senso, è questo ti spiazza, ti disturba, al punto che vorresti continuasse per sempre.

Quando si avvicina il giorno delle firme, l'unico giorno del mese che ti vede superare il cancello della fabbrica e attraversare lentamente l'isola, inizi a prepararti, a erigere difese mentali. Ti sforzi di ricordare, chiedi a Grace di ripeterti scampoli di passato, di aiutarti ad apparire quello che vuoi essere. Sai benissimo che la tua mostruosità è invisibile, ma temi di incontrare l'unica persona al mondo in grado di vederla. Sai che quella persona è là fuori, ti sta cercando. Non ti ricordi perché e questo non fa che aumentare la paura che le tue fantasie si avverino, che il giorno in cui riuscisse a trovarti la tua vita cesserebbe di botto, non avresti nemmeno il tempo di rendertene conto, cadresti a terra come colpito dal fulmine.

Quando arriva il giorno scopri che non te ne importa nulla. Ti guardi intorno sperando che Randy, così hai battezzato la persona che ti sta cercando, sia arrivato sull'isola, ti stia aspettando un poco più avanti, dietro la prossima curva, o quella dopo, o nel quartiere del business, com'è più probabile. Te lo immagini in un completo d'alta sartoria, per nulla sudato nonostante l'umidità tropicale. Te lo immagini sorridente, con la sigaretta arrotolata a mano dietro l'orecchio destro e gli occhialini rotondi con la montatura ultraleggera in titanio. Jean Marie ti ha regalato un amuleto diverso da tutti quelli che produce per i clienti della fabbrica. Un poliedro di ossicini di ratto tenuto assieme con filo da pesca. Al buio rifulge di tenui bagliori giallastri.

L'isola sta prendendo vita, si comincia a vedere gente per le strade. Sarai già lontano prima che qualcuno sia abbastanza sveglio da far caso a te, che ti incontri e si senta costretto a distogliere lo sguardo. Willy oggi preparerà la zuppa di pesce. Ti concentri sulla routine della fabbrica per evitare di metterti a correre, attirando l'attenzione. Cerchi di visualizzare mentalmente la bacheca col calendario e la lista delle attività giornaliere dei mostri. Arriverai e tirerai una linea col pennarello sulla voce che ti riguarda e ti concederai un sospiro. Sei sicuro che se ti girassi vedresti Randy appoggiato al muro che sorride, che fa girare l'indice nel gesto che significa dopo, più tardi, la prossima volta. Cho oggi ripensa il giardino zen e Frank allestisce il set fotografico. A che servi tu? Non produci niente, solo qualche firma una volta al mese, perché ti permettono di stare con loro?

martedì 25 maggio 2010

Cella 211

L'unica differenza fra le persone, come gruppo sociale, che vivono nel carcere e le persone che vivono libere è che i primi hanno commesso un reato. In questo film si descrive come un uomo innocente passa dal sentirsi parte del gruppo degli uomini liberi a quello degli uomini colpevoli di reato sia di fatto, perché a un certo punto commette un omicidio, sia col cuore, in quanto scopre che non c'è differenza tranne quella del senso di appartenenza e di uno scopo in comune.

Infatti sia nel gruppo dei carcerati che i quello degli uomini liberi si riscontrano gli stessi pregi e gli stessi difetti. I cattivi non stanno tutti da una parte. Gli stupidi sono ovunque, sia dentro che fuori, lo stesso per i malvagi, per i traditori, per i vigliacchi, per gli egoisti, gli ignoranti e gli stupidi. E ovunque ci sono anche persone leali, compassionevoli, comprensive, altruiste e intelligenti. Addirittura gli uomini liberi che lavorano come guardie sono in una terra di confine e, paradossalmente, scontano tutti una condanna all'ergastolo dal momento che passeranno l'intera loro vita lavorativa all'interno della struttura penitenziaria.

In questa cornice si evidenzia come l'atteggiamento della società civile sia di sostanziale indifferenza nei confronti della situazione in cui si trovano i carcerati. Le loro condizioni di vita non suscitano interesse perché vengono considerati diversi, particolari, marchiati a fuoco da un evento che ha fatto emergere la loro natura disumana e pertanto indegni di considerazione.

Questa è proprio la convinzione che vene scardinata nel film. Non sono diversi, non sono difettosi. Hanno commesso un atto punibile con la detenzione ma non per questo hanno attraversato un confine illusorio fra ciò che rende le persone degne di vivere libere oppure no. Esistono infatti in libertà centinaia, miglia, milioni di persone identiche a quelle incarcerate, con gli stessi difetti, brutture, cancri nell'anima, che sono libere solo per non aver compiuto un illecito o per non essere state scoperte o giudicate colpevoli.

Il teorema è dunque che nessuno al mondo merita di venire rinchiuso in istituzioni studiate per annichilire l'umanità, per quanto squallida e rovinata, di chi non smette di essere come tutti gli altri per aver compiuto un reato. Il film si limita a puntare il dito contro gli eccessi punitivi del sistema: isolamento, nessuna speranza di rilascio, soprusi delle guardie, orari di visita. In realtà il dibattito in alcuni paesi evoluti dove il carcere non si può definire squallido e degradante al punto da meritarsi una sceneggiatura incentrata sulla rivolta, il dibattito si è già spinto oltre e si stanno sperimentando isole abitate da detenuti (selezionati) che vivono in libertà. Abitano in case vere e proprie, hanno un lavoro, vivono come gli uomini liberi tranne che per l'obbligo di rimanere confinati all'interno di un territorio piuttosto che in un carcere.

In fondo lo scopo della giustizia moderna, che non vede ragione nella semplice punizione vendicativa, è fare in modo che chi ha compiuto un gesto esecrabile venga espulso dal tessuto civile, almeno per un po', in modo che le vittime si sentano in qualche modo risarcite al pensiero che il colpevole non esista più, sia stato mandato via, non sia possibile incontrarlo per strada, sia come morto o almeno ferito. Che poi subisca violenza fisica in carcere o meno non aggiunge soddisfazione alle vittime, o almeno non dovrebbe in teoria aggiungerne qualora le vittime non siano assetate di estrema vendetta.

Che fare allora di questi individui che la società vuole eliminare? Farli vivere come animali a spese del contribuente e poi rimetterli fuori conciati peggio di quando sono entrati o isolarli garantendogli una vita pressoché normale in cambio di lavoro e comportamento ineccepibile? È difficile dare una risposta perché se l'effetto di un reato viene percepito come un miglioramento della propria vita ci potrebbe essere chi sceglie di delinquere per ottenere il biglietto d'ingresso nell'isola dei carcerati felici.

venerdì 21 maggio 2010

La fabbrica dei mostri bellissimi (1 di N)

Ti sei dimenticato di mettere il cappello. È difficile sentire il rumore delle infradito che schiaffeggiano la terra battuta se non approfitti di quel paio d'ore magiche durante le quali alcuni turisti stanno ancora facendo colazione e il resto dei turisti, quelli che Grace chiama i nottambuli sonnambuli, giacciono nei vicoli, nelle stanze a ore, sulla spiaggia, sui copriletti delle loro stanze in stile coloniale. Corpi umani spinti da maree invisibili, da sogni improbabili, da illusioni paradisiache, scagliati sull'isola da ondate irrazionali, rotolano sulla battigia come immondizia giunta dal mare, caduta da una nave di passaggio. Sorridi pensando a Grace, è lei che ti ha insegnato a ricamare sulla realtà, è sul pensiero di lei che ti concentri per riuscirci, tu che ti vanti di saper vedere le cose per come sono davvero. Vedi la spazzatura, i topi i cui avi sono arrivati anch'essi per turismo e hanno finito per appropriarsi di tutto, distruggendo le specie indigene come quegli uccelli che nidificano a terra e non hanno mai dovuto impedire a un topo di mangiarsi le uova. Grace queste cose non le vede, è la sua magia. Tutti giù alla fabbrica possiedono una forma di magia. Trent, che vede nel buio e racconta i colori. Ester che parla da un posto lontano, dove tutto è diverso.

Il sole ti scalda la testa quando sei obbligato a uscire dall'ombra delle case per attraversare un incrocio. Ogni tanto sollevi lo sguardo e controlli dove sei arrivato usando il baobab. Capisci di non essere più un turista quando per orientarti ti affidi al baobab che troneggia nella piazza principale. Tutto su quest'isola ruota attorno al baobab, è un segreto ben custodito, è uno dei pochi stratagemmi che rimangono per distinguere i residenti dai turisti. Cerchi di ricordare com'eri prima, cosa eri prima, quando agitavi la mano per fermare un taxi, la cravatta e la valigetta, quando non potevi fare a meno di controllare l'orologio. È difficile, non riesci più a trovare qualche frase chiave che ripetuta all'infinito possa farti tornare a essere quello che non sei più. Grace riesce a fartelo immaginare, ma nulla di più. Col passare del tempo anche i racconti che ti riguardano vanno perdendo di realismo. Grace, la tua memoria vivente, dà l'impressione di volerti ingannare, di farti credere d'aver vissuto la vita di un altro. Non ti vedi nell'atto di assaporare il profumo dei fiori che qualcuno ha colto per te, spruzzandoli col vaporizzatore prima di metterli nel vaso.

Ti infili la camicia nei bermuda prima di entrare. Alcuni uffici adesso fanno da sede per così tante società che ogni cassetta della posta non riporta meno di cinque nominativi. Ci sono più società che abitanti sull'isola. Hai fatto tante di quelle firme da quando hai accettato questo lavoro che ormai dalla penna esce un segno grafico privo di senso, ogni volta diverso. Nessuno controllerà mai. A nessuno interessa chi sei, il fatto che tu abbia un nome è ininfluente perché non verrai mai chiamato per nome. Oggi farai conchiglie, firme conchigliformi, firmerai tutto quello che ti metteranno davanti e per l'ora di pranzo sarai di ritorno alla fabbrica. Se una fatucchiera ti avesse predetto la fabbrica affermando che saresti stato felice l'avresti presa per matta. Avresti replicato che di felicità ne avevi già fin troppa ignorando che qualsiasi cosa, se uno si sforza, può essere fonte di felicità. Quanto sforzo ti costa essere felice qui e ora, pensando con sollievo al momento in cui vedrai apparire dietro la curva l'ingresso della fabbrica? Poco o molto, non lo sai dire. È un argomento da proporre a Giulan o a Rachel, sei certo che apprezzerebbero l'opportunità di esprimere un parere.

Il responsabile dell'ufficio si alza per stringerti la mano. È un bravo ragazzo, ha rifiutato l'offerta di essere trasferito per restare vicino alla famiglia e non c'è giorno in cui non se ne penta e se ne lamenti a voce alta. È uno di quelli che dalla fabbrica rimane lontano, che non sopporta le emozioni che se ne ricavano. Sono troppo, sono troppe, così ha detto l'unica volta che si confidato con te, che ti ha chiesto consiglio. Proprio a te, che l'unico consiglio che sai dare è il silenzio, non comunichi neanche con lo sguardo, usi sempre lo stesso tono di voce. La gente che chiede consigli e non li vuole ascoltare ti viene a cercare giù alla fabbrica e sa di poterlo fare solo tre volte nell'arco della vita. Quasi tutti si fermano alla seconda, si tengono l'ultima in serbo per sempre. Ester una volta ha detto che la taumaturgia è anche un fattore ambientale. È una delle prime frasi che hai annotato nel taccuino in cui metti gli scarti di fabbrica. La roba buona finisce nei mercatini, nelle aste, nelle collezioni private di facoltosi estimatori, nei corridoi delle banche. Ma anche nelle camerette di bambini selezionati e meritevoli, che lo ricevono per posta. Se ne occupa Trent, è così bravo che la maggior parte di quei bambini, una volta cresciuti, passa a farci visita di persona.


lunedì 17 maggio 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (26 di N)

Quando c'hai un figlio capisci che lui sa che giorno è perché quando non è giorno di asilo si sveglia alle cinque del mattino.

“Papa, c'è il sole, a cosa giochiamo?”

Siamo andati al maneggio a vedere i cavalli, siamo andati in bici, siamo andati al mercato, siamo andati in centro, siamo andati a una specie di fiera coi fiori di carta. Piscina, parco con lo scivolo a spirale, parco col laghetto, parco col tappeto elastico, parco con giochi gonfiabili e pista dei go-kart. Abbiamo giocato a tutto, fino a inventare l'ennesimo nuovo gioco, una specie di tennis in corridoio con molte palline colorate e nei momenti di panico si viene colti da un tremito come Hulk Hogan quando decide che è arrivato il momento di vincere e parte l'effetto catapulta con l'altro che si nasconde tremante dietro la sua racchetta e aspetta di far finta di saltare in aria.

Se pensi di avere un figlio e continuare a vivere da single tanto vale che lo lasci in ospedale. Avere un figlio per davvero vuol dire partire per la legione straniera. Sudare, anche, essere disposti a sudare e a dormire molto poco. Poi c'è il fatto che finisce la scuola e per tre mesi dovresti poterti occupare dei figli a tempo pieno ma siccome non puoi devi trovare soluzioni come mandarli al grest o in vacanza coi nonni e ti chiedi tanto tempo fa, secoli fa, era così anche allora? Genitori e figli si vedevano all'ora di cena e d'estate andavano in vacanza? Settimana prossima c'è la recita e sto impazzendo alla ricerca di maglietta e pantaloni gialli perché deve fare la giraffa. Al mercato mi han detto “Ancola? Tutti che celcano la maglietta gialla?” Non è un refuso, qui al mercato molti commercianti sono diventati stranieri. Non voglio che i suoi amici siano tutti vestiti di giallo tranne mio figlio, così oggi mi spingerò più lontano nella ricerca.

Poi leggo che in certi paesi le donne cominciano a far figli a 14 anni e le famiglie hanno un sacco di figli. Siamo i più ricchi del mondo e spesso non abbiamo nemmeno energia e tempo per accudirne come si deve uno soltanto. Sono pensieri che tengo per me, se vai in giro a parlare di queste cose ti guardano come se sei strano, come se sei pericoloso. Specialmente se chi hai di fronte di figli non ne ha o, se anche li ha, vive come se non li avesse, lasciando che se ne occupi qualcun altro. Quelli che alzano la voce e si spazientiscono per poi arrabbiarsi di più quando i figli fanno la stessa cosa. Educazione schizofrenica, fai quello che dico e non quello che faccio.

Andare su Marte, percorrere migliaia di chilometri all'anno in macchina e in aereo, potersi permettere gioielli, inseguire la moda, entrare in locali esclusivi, assaporare il gusto del lusso. Non so, forse sono io che sbaglio, ma ho come la sensazione che stiamo sbagliando qualcosa. Io, io, io, sembra che tutto e tutti non facciano altro che gridare un immenso IO, come quella poesia, come faceva? E risuona il mio barbarico YAWP sui tetti del mondo.

giovedì 13 maggio 2010

Icone moderne 001

Frannie Guller ha infranto ogni record con il suo ultimo capolavoro schizzato in vetta a tutte le classifiche. Un'epica rivisitazione dell'anoressia, tema cult per eccellenza nell'ambientazione raffinata del neolirico. Forgiata in ruoli a margine di serie televisive come La tossina FK2 (1993) e Grazie ma forse domani (1995), esplode come interprete del sentire comune nella splendida performance nei panni di Dana in La frutta è di plastica (1998). Siamo riusciti a contattare il mitico Franz Scarpenghi nella sua tenuta in Afganistan e l'abbiamo strappato dalla cura maniacale per la lucidità del pelo dei suoi purosangue riuscendo a ottenere una sua dichiarazione in esclusiva che pubblicheremo per intero nello speciale di settimana prossima. Un'anticipazione che possiamo darvi è che ha avuto davvero una relazione con Frannie quando era meglio nota come la contorsionista più famosa del cinema di contrabbando e, nonostante le evidenze, potrebbe essere lui il padre del nascituro che tutti stiamo aspettando con ansia di fotografare. Suonino le trombe, i critici che ancora non si piegano alle ragioni del successo dovranno chinare il capo di fronte alla prova eccelsa di come la matrice subliminale della fama non ha intaccato la genuina femminilità di Frannie, nemmeno quando ha rifiutato di indossare l'abito di scena cucito per lei personalmente dall'immenso Greg Stobostein. Definire artista Frannie è riduttivo, il suo infinito glamour unito all'eleganza naturale le permettono di sperimentare acconciature coraggiose davanti alle quali non possiamo fare altro che prostrarci ai suoi bellissimi piedi in adorazione, con la speranza che un frammento della sua nobiltà ci tocchi nell'intimo. Soprannominata pelle di cera, zigomo d'oro, gluteo magnetico, la nostra Frannie è in realtà una donna sensibile, abituata alla cura del dettagli, che si dedica a numerose opere di beneficenza senza sbandierare ai quattro venti la grandezza d'animo di un sentire magnifico, superiore in ogni senso alla mediocrità del quotidiano. Sono leggendarie le sue cene a casa del magico Rudy Fullerman, dove presenta le essenze profumate che il giorno dopo vanno all'asta per milioni di dollari. Perché non sprecare l'aggettivo assoluto quando tutto in Frannie ha il sapore del sogno che si avvera? Poliedrica, divinamente grandangolare, un paradigma dell'ascesa sul monte del trionfo come attrice e come poetessa, ma anche come icona pop che reinventa l'adozione prendendosi carico di una coppia di anziani al posto dei soliti orfani bambini. Un portamento tragico ma eccelso nel penoso claudicare posticcio così tipico dei suoi imitatori. L'immaginario Koskoziano in un trucido ma elaborato schizzo post-romantico, quando la nevrastenia conclamata sgorga nella conclusione inattesa, non possiamo fare a meno di riconoscerci in Frannie e affrontare la tematica della rinascita collettiva. Lo scandalo del video hard che la vede coinvolta assieme al noto atleta Thomas Rifling non ha provocato che un battito d'ali in confronto alle rivelazioni sui presunti abusi subiti dal cognato quando lavorava come modella per l'ormai celeberrima pubblicità dei pannolini. Frannie è oggi un esempio da seguire per le nuove generazioni, una coincidenza gradita nel mondo dello spettacolo che non mancherà di stupirci ancora e ancora nei prossimi tempi.

mercoledì 12 maggio 2010

Gekko.

Adesso ti spiego come funzionano i soldi, dice Quentin. Stiamo attraversando un quartiere dopo l'altro e lui ha in mano questo rettangolo di plastica con dei bottoni sopra, quando li schiaccia i semafori diventano verdi, la sbarre si sollevano, i cancelli si aprono. Quentin sta parlando da quando ci siamo incontrati, stava già parlando ed ero ancora troppo lontano per sentire cosa stesse dicendo. Era così anche da bambino, non riuscivo mai a inserire una parola, parlava anche per me, mi vedeva aprire bocca e mi afferrava il braccio, diceva anche le mie battute, solo che non erano mie, la sua mente schizzava parole ovunque e lui doveva solo prenderle e tenerne qualcuna per sé. Mi faceva dire cose stupide, di solito, ma ogni tanto mi faceva dire cose troppo intelligenti per me e mi sentivo ricompensato. Anche adesso non riesce a farmi dire quello che direi veramente se fossi io a parlare. No, mi dice, afferrandomi il braccio, non è come pensi, i soldi non esprimono un valore. Questo nel suo mondo l'ho detto io, è così che funziona Quentin. E invece ti dico che lo esprimono, prosegue, solo che non è il valore che intendi tu.

A me non interessa quello che dice Quentin, non mi è mai interessato. Mi piace solo cercare di seguire il filo dei suoi discorsi, schivando le parentesi, le divagazioni, distinguendo quando parla per sé da quando parla per uno o più interlocutori immaginari. Mi piace perché mentre parla guida e mi porta in posti strani, esclusivi, e credo lo sappia che non subirei il suo bisogno di parlarmi se non mi scarrozzasse in giro. Posso fare a meno di guardarlo e concentrarmi sul panorama, ho imparato a seguire i suoi ragionamenti come si ascolta la melodia concentrandosi sulle percussioni, senza farci caso. Perché a un certo punto Quentin decide che ti viene concesso il diritto di parlare e ti conviene avere qualcosa di arguto e sensato da aggiungere o sarebbe capace di spararti come si spara a un cavallo zoppo.

Non ricordo il nome di chi ha inventato la zona dei quartieri modello e non ho nessuno a cui chiederlo, c'è solo Quentin e lui non accetta domande, specialmente fuori tema. Stiamo viaggiando entro i limiti su un viale alberato molto pulito, così decorato da farti venire voglia di toccare le foglie per scoprire che sono di plastica o che la tua mano passa oltre, attraversa i laser dell'ologramma. C'è luce gialla che proviene da tutte le direzioni, mille soli invisibili nel cielo carta da zucchero, niente nuvole. Una ragazza in calzoncini sta correndo sul marciapiede, le spalle che si muovono come quelle di un boxeur. C'è una donna che pota un cespuglio fiorito, bambini che si lanciano una palla. Come si chiama questo quartiere, che modello rappresenta, non ho nessuno a cui chiederlo, Quentin non è una guida turistica.

Sta parlando ancora di soldi, di come ci siano più soldi che oggetti. Quando ci sono troppi soldi allora tutti hanno soldi ma cosa ci compri? Niente. Esatto, proprio così, hai detto bene. Non ho parlato, vorrei dirgli, ma non lo faccio. Emetto un singolo breve sbuffo che riassume il mio divertimento che implode. Suona come il punto alla fine della frase che nel mondo di Quentin ho appena pronunciato. A quel punto ci vogliono dei soldi che hanno un valore per comprare i soldi che non valgono più niente, dice Quentin. Poi sta zitto. Si sente solo il fruscio delle gomme sull'asfalto, sembra provenire delle ombre degli alberi, l'ombra delle foglie che scorrono sul parabrezza come uccelli in picchiata contro di me, mi viene da chinarmi per evitare che vadano a sbattere sulla mia faccia e invece si alzano all'ultimo momento e mi passano sopra.

Mi giro a guardarlo, sta fissando dritto davanti a sé, concentrato. Provo a parlare, so già che il suono della mia voce mi sembrerà strano, dopo un po' che sto con lui mi convinco che la mia voce autentica sia uguale a quella di Quentin. Dico mi sembra una bella storia, poi che succede? Non sto mentendo, mi piacciono sempre le sue storie. Questa è più cervellotica, i richiami e le postille, una storia che devia parecchio rispetto allo standard di Quentin a cui sono abituato. Preme un tasto e superiamo il confine col quartiere successivo. Qui è tutto grigio, molto cemento, vetrate a specchio. Un uomo con occhiali scuri ci osserva e parla col polsino della sua camicia. Non so, dice Quentin, soldi commestibili, mi sembra eccessivo. Si è ripreso, parlerà per la prossima ora, il prossimo mese, fino a quando la macchina che ci trasporta non finirà in pezzi con noi dentro ridotti a scheletri, quello di Quentin con la mandibola che va su e giù.

A un certo punto nella storia che mi sta raccontando, la storia che diventerà un file audio tra le migliaia catalogati nel computer di Quentin, il protagonista scopre che esistono solo i soldi. La gente ha smesso di lavorare e tutta la roba che compra viene dall'estero. Lo stato vende pezzi di carta a banche in giro per il mondo e i soldi che ci ricava li distribuisce ai cittadini che li usano per comprare cose prodotte all'estero. In pratica è una critica ai quartieri modello, per questo siamo qui, è il motivo per cui mi ci ha portato. Il resto del mondo paga per venire a vedere questa gente che vive producendo soldi senza valore, li vende in cambio di soldi veri. Come nei villaggi turistici, mi dice, come in crociera, ti danno dei pezzi di carta colorata o delle monete di plastica e ti dicono quella gialla vale dieci e quella blu vale cinquanta. Faccio finta di aver qualcosa da dire così Quentin mi afferra il braccio e va avanti a raccontare.

Mi vedo nell'atto di aprire la portiera e gettarmi fuori dall'abitacolo. Forse non se ne accorgerebbe nessuno. Magari non in questo quartiere, qui sarei riconoscibile come corpo estraneo, non ho i vestiti adeguati e magari usano un loro linguaggio particolare che si è sviluppato in anni di isolamento. La storia si apre proprio nel momento in cui crolla tutto, dice Quentin, la parte in cui le cose andavano bene e nessuno sospettava niente la faccio come dei flashback. Mi immagino questi tizi in completo scuro che invadono il quartiere delle villette, affamati, e in terra ci sono soldi di mille tipi, rifiuti che vengono presi a calci. Devi stare con me, dice Quentin, lo sai, darmi una mano con i dialoghi. Vedo la mia mano che afferra la maniglia e tira, l'asfalto venirmi incontro. Sono in un quartiere modello, ho sempre desiderato scoprire cosa si prova. La macchina si ferma, anche Quentin scende. Si guarda intorno, sta urlando ma è troppo lontano per sentire cosa sta dicendo. Mi arriva solo qualche pezzo di frase perché da qualche parte si è attivato un allarme che va da un ruggito appena percepibile a un fischio altissimo: ...zzeranno...ma sei...to?...bito in macc...are!

martedì 11 maggio 2010

Carrelli.

rivo col carrello c'è un altro carrello sembra abbandonato a volte ci sono carrelli rotti che non ci devi mettere la moneta e allora viene lasciato lì dov'è in mezzo alla strada non lo mettono a posto perché non ci hanno messo la moneta e parlo ad alta voce dico non ricordo qualcosa non ricordo cosa perché sto spingendo il mio carrello e controllo che mio figlio non finisca sotto una macchina mentre ficco la spesa nel baule dico qualcosa perché vedo un carrello abbandonato e sento una voce sento qualcuno che dice è mio dice ci ho messo una moneta da cinquanta centesimi dice lo vuole? le serve? dico no grazie e vedo che c'è una signora mentre sistemo la spesa ho questa fotografia di quel che ho visto ho visto una macchina vecchia una panda blu di un blu che non può essere il suo vero colore dev'essere stata riverniciata e ho visto una signora molto vecchia seduta al posto di guida con le gambe di fuori come quelle amazzoni ottocentesche a cavallo con entrambe le gambe dalla stessa parte ho visto la panda con la portiera aperta con dentro questa vecchia che mangia grissini e indossa un berretto di lana azzurro sbiadito e penso che nemmeno il colore del berretto è originale e ho visto gli occhi di questa vecchia un po' preoccupati direi spaventati due occhi piccoli e azzurri chiaro che non può essere il loro colore originale così mentre sistemo la spesa con mio figlio che mi consiglia come sistemare cartoni e sacchetti penso a questa vecchia e capisco qualcosa non so bene cosa quel che capisco è che devo sistemare quel carrello in mezzo alla strada così torno a guardare e l'immagine è proprio come quella che avevo in testa c'è davvero la panda e la vecchia e i grissini e penso che è così vecchia che forse sotto il berretto ha pochi capelli bianchi il loro colore originale e penso che mangia grissini per andare avanti che se non si fosse seduta lì a mangiare un grissino sarebbe morta nel parcheggio e nessuno l'avrebbe messa a posto perché non contiene monete allora dico le metto a posto il carrello e lei ha di nuovo quello sguardo impaurito di chi sa che non potrà reagire di chi sa di essere in completa balia del prossimo e dice c'è dentro la mia moneta lo dice come implorando come dicesse per favore non rubare la mia moneta e io dico non si preoccupi gliela porto la sua moneta sto per dire la sua cazzo di fottuta moneta mi vedo che mi arrabbio con quella fragile vecchia terrorizzata per il fatto che si preoccupi tanto per una moneta da cinquanta centesimi sono tentato di darle subito tutta la moneta che ho in tasca e di dirle tenga queste facciamo così io mi tengo la sua da cinquanta se lei prende questa manciata di euri ma non lo faccio non voglio offenderla in nessun modo non voglio farla agitare voglio che stia lì seduta tranquilla a finire i suoi grissini sarei disposto anche a fare la guardia a mandare via tutti in modo che possa finire con tranquillità di mangiare i suoi cazzo di fottuti grissini e quando ho messo via il carrello e le riporto la moneta lei sorride questo non va bene lei sorride e dice allora non sono tutti cattivi c'è ancora qualche buono non ha più lo sguardo triste preoccupato spaventato la vecchia mi sorride e io dico ma certo dico solo ma certo perché sono sconvolto all'idea che davvero viva in un mondo dove sono tutti cattivi dove è cosa straordinaria essere buoni con una vecchia sola e turbata dentro di me penso che forse era una prova una specie di test come nella bibbia che se trovi anche un solo buono allora risparmierò il villaggio e noto che ci sono ancora due grissini nel sacchetto e scappo in realtà mi muovo a velocità normale addirittura sorrido e le ripeto certo che ci sono ma l'impulso è quello di mettermi a correre prima che finiscano i grissini e il supermercato venga distrutto da una pioggia di f

lunedì 10 maggio 2010

Alla scuola dei preti (intermezzo 3*N)

Era il periodo dei paninari. Bisogna capire il contesto, c'era Drive In alla televisione. La televisione. Gran parte della mia vita non c'è stata. Ho più ricordi di televisione che di esperienze. Le esperienze erano qualcosa tra ore di televisione. Non solo io, tutti i miei coetanei. Abbiamo in comune gli stessi cartoni animati, Bim Bum Bam, Super Super Gulp. Abbiamo in comune i telefilm, i video musicali. Ciò che ci faceva e che ci fa sentire uguali era ed è la televisione, nient'altro. Ci accusano di ignorare volutamente la storia, i valori, le opinioni. Non so quant'è voluto, noi quando non stavamo davanti alla tv allora parlavamo di tv, ripetevamo parole sentite in tv, cantavamo canzoni passate in tv, litigavamo sulla tv.

Quelli delle generazioni precedenti non capiscono cosa significhi, pensano che siamo come loro e che la tv si aggiunga al resto senza sostituire niente. Invece no. Come adesso con i computer, con internet e i videogiochi. Son vecchio ma li capisco molto di più di quanto i nostri vecchi capissero noi. E sono contento per loro, la mia generazione è la più sfigata di tutte, avevamo solo la televisione. La guerra fredda e tangentopoli, l'inverno nucleare e le brigate rosse, le crisi petrolifere e la mafia. La televisione mostrava un mondo in cui fuggire per sentirsi bene. E ci vestivamo da paninari. Chi non aveva abbastanza soldi per vestirsi da paninaro ti puntava un coltello e ti rubava le scarpe.

Adesso è uguale, ma avete il computer, beati voi. Avete ancora gli stessi giornalisti che avevamo noi, la stessa gente in tv, la stessa gente in politica. Avete gli stessi cantanti, gli stessi scrittori, gli stessi attori. La generazione che viene prima della mia è ancora in sala di controllo, ride della mia generazione ma non riderà della vostra perché si vede quanto gli fate paura coi vostri computer che noi non avevamo. Noi avevamo la tv a bassa, bassissima definizione e il walkman, con le cassette a nastro, una striscia di plastica che si rompeva, si inceppava, suono di pessima qualità, che usciva a metri e dovevi metterci un pezzo di scotch e con la matita cercare di farlo rientrare con delicatezza e circospezione dentro all'involucro.

Se non tenete presente questo, che c'era solo la tv, massima espressione di comunicazione a senso unico, non potete capire perché si finiva a bigiare in paninoteca o a fumare nei bagni. Cos'altro potevi fare? Scrivere lettere ai giornali come quei tizi paranoici che nei libri e nei film non si rassegnano all'idea che cambiare il mondo sia possibile utilizzando le regole di un sistema chiuso e blindato dall'interno? Internet fa paura, se vi sembra strano pensate un momento a noi, con le nostre belle Timberland ai piedi che andiamo a guardare Rambo al cinema. Parlo di cinema con sedie di legno, schermi che oggi sono quelli di una grande televisione ultrapiatta, senza impianto stereo a ottanta canali multisurround, senza nemmeno impianto antincendio se è per quello.

Il discorso finale di Rambo. La roba buona veniva tutta dagli Usa. I nostri film facevano cagare, erano roba tipo carletto spia la maestra che fa la doccia e scoreggia in sala mensa. Ecco, cominciate a farvi un'idea di cosa significasse essere teenager negli anni '80? Flashdance, Dallas e Dinasty, Saranno Famosi. Terminator, Rocky. Michael Jackson e Madonna. Stephen King. Raffaella Carrà, Mike Bongiorno, Pippo Baudo. Don Lurio, potrei andare avanti all'infinito. Abbiamo la testa piena di star, di pubblicità, di vip, di sceneggiature mediocri. La scienza era l'unica cosa che non era andata a male, tutto il resto, specialmente se limitato all'Italia, serviva solo a prendere la sufficienza a scuola. Roba per vecchi, roba morta e sepolta che non aveva più niente da dire.

Poi c'erano quelli che si davano al calcio o alla politica. Andavano allo stadio, andavano alle manifestazioni. Allo stesso modo, con lo stesso spirito con cui si va in discoteca o a un concerto. La stessa differenza che passa tra il crederci davvero e il pensare di crederci. È l'effetto tv. E intanto si cresceva, si diventava adulti. Ma non si era mai abbastanza adulti per i nostri vecchi. Ancora adesso, a 40 anni, sono considerato un ragazzo. La mia generazione non ha mai avuto il diritto di essere adulta. Aspetti i 20 anni per essere trattato da uomo e ti accorgi che nel frattempo per essere uomo devi averne 40. Arrivi a 40 e devi averne 60. E intanto alcune persone muoiono, sui giornali ogni tanto appaiono titoloni, la vita tua e del mondo intero ti scorre davanti, proprio come alla tv. La mia generazione è su un divano che guarda la tv da quando è nata e morirà davanti alla tv.

Per cui non ridete troppo forte quando vi racconterò altre cose della scuola dei preti. Abbiate pietà. Quanta ne ho io di quelli con 10 o 20 anni meno di me che sono conciati anche peggio, generazione parlando. Io dovevo andare alle edizioni paoline e subire gli sguardi contrariati delle suore e insistere per avere tra le mani l'ultimo saggio di Hans Kung, voi potete trovarlo on line e scaricarlo sull'ebook reader. Io non potevo dirlo a nessuno che non ero d'accordo con certe teorie storiche o che la logica del marketing secondo me avrebbe prodotto disastri o che non aveva senso perdere mesi di scuola a spiegare cose che possono essere imparate in due settimane, ammesso che valga la pena di impararle. Primo non c'era nessuno che avesse voglia di sentire certi discorsi, secondo non sarebbe servito a niente se non a perdere quei pochi amici che con grande fatica e odio per me stesso ero riuscito a procurarmi al fine di superare l'adolescenza senza finire in manicomio.

Se vivi nella tv ti comporti di conseguenza. Ci sono le risate finte in sottofondo, ci sono le battute e devi recitarle anche se non ti piacciono, ci sono momenti tragici e momenti demenziali. Tra qualche decennio o secolo gli storici daranno un nome a questo periodo storico. Noi crediamo di vivere la stessa epoca che ci ha preceduto, è tipico dei contemporanei il non rendersi conto che gli hanno strappato il tappeto da sotto i piedi, che è tutto diverso in una maniera che non riescono a comprendere perché ci sono dentro, non possono guardarla da fuori. Non possiamo scegliere il programma, siamo come attori che accettano qualsiasi ruolo pur di esserci. A volte ci dimentichiamo che si tratta di recitazione: siamo così bravi, così autentici, così calati nella parte da non riuscire più a smettere. Arrivano e passano i titoli di coda e noi siamo ancora lì in costume a inventarci il sequel.

giovedì 6 maggio 2010

UTM.

Il grande giorno. Il trapiantato J sembra smagrito sotto le forti luci che illuminano il palco, ha dei solchi sulla faccia che producono ombre. Ha occhiaie profonde, ha rughe marcate, ha le pupille velate e gli occhi lucidi, smerigliati a pasta fine. Il trapiantato J era il prodigioso J tanto tempo fa, quando presentò il progetto Una Tantum Machine che aveva solo trent'anni, si parla di sette organi fa ormai, di cui uno trapiantato due volte per rigetto. L'ex prodigioso, il trapiantato J, fonte di ispirazione per intere generazioni, innovatore del marketing, il cultore di aspettative infondate. Eccolo pienamente illuminato, la pelle tirata sugli zigomi, chiazze grigiastre dove una volta c'erano capelli. Sorride perché è arrivato il grande giorno.

Se ne parla da anni. Perfino la candida M, con la sua impermeabilità alle mode così ostentata, nasconde, nella borsetta ricavata da materiale di scarto dell'industria del pollame, una riproduzione in scala dell'ennesima UTM, dalle forme perennemente ipotetiche, con numero di versione sbalzato a caldo in un'apposita nicchia. Gli analisti prevedono dieci milioni di esemplari venduti entro una settimana da oggi: il grande giorno è arrivato. Il mondo osserva, le telecamere indugiano sulla bocca del trapiantato J, che non parla, si gode il brusio che inonda il palco, che gli solletica i piedi. La bocca del trapiantato J, le gengive che si ritirano sui fragili denti rimasti. Le gente lo adora, perfino lo scorbutico K, nonostante i suoi articoli ostili e le infiammate detrazioni, si vede da come si tormenta le mani.

Lo scorbutico K e tutti quelli come lui, soldati della dissimulazione, coi loro titoli sprezzanti - Dov'è la UTM? - e le loro teorie complottiste - Esiste solo nei sogni! - e il remare contro per continuare a incassare gli assegni di società concorrenti. Oggi stanno zitti, si tormentano le mani. Il trapiantato J schiocca le dita e si apre il sipario. Eccola lì, l'UTM, luccica da miliardi di angolazioni, come una pietra preziosa, come una galassia. L'origine e la fine di un'epoca. Il sentimento dominante è la paura. La gracile F, con l'incantevole tonalità di voce che l'ha condotta alla fama, emette un verso impossibile da interpretare usando criteri umani. Il placido V per la prima volta sperimenta nuove emozioni, si sente atterrito e sconvolto, aggrotta le sopracciglia e il dettaglio sarà oggetto di discussione per mesi sul sito dei suoi fan giapponesi.

La domanda inespressa è: cosa faremo adesso? Di cosa parleremo? Giornali, documentari, libri, adesivi per paraurti - UTM atterrerà nel mio giardino - magliette - UTM, io so cos'è, chiedimelo - prototipi in miniatura non autorizzati, tazze da caffè, giocattoli per bambini con centinaia di pezzi da assemblare in modo casuale, programmi di simulazione sui possibili effetti di possibili malfunzionamenti, esperti chiamati a esporre congetture sui principi teorici, opinionisti, economisti, modelle per campagne pubblicitarie mirate a incrementare il numero delle prenotazioni a scatola chiusa. Adesso che l'UTM uscirà dall'immaginario collettivo e diventerà un utensile di uso comune, come riusciremo a sopravvivere?

Il trapiantato J aveva previsto anche questo, raggomitolato nella capsula di ionizzazione cataplasmica, convinto di morire di lì a poco, si era confidato con la fedele W, seduta composta nell'immancabile grembiule a circuiti stampati, convinta di fare presenza dovuta al capezzale del suo unico amore. La fedele W aveva sentito i brividi in porzioni di epidermide che non ricordava di avere dai tempi del liceo, quando il non ancora trapiantato ma prodigioso J le aveva fatto scoprire l'effetto dell'energia elettrostatica senza palesare i retroscena dell'abuso. Non c'era pelo che non volesse strapparsi via, proiettarsi lontano dal suo corpo quando W udì quella che in seguito classificò come profezia.

Si scatenò il putiferio. Come funziona, cosa può fare, usa davvero una forma di energia rimasta finora sconosciuta. Domande. Una sopra l'altra, una dentro l'altra. Il trapiantato J che invita alla calma. Uno per volta, risponderò a tutte le domande, ma prima lasciatemi dire una cosa. Questa che vedete non è l'UTM, ma lo strumento che ci consentirà finalmente di entrare nella fase successiva del progetto, portandoci più vicini che mai alla realizzazione del prodotto che tutti stiamo aspettando. Lo scorbutico K assume la postura feroce di chi sta scrivendo con inchiostro velenoso. La gracile F muove le labbra, parla da sola, frugando nella borsa. Il placido V si congratula con la pancia invadente che si ritrova, pacche cadenzate al rallentatore. La fedele W stringe le labbra e batte le mani, fa partire la reazione a catena che si chiama applauso. Ora sono tutti entusiasti, oggi è il grande giorno. UTM è sempre più vicina, la si può quasi toccare.

Una Tantum Machine.

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mercoledì 5 maggio 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (25 di N)

Quando c'hai un figlio non vedi l'ora che sia diventato grande così se ti capitasse di morire non lasceresti orfano un bambino. D'altra parte vorresti che restasse piccolo perché è troppo divertente avere a che fare con tuo figlio che è ancora piccolo. Giocare ha un significato molto profondo quando non devi usare l'adultità per ridere. Non c'è niente di complesso, non serve toccare corde nascoste, seppellite sotto anni e anni di esperienza accumulata o subita, per far scaturire la gioia.

Per esempio un gioco che ti posso suggerire l'ho chiamato incontro casuale. Serve un tavolo, un padre e un figlio. Ci si mette uno di fronte all'altro e si dice “Oh, ma ciao, eccoti qua!” e il bambino risponde qualcosa, il mio dice per esempio “Ehi, cosa fai da queste parti?” Si parla un po' a caso e a un certo punto dici “Si è fatto tardi, devo andare”, “Hai ragione, anch'io ho un appuntamento”, “Allora io vado di qua”, “Io vado di là”, “Ciao allora, stammi bene”, “Ciao, alla prossima.” Si gira intorno al tavolo, ci si incontra di nuovo e parte una nuova scenetta.

Per rendere più complesso il gioco si possono inserire citazioni da libri o da film. Per esempio di punti in bianco io grido “Sono dappertutto!” e lui replica “Escono dalle fottute pareti!”, poi si torna al tono di voce normale “Adesso devo proprio andare”, “ È stato bello vederti, un giorno di questi dobbiamo organizzare qualcosa.” A volte il bambino passa sotto le gambe del padre e al posto di fare dietro front ci si allontana di spalle.

Una delle cose più belle è anche far finta di non capire qualcosa e farsela spiegare dal bambino. Il mio ha imparato ad approfittarne e si inventa le cose e io faccio finta di crederci sollevando obiezioni solo quando riscontro evidenti contraddizioni o illogicità troppo appariscente.

Sono tutte cose semplici quelle che ti danno maggiore soddisfazione. Uno magari pensa che si debba essere orgogliosi perché il figlio vince qualcosa, perché è più forte degli altri, perché può vantare un padre migliore degli altri padri. A me le cose che piacciono di più sono piccole, come stamattina che all'asilo sono arrivati i suoi amichetti e l'hanno portato via per giocare con lui. Di solito non si stacca da me se non arriva la maestra a prenderlo per mano, oggi no. Oggi sono arrivati dei bambini e l'hanno afferrato e l'hanno trascinato quasi di peso verso la zona giocattoli. Non mi ha neanche salutato, non si è nemmeno voltato a guardarmi andare via.

A me piacciono queste cose, tipo il padre uscì di scena come in quei film in cui tutta l'azione è da una parte e c'è questa figura umana che, da sola, si allontana, indecisa se sorridere, fischiettare, rimuginare, chiudersi nelle spalle, saltellare. Non c'è il regista a dirti cosa devi fare, non c'è scritto sulla sceneggiatura qualcosa di più preciso, c'è solo 'exit', e tu prendila come ti pare, ma devi uscire. Puoi pensare a cosa ricorderai tu di tutto questo e cosa ricorderà lui, che differenza di sentimenti ci può essere fra le persone quando, da posizioni molto distanti, si pongono di fronte a ricordi in comune. Oppure no, puoi anche non pensare a niente.

lunedì 3 maggio 2010

Body Art. [1 di n]


Interno, ascensore - Musica di arpa in sottofondo. Tracy, voltata di schiena, si guarda nella parete a specchi, sistemandosi il trucco. Accanto a lei alcune persone immobili guardano verso l'alto. Tracy si immobilizza osservando nello specchio che gli altri presenti si stanno sciogliendo come pupazzi di cera. Un PING segnala l'arrivo al piano.

V.F.C. (melliflua, asessuata, senza accenti): Sesto piano, Body Art, Friedkson and Marvin, Hoky Logistic.

Interno, giorno, corridoio - Voci che si sovrappongono, telefoni che suonano. Si apre la porta dell'ascensore.

Interno, giorno, ufficio - Darla, una tazza di caffè in mano, si volta per guardare l'ascensore attraverso la vetrata a giorno dell'ufficio senza smettere di parlare in cuffia.

DARLA: Certo, è tutto compreso, anche l'assicurazione.

Interno, giorno, corridoio - Tracy esce per ultima dall'ascensore. Si muove con andatura ondeggiante, seduttiva, lanciando sguardi provocanti. Si blocca.

Interno, giorno, ufficio - Darla sorride ma c'è un'altra faccia che tenta di emergere come un'ombra. Una faccia dall'espressione malvagia.

Interno, giorno, corridoio, sede della BODY ART - Tracy sorride e fa un cenno con la mano. ZOOM sul suo occhio destro.

Interno, notte, buio scantinato - Darla (primo piano) impugna due elettrodi, uno per mano. Sul suo volto c'è l'espressione ombra e sta ridendo come una pazza.

Interno, notte, buio scantinato – Tracy (primo piano) sorride e fa un cenno con la mano.

Interno, giorno, corridoio, sede della BODY ART – Tracy deve addossarsi al muro per permettere il passaggio di una barella coperta da un lenzuolo da cui sporgono i piedi di un cadavere. Un uomo incravattato agita dei fogli e grida rivolto agli inservienti che stanno spingendo la barella.

UOMO: Non mi interessa se è la prima volta, non sapete leggere? Entrata secondaria! C'è scritto in grandi lettere sottolineate!

(spezzone in bianco e nero rovinato dal tempo in cui si vede una mano tremante che sottolinea le parole in questione)

La barella urta uno spigolo della T di BODY ART, scritta in lettere giganti attaccate sotto il bancone della reception, e il biglietto appeso all'alluce del cadavere cade a terra, fra i piedi di Tracy, che lo raccoglie e rimane col biglietto in mano mentre barella uomo e inservienti si allontanano.

Interno, giorno, ufficio – Darla si toglie le cuffie e tiene la tazza con due mani osservando la scena. Tracy apre la porta, entra in ufficio.

DARLA: Allora?

Sul volto di Darla riappare per un istante l'ombra malvagia. Tracy evita di guardarla, appende l'impermeabile all'attaccapanni, appoggia la borsa su una sedia e va a sedersi alla sua scrivania, di fronte a quella di Darla.

DARLA: Allora?
TRACY: Allora cosa?
DARLA: Come si chiama?
TRACY: Chi?
DARLA: Ti ho vista raccogliere il cartellino.
TRACY: Che buffo, vero? Un cartellino molto simile a quello che usano per le nuove confezioni di profumo di Glenny Worcher, a proposito, l'hai già provato? Quando si dice serendipity, ieri passavo dal Ritemayer, sai quello vicino alla sesta, e le hostess vicino alla scala mobile del terzo piano stavano promuovendo proprio quel profumo, riesci a crederci?

Tracy si infila la cuffia microfonata, appoggia il cartellino sulla scrivania, accende il monitor, accavalla le gambe.

DARLA: Come si chiama?
TRACY (rovesciando indietro la testa, a occhi chiusi): Quanto vorrei una sigaretta.

Darla si alza e afferra il cartellino (ombra malvagia).

DARLA: Randall L. Flickering.

TRACY (SUONO dal computer, Tracy schiaccia un bottone): Body Art, come posso soddisfarla?

Darla torna al suo posto, annusa il cartellino.

(spezzone in bianco e nero rovinato dal tempo in cui si vede un cucciolo di cane che annusa il dorso di una mano, ha un brivido e si accuccia)

Darla attacca il cartellino alla sua lampada da tavolo, si rimette le cuffie, fissa Tracy aspettando che termini la conversazione.

TRACY: No, mi dispiace. La nuova legge ci impedisce di lavorare con soggetti minorenni, a meno che la causa di morte sia un evento accidentale.

Darla fa dondolare col dito il cartellino.

TRACY: Le passo l'ufficio legale, ma non credo che il suicidio sia considerabile accidentale. Può impugnare il referto autoptico ma ci vorrà del tempo e, si sa, il tempo corrompe, come dire, ha capito? Attenda in linea prego, le passo l'interno.

DARLA (sorseggiando caffè): Dove finirà questo Randall? Ti chiedi mai cose come questa? Decorerà una fontana? Verrà usato per esporre cartelloni in metropolitana?

TRACY: spero comunque qualcosa di legale. Non come quei due, non farmici pensare, non rimetterò mai più piede in quel club, non hai idea, guarda.

DARLA: Di cosa? Quale club? Hai sporto denuncia o sono ancora là?

TRACY: Vorrei che tu non fossi così morbosa, davvero, è stato orripilante.

La telecamera ZOOM su cartellino che ondeggia, quando torna indietro il cartellino è appeso all'ombrellino di pizzo di Darla.

Esterno, giorno, giardino – Darla e Tracy, vestite come dame dell'ottocento, passeggiano in un roseto.

DARLA: … e trovo così assurde certe pretese.
TRACY: Certo cara, direi oltraggiose, al di là dell'offensivo.
DARLA: io ho il mio giardino di cui occuparmi, non posso certo sprecare in mio tempo in faccende comuni.
TRACY: No di certo, tesoro, se non ha abbastanza soldi da incrementare la servitù, che faccia da sé quello che vuole sia fatto da altri.
DARLA: Guarda questa rosa, sai quanti incroci ho dovuto fare per ottenere questa tonalità di amaranto?
TRACY: Semplicemente meravigliosa.
DARLA: Non ho mai nascosto una passione che nutro fin dall'infanzia, non mi si può certo rimproverare qualcosa.
TRACY: Certo che no, come ti viene in mente?
DARLA: Un giorno sarò famosa, il mio nome sarà ricordato come quello di chi...

SUONO dal computer.

Interno, giorno, ufficio – La mano di Darla schiaccia un bottone.

DARLA: Body Art, come posso soddisfarla?

Tracy prende la borsa e ci rovista dentro.

TRACY (voce fuori campo): Fermenti lattici, costume per la seduta di yoga del giovedì, copriborse per gli occhi all'estratto di teina con nanogranuli di collagene tonalità carne numero dodici e applicatore a sfera, spilla umorale Gracel Romson lavorata a mano, oggi meglio di no, potrebbe diventare verde e segnalare a tutti che ho dormito poco, ma dove sarà finito il lucidalabbra?

DARLA: Resistono nell'acqua ma non può dotarli di alcun tipo di meccanismo elettrico

(spezzone in bianco e nero rovinato dal tempo in cui si vede un bambino di pochi mesi che nuota fra pesci tropicali, in un acquario)

TRACY (si ritocca lo smalto): Dici che dovrei denunciarle?

DARLA: Le invio subito una brochure via email, per qualsiasi domanda non esiti a richiamarci. (preme un bottone) Erano più di una?

TRACY: Essì, un uomo e una donna, e so anche chi sono.

DARLA (ombra malvagia): Te lo stai inventando.

TRACY: No davvero, al Cotton Brest, giù al village, hai presente? Nei bagni.

DARLA: Hai scattato qualche foto? Dimmi di sì.

Interno, club notturno – un uomo di schiena asconde dalla vista dello spettatore i genitali di un corpo maschile appeso alla parete con mani e piedi a contatto con le piastrelle, come incollato. L'uomo sta facendo qualcosa al copro appeso, si sente un rumore liquido. L'uomo ride e continua a fare quella cosa ignota che produce rumore liquido.

UOMO: Sapone! Sapone! Voglio più sapone!

L'uomo si gira verso il lavandino. Primo piano delle mani piene di sapone, che diventa schiuma quando lo bagna e inizia a lavarsi le mani. Le sciacqua e vediamo l'uomo di schiena che stavolta copre i genitali di un corpo femminile, anch'esso appeso come il precedente. L'uomo fa qualcosa e si sente il rumore di aria calda di un asciugamani elettrico. L'uomo alza la mano destra e fa qualcosa sul petto del corpo femminile.

UOMO: Più calda! La voglio più calda! Ecco, così va bene.

Esterno, giorno, giardino – Darla e Tracy, sedute a un tavolino di ferro battuto, hanno di fronte un servizio da tè. Tracy assaggia un biscottino.

DARLA: Non ha usato queste parole ma il senso era quello.
TRACY: Te lo sento dire ma non riesco a farmelo entrare in testa, è una richiesta così assurda.
DARLA: Sono miei, giusto? Devo usarli per comprare fertilizzanti, nuovi semi, non posso certo andare incontro alle sue esigenze finanziarie solo perché ho fatto l'errore di sposarlo.
TRACY: Se fossi in te non mi porrei nemmeno il problema. Chiunque gli darebbe torto, anche chi non abbia la minima idea di come funzionino le cose in un matrimonio.
DARLA: Hai assaggiato quelli allo zenzero? Li trovo squisiti.

Interno, giorno, ufficio – Darla ha trascinato la sedia per stare più vicina alla collega. Stanno bisbigliando per commentare le immagini che scorrono sul telefonino di Tracy.

TRACY: Vedi, si vede il segno dietro il tallone, dove il codice a barre è stato come...
DARLA: Strappato via?
TRACY: No, no, hanno usato degli attrezzi per modificarlo. Sei cieca? Se l'avessero strapapto via si vedrebbe l'osso, sai quanto è profondo il tatuaggio?
DARLA: Beh, comunque è illegale.
TRACY: Altroché, quell'uomo è pazzo.
DARLA: Ma come fai a sapere che la donna stava con lui e lo tradiva con quell'altro?

(spezzone in bianco e nero rovinato dal tempo in cui si vede la barella coperta da un lenzuolo, in primo piano il cartellino sull'alluce con scritto Randall L. Flickering, in sottofondo gemiti e sospiri tipici di un accoppiamento, il cadavere si mette seduto, cade il lenzuolo che gli ricopriva la faccia e si vede Randall che guarda di fronte a sé, quindi abbassa lo sguardo sulle proprie mani e, schifato, cerca di pulirle sul lezuolo).