venerdì 18 dicembre 2009

The last word



The last word, un film che in Italia non è arrivato, parla dell'antagonismo fra vita e scrittura.

Il protagonista, Bentley, nel suo tormentato percorso esistenziale trova appiglio di sopravvivenza nella sua passione per la scrittura. Non cerca successo, scrivere è per lui solo un espediente per sbarcare il lunario. Scrive per gli altri nel vero senso della parola, scrive su commissione e cede tutti i diritti del prodotto all'acquirente.

Non ha amici, non ha relazioni sociali, non ha parenti. Quando una donna entra di prepotenza nella sua vita viene sconvolto il delicato equilibrio di chi per molto tempo si è adeguato alla solitudine e si trova di colpo a dover affrontare la necessità di estroversione, coraggio e fiducia negli altri che uno stile di vita considerato più normale comporta.

Bentley ha iniziato scrivendo composizioni da leggere in pubblico nelle occasioni speciali: compleanni, matrimoni, bar mitzvah, e si è specializzato in discorsi funebri. Scrive per chi vuole lasciare un testo che lo rappresenti, da leggersi al proprio funerale. Per poter scrivere le ultime parole del cliente, Bentley lo frequenta, lo indaga, gli prende le misure proprio come farebbe un becchino per costruire la bara. È così professionale da partecipare al funerale per registrare le reazioni dei presenti e potersi formare un giudizio sulla qualità del lavoro eseguito. È bravo, una sua composizione ha fatto vincere un premio a uno dei suoi clienti e ciò non ha incrinato la sua professionalità, è rimasto nell'anonimato lasciando che il cliente mantenesse la paternità del testo.

Trovo che l'idea di fondo sia geniale ma il film si preoccupa di spiegare la metamorfosi causata dall'amore più che sottolineare la grandezza poetica del protagonista. Avrei preferito una scelta più intellettuale, immune al richiamo degli archetipi romantici così spesso utilizzati per dare uno smalto educativo alle pellicole. Il ritorno alla normalità dell'artista può essere visto come il trionfo dell'amore, panacea ai malesseri interiori, ma in questo caso sembra piuttosto l'assimilare l'arte a una disfunzione dell'organismo che impedisce all'uomo di sbocciare alla comprensione, di entrare nella realtà. Come se il senso dell'arte fosse quello di supplire a esigenze ancora inesplorate, un espediente per emettere gridi di aiuto impliciti e sublimati.

La donna che incontra è Ryder, la sorella di un cliente che lo abborda proprio durante il funerale. Deve mentire sui motivi che lo hanno spinto a presenziare alla cerimonia e questa bugia mina le fondamenta del rapporto sentimentale che verrà a crearsi. La rottura di questa relazione segnerà anche la rottura con lo scrivere e Bentley diventerà una persona “normale”. Avrei preferito che Bentley fosse rimasto una persona atipica, schiavo del suo modo di essere, della sua musa. Ma non riesco a dire quale dei due finali sarebbe il più aderente alla realtà perché in fondo i riti di passaggio molto spesso sono scelte obbligate e di solito non conducono a percorsi in salita senza chiedere un pedaggio molto oneroso in termini di benessere spirituale.


martedì 15 dicembre 2009

Regole.



C'era una volta un bambino che non seguiva le istruzioni. Tutti pensavano che non fosse capace di fare le cose come andavano fatte e provavano pena per lui.

“Poveretto”, dicevano i suoi amici, “Lennie non sa giocare secondo le regole.”

Così non lo invitavano a giocare e lo lasciavano da solo a guardare. Gli dicevano “Mettiti qui seduto e guarda, Lennie, così impari cosa si può fare e cosa no.”

Bisogna dire che lui ci provava a memorizzare le regole, anzi, se gliele chiedevi lui te le diceva, le elencava perfettamente, citando anche le regole più piccole e nascoste del gioco. Però quando era il momento di far seguire i fatti alle parole ecco che Lennie si metteva a fare di testa sua e reinventava i giochi.

Per esempio si stava giocando tutti insieme alle costruzioni, un modello difficile, pieno di ingranaggi e perni e levette delicate. Avevamo steso per terra il foglio con le istruzioni, che andavano dalla numero uno alla numero dieci. Avevamo messo bene in ordine i pezzi, così da averli pronti quando era il momento di usarli. Dopo un po' non scopriamo che Lennie stava costruendo tutta un'altra cosa? Diversa, con delle ruote attaccate in posti strani, con un insieme di pezzi che sembravano guardarti e sorridere.

“Non si fa così!”, ha gridato Marco, “Lennie, tu sei strano!”, ha aggiunto. Poi gli ha strappato i pezzi di mano e li ha rimessi in ordine per terra, davanti al foglio con le istruzioni. Lennie ha chiesto scusa e si è messo a guardare come facevamo noi, senza più toccare neanche un pezzo, mentre noi gli spiegavamo a parole le varie fasi, così la prossima volta avrebbe potuto giocare anche lui. A un certo punto si è alzato e si è messo a disegnare.

“Vieni qua, Lennie, altrimenti non capirai mai come si fa a seguire le istruzioni!”, l'ha sgridato Marco.

“No, andate avanti a lavorare senza di me.”

Abbiamo riso di lui ma quando sono tornato a casa mi sono tornate in mente le sue parole, aveva detto lavorare, non giocare. Ci ho pensato molto quella sera, ci stavo ancora pensando quando mi sono addormentato. Forse però avevo trovato una soluzione.

Il giorno dopo ho raccontato a Marco la mia idea e lui ha voluto scommettere contro di me che non avrebbe funzionato. Ho accettato la scommessa: due biglie di marmo e un ghiacciolo. Ho chiamato Lennie e gli ho detto “Oggi giochiamo a lavorare, ci stai?” Lui è rimasto un po' stupito, di solito deve insistere prima che gli permettiamo di giocare con noi, però ha detto sì.

Abbiamo tirato fuori di nuovo le costruzioni e stavolta Lennie seguiva le istruzioni! “Stai lavorando molto bene”, ho detto, e subito Marco mi ha riso in faccia. “Solo un tipo strano come Lennie può credere che questo sia un lavoro.” Al che tutti quanti si sono messi a protestare.

“Se è un lavoro allora io non gioco più!”, ha detto Dario.

“Ci devono dare dei soldi, altrimenti non è un lavoro!”, ha detto Fabio.

Non sapevo come reagire. Avevano ragione, in un certo senso, ma anche Lennie aveva ragione secondo me, perché se non puoi fare come vuoi allora devi fare come vuole qualcun altro e in pratica stai lavorando per lui. Ma come si fa a giocare senza regole, qualche regola ci deve pur essere.
“Lennie”, ho detto, “Come fai a giocare senza le istruzioni?”

“Le invento”, mi ha risposto.

“Ma non puoi!”, ha detto Marco.

“Qualcuno le deve pur inventare”, ha risposto Lennie, “Non vengono fuori da sole, le regole.”

Da quel giorno non dobbiamo soltanto scegliere a cosa giocare, ma anche se dare retta alle istruzioni o inventarcele. Marco e Lennie alla fine sono diventati ottimi amici e a volte discutono per ore sul perché una certa regola va bene oppure no.

E io ho vinto due biglie di marmo e un ghiacciolo.

lunedì 14 dicembre 2009

↑x8 (7\n)



L'altro giorno è esploso un condensatore, è stato come un colpo di tosse elettronico e l'alimentatore ha smesso di alimentare. L'ho aperto e c'era questo cilindretto di plastica con il coperchio aperto come un fiore, tre petali di alluminio annerito, e si vedeva qualcosa dentro, nel buio, della roba densa. Ho guardato per un po', aspettandomi che qualcosa si muovesse lì dentro, che ne uscisse qualcosa, ho battuto col la punta di una matita sui bordi del cilindretto e ho sentito l'impulso di chiudere il coperchio e uscire di casa.

Il sabato c'è molta gente in giro. Questo in particolare era la vigilia di Santa Lucia e c'era Santa Lucia, in centro, su un carretto trainato da un pony color panna, vestita di azzurro. Mi è sembrata infreddolita, mi è sembrata scocciata. Mi è venuto da chiederle se potevo fare qualcosa per lei, scacciare i passanti armati di macchinette digitali, recuperare una bevanda calda. Santa Lucia aveva un cestino pieno di caramelle accanto a sé, distribuiva manciate di caramelle, mi è sembrata a disagio. Ho pensato alla ricca siracusana che ha rifiutato il matrimonio e ha speso la sua dote per sfamare, lanterna in mano, sconosciuti rintanati nelle catacombe. Pare che fosse riuscita a diventare così pesante che nessuno riuscì a sollevarla da terra quando vennero a prenderla per giustiziarla. Neanche usando un tiro di buoi riuscirono a smuoverla. Cosa si prova, mi sono chiesto, a diventare così pesante. Se capitasse a me, come reagirei? Mi sentirei così sicuro da incitare i buoi o sarei sbalordito io stesso o ancora avrei paura? Se l'effetto cessa di colpo verrò proiettato in avanti come un ciottolo scagliato da una fionda, probabilmente è questo che penserei, vincolato alla fede cieca nelle leggi della fisica. Santa Lucia si sforzava di resistere alla forza esercitata dai buoi o non la percepiva nemmeno? Mi immagino questa Santa Lucia, questa sul carretto trainato dal pony, che d'un tratto diventa inamovibile. La gente come reagirebbe? Lei come reagirebbe? Arriverebbero i giornalisti? Allungo la mano per ricevere anch'io delle caramelle ma Santa Lucia me la stringe, imbarazzata, come se ci stessimo presentando, e io per un momento mi sento pesante, inamovibile, e penso che essere Santa Lucia sia una cosa da evitare.

Più avanti c'è l'uomo bruco. Ha quattro guanti bianchi e quattro scarpe blu. Sponsorizza un conto bancario da regalare per Natale. Invita i bambini a sedersi lì vicino, dove un signore anziano produce caricature a pennarello. L'uomo bruco non parla, fa carezze sulla testa dei bambini – quelli che non hanno paura anche solo di avvicinarlo – con una delle due mani destre. I piedi supplementari dondolano mollemente, attaccati sotto la coda che struscia per terra, raccogliendo sporcizia. La testa è rotonda, con tanto di antenne e occhi enormi. Vorrei che l'uomo anziano, col cappotto, il baschetto e le gambe accavallate mi facesse una caricatura, vorrei una carezza dall'uomo bruco. Vorrei dirgli qualcosa, come se fossimo amici, vorrei dirgli sai amico stamattina è esploso un condensatore. E lui mi chiederebbe i particolari, vorrebbe sapere tutto, cercherebbe di farmi descrivere l'odore che ha fatto quando ha condensato superando i suoi limiti fisici, cercando di diventare pesante, forse, e questo lo direbbe l'uomo bruco, direbbe succede quando i condensatori cercano di diventare pesanti, e io gli darei del genio, lo inviterei a bere un caffè perché sono molto curioso di sapere come la pensa su molte cose, e tirerei fuori di tasca l'elenco delle cose di cui parlo, la lista apparsa per miracolo nella mia tasca sul retro della caricatura che non mi faranno, assieme a qualche caramella.

Mi fermo, fingo di guardare il disegnatore che muove il pennarello. Voglio assistere all'evento: l'uomo bruco incontra Santa Lucia. Il pony emetterà dei versi quasi umani, sembrerà chiamare la mamma, i testimoni giureranno in seguito che il pony chiamava la mamma. Santa Lucia si scaglierà dal carretto come lanciata da una catapulta addosso all'uomo bruco e, in un groviglio di corpi, Santa Lucia strapperà un'antenna dalla testa rotonda dell'uomo bruco, il quale userà quattro mani e quattro piedi per toglierle di dosso l'azzurro. I passanti continueranno a scattare foto, vivendo l'esistenza attraverso l'obbiettivo, mentre io raccoglierei il pennarello del caricaturista stordito e mi metterei a fare schizzi su ogni superficie liscia a portata di mano.

venerdì 11 dicembre 2009

Formicolio.



Così, senza preavviso, lui prese coraggio e si voltò di scatto. Una mattina invernale come tante, la decadente struttura irrigidita dei rami spogli di un tiglio, nell'indecenza frattale di una giornata qualunque. Non tanto fredda, non tanto luminosa. Non tanto qualsiasi cosa, quella sensazione di mancanza pervasiva che ridimensiona e allontana le percezioni, spegne i sentimenti sul nascere e ti abbandona a te stesso. Allora batté i piedi e anche il rumore delle scarpe sull'asfalto gli suonò falsato, in ritardo, molle. Col passare del tempo, degli anni, anche battere i piedi aveva perso di efficacia nel rompere incantesimi. Non l'aveva mai confessato, il solo parlarne avrebbe compromesso l'essenza magica del gesto. Se pure avesse trovato il coraggio di esporsi al ridicolo, nessuno sarebbe stato disposto a credere nell'esistenza di George. Non sapeva quale fosse il suo vero nome, George era il nome con cui lo chiamava lui, il giorno in cui scoprì che poteva essere cacciato battendo i piedi per terra, uno per volta, come a scacciare un formicolio, riattivare la circolazione. Perché proprio quella era l'impressione che si riceveva quando George trovava un buco o solo un motivo per entrare, per venire a vedere, come sentisse l'odore di una persona temporaneamente vulnerabile e non perdesse l'occasione di approfittarne. Il mondo iniziava a formicolare come un piede sul quale si è rimasti troppo a tempo seduti. Diventava rigido, diventava pesante, si preparava al piacevole dolore di un risveglio nervoso. Quella mattina gli sembrava di sentirlo respirare dietro di sé e battere i piedi serviva solo a farlo respirare più piano, a farlo allontanare di un passo. Forse verrà il giorno, pensò, che non se ne andrà mai più, che batta i piedi o schiocchi le dita niente servirà a farlo svanire. Si incamminò guardando in terra, i cerchi neri di vecchie cicche da masticare buttate sul marciapiede fra le quali anche le sue, era in grado di riconoscerle, ad esempio quella vicino al tubo della grondaia di fianco al civico diciotto, gettata lì una sera di giugno trent'anni prima, un giorno che tutto gli era andato storto. Pisciate di cane, mozziconi di sigaretta. E George poco lontano, a seguirlo di soppiatto, nascondendosi dietro ripari di fortuna, come quel cestino dell'immondizia superato pochi passi prima. Immaginava il ghigno sul volto di George, i canini sporgenti, la peluria arruffata che sporgeva dal colletto aperto della camicia macchiata, e quel suo fastidioso, continuo annusare, arricciando il naso. Adesso mi giro, pensò, lo affronto, e succeda quel che deve succedere. Si sentiva così stanco. Avrebbe tanto voluto ricordare cosa fosse andato storto e come gettare una cicca per terra avesse potuto dargli conforto. Ma si rese conto di non esserne più capace. Eppure qualcosa sulla natura magica di certi sotterfugi gli era rimasta dentro, lo sapeva, non era tanto il gesto, quanto la predisposizione interiore, una forma di energia che George annusava così come si annusa una possibile fuga di gas, solo per accertarsi che il pericolo sia mero frutto di immaginazione e la paura ingiustificata.

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (19 di N)



Una delle cose che cambiano è che comincia a interessarti la società, il mondo in generale. Prima l'obiettivo era prendere, consumare: lo voglio usare tutto, anche la tua parte, e quello che avanza lo butto via perché mi devo vendicare di qualcosa che non so nemmeno io cos'è, forse il fatto di essere qua senza averlo chiesto, forse il fatto che sono arrabbiato e per dispetto lo rompo, solo perché me l'hai regalato e non è bello come mi aspettavo, forse perché lo fanno tutti e allora tanto vale, non rimarrà niente lo stesso. La filosofia del vincere solo perché qualcun altro perde, dell'essere i migliori solo perché c'è chi sta peggio, dell'andare a testa alta solo per distinguersi da chi non ne ha motivo, o magari non ne ha più voglia.

Pensavo questo ieri, mentre andavamo a comprare un regalo per mia moglie. Non c'è associazione tra cosa uno pensa e cosa sta facendo, almeno non nel mio caso. Qualcosa lavora in background e mi fa pensare quello che gli pare mentre io faccio altro, lo mette in un cassetto e quando vado a tirar fuori i calzini ce lo trovo dentro ed è come se mi ricordassi di averlo pensato. In realtà il programma a pieno schermo pensava a Babbo Natale e a non mollare la mano di mio figlio. Mollare la mano di un figlio in certe situazioni può provocare danni al cuore. Prima nei miei incubi poteva capitare di cadere nel vuoto, di venire ferito a morte da una persona che nella vita reale non mi ha mai nemmeno guardato storto, di finire schiacciato da una macchina movimento terra impazzita, cose del genere, che riguardavano me, però, solo me. Potevo ritrovarmi a correre in preda al panico negli anfratti bui delle rovine di una cascina o nei saloni di un albergo che esistono solo nel mio immaginario onirico. Ma erano tutti eventi che implicavano me e nessun altro.

Adesso negli incubi a me non succede più niente. Anche quando, per sbaglio, sta per succedere qualcosa a me, ecco che mi guardo intorno per assicurarmi che mio figlio sia al sicuro. Da quando è nato a mio figlio è successo di tutto, nei miei incubi. È annegato, spappolato, schiacciato da un auto, rapito per strada, rapito al supermercato, preso in ostaggio, si è rotto la testa, si è spezzato una gamba, gli è venuta una malattia spaventosa. È solo un elenco parziale e qualche accidente orribile è capitato più volte. Mentre negli incubi prima mi bastava svegliarmi, ora non posso più, è una via di uscita che si è chiusa, devo restare nell'incubo e sistemare le cose, non puoi andartene da un incubo quando la cose brutte stanno capitando a tuo figlio, devi rimanere, rincorrere il cattivo, uccidere il nemico, riparare quel che si è rotto, intervenire in qualche modo, a qualsiasi costo.

Per cui stavamo entrando nel grande magazzino, gli tenevo la mano come la si tiene ai bambini, facendo attenzione che non ti mollino all'improvviso perché attirati da qualcosa, una luce, un cartello, qualsiasi cosa può attirare un bambino e spingerlo a staccarsi dalla tua mano in modo fulmineo e correre via gridando, ridendo, o anche in totale silenzio. Intanto una parte di me, in modo furtivo, rifletteva sul mondo come risorsa da usare con moderazione e alla società come simulazione di attività governate da istinti animali. Ma Babbo Natale era ciò che dominava la scena, incombendo sui miei processi cognitivi, grippando le mie facoltà di linguaggio.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Vorresti un taglio sulla pellicola. Qualcuno che stacca questo pezzo di pellicola e con un po' di scotch unisce il punto in cui non ti ha ancora fatto la domanda a quello in cui hai già risposto. Non voglio neanche sapere, pensi, cosa ha risposto il padre, mi basta che quel momento sia già passato. E invece non passa, diventa un infinito deja-vu che riecheggia ma al posto di perdere volume diventa assordante.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Finto? Into? NTO? TO? O? Controlli che la sua manina sia ancora nella tua. Verifichi che intorno a te la gente è la solita di sempre. Salta la luce di un lampione. Quando vengo messo in una situazione che reputo stressante al limite dell'autodistruzione capita a volte che fulmini le lampadine. Chiedete a mia moglie se non ci credete, ve lo confermerà. Non smetterà mai di chiedermelo fino a quando non otterrà una risposta. Non è un tono di sfida quello che ho sentito nella sua voce? Non è una specie di domanda trabocchetto per capire quando si possa fidare di me, una prova del nove sulla mia capacità di mentirgli volontariamente?

“Babbo Natale dici? Beh, dipende, in che senso?”

Quando non voglio rispondere una delle mie strategie è fingere che la domanda possa avere risposte multiple egualmente valide. A quattro anni non potrà certo competere con anni di esperienza in evasione retorica, ambivalenza dialettica, confusione premeditata.

“Papa, è finto?”

“Tu che ne pensi?”

“Sto dicendo, Papa, se Babbo Natale è finto!”

“Ah beh, tutto può essere.”

“Noi ce l'abbiamo il camino?”

“No, ma non è che ci deve essere per forza. Potrebbe passare attraverso i muri.”

“Papa.”

“Guarda! Ci sono delle cose, andiamo a comprare un regalo a mamma!”

“Papa.” Si è impuntato, non muoverà un altro passo se prima non otterrà ciò che vuole. Sospiro.

“Dimmi.”

“Babbo Natale è finto?”

“Sai, a qualcuno piace pensare che...”

Sorride.

“Sì, è finto.”

“Lo sapevo.” Sorride.

“Possiamo andare adesso?”

“Guarda papa! Cos'è quello? Vieni, corri!”

giovedì 3 dicembre 2009

↑x8 (6\n)

(Disclaimer: contiene linguaggio esplicito)

INT. CUCINA DI SASHA – SERA

Sasha, seduta al tavolo, sta usando il telefono che emette dei BEEP

Ronnie entra in cucina con un bicchiere di vino rosso in mano.

RONNIE
La devi smettere.

Sasha continua a digitare sul telefono
SASHA
Cosa?

Ronnie va a sedersi di fronte a Sasha.

RONNIE
La devi smettere di darmi addosso, di togliermi il fiato.

SASHA
Di cosa parli?

RONNIE
Continui a criticarmi, ogni cosa che dico e che faccio, non perdi occasione per dirmi che questo non fa ridere, quello è un discorso del cazzo, critichi perfino il modo in cui interagisco con mio figlio.

Sasha chiude il telefono e lo butta sul tavolo. Il telefono cade in terra dalla parte di Ronnie.

SASHA
Ma non è vero! Sei tu che non sopporti le critiche.

RONNIE
Non è questione di accettare le critiche. Le critiche te le fanno gente che nemmeno conosci, di cui non ti frega niente di quello che possono pensare di te, non si tratta di diritto di critica ma di sentire il bisogno di controllare gli altri, di interpretare una fottuta guida che ti vuole insegnare come si fa, come si vive.

Ronnie vuota il bicchiere in un sorso solo, si alza e va alla finestra a guardare fuori, nel buio.

SASHA
Tutti abbiamo bisogno di un riscontro, di qualcuno che ci dica, ogni tanto, guarda che stai sbagliando, chi ti credi di essere tu per poterne fare a meno, pensi che non sia sincera forse, che ti racconti delle palle solo per farti star male?

RONNIE
No, non per far stare male me, per stare bene tu. Forse non capisci che a volte uno ha bisogno di svegliarsi al mattino e dirsi: bene, oggi non devi migliorarmi, posso permettermi una pausa e ritenermi soddisfatto di me stesso, posso vivere una giornata serena comportandomi in modo naturale senza preoccuparmi di tutto quello che potrei sbagliare. In quei giorni si dovrebbe passare sopra a tutto, come se quella persona stesse per morire entro sera e meritasse un po' di comprensione, un attimo di respiro. Riesci a capirlo?

CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Si vede cosa sta guardando Ronnie dalla finestra. Un gatto che gioca correndo nelle ombre gettate dai faretti del giardino.

SASHA (fuori campo)
Ma non è giusto, mi stai chiedendo una specie di censura dei sentimenti, perché mai dovrei perdonarti e fingere di non avere reazioni di fronte a quelli che mi sembrano grossi errori da parte tua?

Il gatto si rotola nell'erba, alza la testa in ascolto di un rumore, quindi corre via.

RONNIE (fuori campo)
Perché? Perché? Perché non sei la depositaria del bene, cazzo, non sei la custode del giusto e dello sbagliato. Lo vuoi sapere, eh? Non me ne frega niente di cosa pensi di me. Sei l'unica che mi martella i coglioni per non farmi mai sentire all'altezza di niente, per farmi sempre sentire come se i traguardi fossero comunque troppo lontani per me. Ma io non ho traguardi, è mai possibile che ti sia inconcepibile l'idea di un'esistenza senza obiettivi?

BACK TO:
INT. CUCINA DI SASHA – CONTINUA

Sasha s'è alzata e sta raccogliendo il telefono.

SASHA
Ti esorto, ti sostengo, devi pur avere un punto di arrivo, una direzione. Non sai di averla, ma io so che ce l'hai, e quando ti vedo agire come un bambino, come se non ti importasse di sviluppare le tue capacità, di realizzarti come persona...

Ronnie smette di guardare dalla finestra e si volta verso Sasha.

RONNIE
Ecco il tuo problema: confondi spensieratezza, leggerezza d'animo, per insulto personale. Tu sei una persona che ha paura di morire, non è vero? Una paura immane che incombe come un'ombra maligna.

SASHA
Ma di che cazzo stai parlando? Lasciami finire il discorso! Sei infantile, sei...

RONNIE
Ecco che ricominci.

Ronnie si volta di nuovo verso la finestra.
Sasha si avvicina a Ronnie e si ferma alle sue spalle, a pochi centimetri da lui.

SASHA
Mi verrebbe da prenderti a pugni, lo vedi come ti comporti? Diventa uomo!

RONNIE
Vorresti picchiarmi? E poi, cos'altro? Vuoi farmi curare, mi vuoi far mettere delle sonde per trovare il virus che mi rende diverso da te per eliminarlo dal mio organismo? Io non sono te, sono me. Ti sto solo chiedendo di lasciarmi vivere.

Sasha lo colpisce a mano aperta sulla testa, gli dà una scarica di pugni nella schiena, non così forti da fargli male veramente, prima di lasciar cadere le braccia

SASHA
Quindi sarei io quella che ha qualcosa che non va? È questo che stai dicendo? Sei pazzo, lasciatelo dire. In bocca al lupo, tanti auguri, sei l'esempio vivente di come si spreca ciò che si ha.


CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Il giardino è vuoto, si sente il rumore della porta che si apre e viene chiusa sbattendola. Vediamo Sasha di schiena che si allontana sul vialetto d'ingresso.

CUT TO:
EST. GIARDINO – CONTINUA

Vediamo attraverso la finestra Ronnie dentro casa che se ne sta lì fermo e sentiamo i suoi pensieri.

RONNIE (fuori campo)
Per sprecarlo bisogna prima averlo, Sasha, bisogna prima trovarlo.

Grand Canyon




Scritto e diretto da Lawrence Kasdan, il regista de “Il grande freddo”, Grand Canyon racconta la difficoltà di scegliere il bene quando tutti intorno a te scelgono il male. E in fondo nemmeno lo scelgono, è come nuotare nell'oceano e incontrare un squalo, lui non ti odia, non ha niente di personale contro di te, così spiega la deriva presa dalla società uno dei protagonisti, il meccanico Simon, interpretato da Danny Glover.

Uno di questi squali è un produttore di film violenti al quale il destino offre l'opportunità di redimersi consegnandogli “una busta calibro 38”. Uno spostato gli spara nella gamba per rubargli l'orologio, la pallottola gli frantuma il femore, lasciandolo zoppo. L'evento lo spinge a interrogarsi su se stesso e quello che fa, spingendolo a pensare che sia sbagliato girare film violenti, che sarebbe meglio parlare della vita, divulgare un messaggio positivo.

Kevin Kline è Mack, un avvocato al quale hanno salvato la vita due volte. La prima quando una perfetta sconosciuta lo ha strattonato per la collottola, riportandolo sul marciapiede ed evitando che venisse travolto da un autobus. Quella volta non ha potuto esprimere riconoscenza quanto avrebbe voluto perché la donna, dopo averlo salvato, se n'è andata come se niente fosse. Mack è arrivato a ipotizzare che non fosse umana ma un essere soprannaturale inviato da una potenza trascendente. Per questo la seconda volta non ha permesso al suo salvatore, il meccanico Simon, di uscire subito dalla sua vita. Simon è intervenuto convincendo delinquenti di strada a desistere dall'esercitare quotidiana e per loro ormai banale violenza su Mack.

La storia parla del rapporto che nasce e si sviluppa fra questi due uomini, uno bianco e uno nero, nella cornice priva di valori di una moderna e decadente metropoli, nella perdurante e difficoltosa ricerca di una qualsiasi salvezza da parte di chi squalo rifiuta di diventare. La moglie di Mack, ad esempio, che trova una neonata buttata fra i cespugli come fosse spazzatura, che se ne innamora e vuole tenerla. “È una scelta razionale?”, chiede il produttore zoppo, “Nel senso che tu e Mack potete realizzarla insieme?” Il produttore che è tornato a produrre violenza, incapace di sfuggire alla sua natura fatta di cinismo, disprezzo e finzione. “Se è razionale mi chiedi? Sai cosa? Me ne frego.”

Infatti Mack capisce la propria pulsione a fare il bene nei confronti di Simon ma non quella di sua moglie nei confronti di una bambina abbandonata. Solo suo figlio, cresciuto in un ambiente sano e protetto, inconsapevole della realtà meschina e spietata che domina per le strade, riesce ad aprire uno spiraglio. “Immagina che tu volessi fare una cosa a cui tieni tantissimo, che non potrai mai più fare nella vita se non adesso, e la mamma ti dicesse che non puoi farla, come ti sentiresti?”

Simon, grazie a Mack, risolve molti problemi. Se fai del bene, quel bene ti ritorna moltiplicato, sembra essere la morale. Il difficile è mantenersi integri quando tutto intorno va in pezzi, senza la minima logica, il minimo senso. Simon ha una spiegazione, gli viene dal padre. “Aveva una faccia come una vecchia valigia gonfia, rugosa, macchiata, sembrava che ci avesse camminato sopra per ottant'anni. Ha perso due mogli e tra figli, e io mi sono sempre chiesto cosa lo spingesse a tenere duro, perché semplicemente non si sdraiasse da qualche parte dichiarandosi sconfitto. Così un giorno gli l'ho chiesto.” Anche Mack vuole conoscere la risposta. “Per abitudine.” Il bene come un abito che si indossa tutti i giorni, che diventa comodo man mano che il tempo passa, al punto che non lo si cambierebbe con qualcos'altro, anche se ci dicono che è molto meglio di quello che portiamo.

Nel finale andiamo via, usciamo dalla città, scopriamo che esistono altri posti, diversi da quello che ci sembrava un oceano pieni di squali. È solo una pozzanghera di sanguisughe di fronte al panorama che ci offre il gran canyon. “Mi sento come una zanzara sul culo di una vacca che rumina al bordo di una strada dove tutti corrono a 70 miglia orarie.” Il gran canyon come firma incisa nella terra dalla mano divina, lì a ricordarci che in fondo ci preoccupiamo troppo, scordando troppo spesso che siamo esseri insignificanti a paragone dell'immensità del tutto.

lunedì 30 novembre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (18 di N)

“Papa, posso fare una domanda?”
“No”
“Ti trasformo in... libellula, zaaap!”
...
“Posso fare una domanda, adesso?”
“Fammi finire il capitolo.”
“Ti trasformo in un eleeefaaante! Swishhh!”

“Posso fare una domanda adesso, perfavore?”
“E fammela.” Chiudo il libro.
“Arriva il Natale?”
“Manca un mese.”
“Ma arriva il Natale?”
“Sì, arriva.”
“Bene, cosa leggi papa?”
“Il ragazzo giusto, 1618 pagine corpo 8, se inizi a leggerlo in questa vita e lo finisci nella prossima.”
“In cosa ti trasformo papa?”
“In una statua, che legge.”
“Posso farti una domanda?”
“Dopo.”
“Leggi ad alta voce!”
“Dopo cena si trasferirono nell'Imambara per ascoltare Ustad Majeed Khan. Poiché mancava ancora qualche settimana al Moharram...”
“Basta! Basta, tocca a me.”
“Son fermo a questo paragrafo da un quarto d'ora.”
“Tocca a me”, prende il libro e fa scorrere il dito, da destra a sinistra, “Me ha dun fa gaga, sassosauro!, fada bu cari. Ecco, visto?”
“Sì, bravo, adesso dormi che papa finisce il capitolo.”
“Va bene, buonanotte papa.”
“Buonanotte.”
“Posso fare una domanda?”

Saluti da Andrea.




Non ci sono mai andato di persona ma chi ci è stato è tornato diverso, cambiato. Devi prendere aerei sempre più piccoli, poi una barca a motore, poi una barca a remi, poi una macchina, una moto, una bicicletta, un mulo. Poi a piedi, poi sui gomiti, poi crolli e quando ti svegli sei arrivato. Questo scrive il mio amico sulle cartoline che mi spedisce. Il posto è bellissimo, ci sono le palme e i pappagalli, i pappagalli forse, ma non è detto, li senti fischiare, a volte parlano, ma potrebbero essere nastri amplificati. Quando arrivi non ti è permesso guardare fra i rami, ci sono delle procedure. L'ingresso è decorato a motivi floreali e un ragazzo con maschera tribale ti chiede i bagagli. È una specie di scherzo, nessuno ha bagagli. Questo scrive il mio amico su cartoline tutte uguali, le uniche in vendita alla reception. Poi entri ti vai a sedere perché ti senti stanco, forse per il caldo, l'umidità, gli insetti invisibili che vivono negli angoli ciechi, e vedi dei libri sui tavolini del bar. Sono tavolini spartani, fatti di rami scortecciati e noci di cocco una sull'altra in fragile equilibrio. Pensi che sia un posto bellissimo, così pensi, pensi che le noci di cocco crolleranno da un momento all'altro. Afferri un libro dalle pagine consumate dall'uso, sporche di salsedine e sughi e guano, fai finta di leggere perché le parole sono scritte in una lingue inventata e comunque sei troppo occupato a pensare che sia un posto bellissimo. Questo scrive il mio amico e le sue cartoline hanno francobolli completamente bianchi. Non è un hotel come tutti gli altri, la spiaggia è troppo lunga, la giungla fitta di sentieri, non ci sono indicazioni, cartelli, solo una freccia, ogni tanto, e continuano a spostarla. Ti puoi sedere sulla sabbia, facendo attenzione ai paguri e agli anellidi fuori misura che esistono solo lì, così gialli e neri da sembrare velenosi. Il ragazzo tuttofare, quando si sente particolarmente in vena, se li mette sulla lingua, li fa girare in bocca e li sputa fuori, masticati, per la gioia degli ospiti. Anche se dopo un po' gli ospiti non li vedi più così spesso. Si sparpagliano nei bungalow. Pensi che siano tornati a casa, soggiorno terminato, anche se ogni tanto ti sembra di averne visto uno imboccare un sentiero, o entrare in mare quando è già venuto buio. Questo scrive il mio amico e la sua calligrafia cambia, cartolina dopo cartolina, diventa sottile. E come si mangia bene. Lumache, crostacei, pipistrelli, bocche iperdentute di pesci abissali. Salse, architetture vegetali per contorno, e acqua, acqua pura, a volontà. Le pietanze non sono fatte per essere mangiate, si capisce, servono solo per consentire le grandi bevute. C'è sempre questa sete in giro che ti insegue, ti tiene sveglio a sudare mentre, nudo, giaci sulle lenzuola fradice a riflettere. I pappagalli di notte tacciono, questo scrive il mio amico, non firma più le cartoline ultimamente. Dopo un po' il sole, tutta quella luce, ti cambia il colore degli occhi a furia di cercare nuvole in quel cielo bellissimo, pensi che sia tutto bellissimo, anche il cielo, ma soprattutto le nuvole. Le nuvole ogni tanto cadono, tutte intere, senza preavviso, vengono giù, si schiantano da qualche parte là in fondo, vicino all'orizzonte, o il giorno dopo trovi alghe putride e pesci morti sulla battigia. Hanno un buon odore, pensi, e tutto è bellissimo. Avere sete, ascoltare i pappagalli, resistere alla tentazione di imboccare un sentiero, uno qualunque, immaginando che porti a una cascata, a un lago, a una fabbrica di nuvole. Questo scrive il mio amico e l'inchiostro che usa da nero sta diventando azzurro. A un certo punto arriva la febbre, inizi a scottare, il ragazzo tuttofare dice che è normale, che non ti devi preoccupare, passerà. In effetti non è così male, sei solo più lento nei movimenti, vai soprappensiero con più facilità. Diventa anche più facile aspettare che venga sera, la schiena appoggiata al tronco di una palma, i pappagalli da qualche parte là in alto, felici, sembra che ridano. Quando non riesci ad alzarti qualcuno ti porta dell'acqua, ti accarezza la testa, ti lascia dove sei mentre sbucano le stelle, oh, le stelle, oh, così luminose, così silenziose. Questo scrive il mio amico, dopodiché le sue cartoline contengono solo disegnini e scarabocchi.

venerdì 27 novembre 2009

D. Gibbons è un uomo cattivo.

Le serie tv alcune sono belle. Ho iniziato tardi a guardarle perché sono vulnerabile alle dipendenze, ne sono consapevole, devo evitare il più possibile il contatto con attività e sostanze che possono stimolare la mia coazione a ripetere, in termini tecnici manie ossessive compulsive. Alla fine ho ceduto nel modo più semplice, per curiosità. Ce ne sono di brutte ma quelle poche che ho guardato a me son piaciute tutte, sarò io di bocca buona, può darsi. Ho iniziato con salva la cheerleader, heroes. Poi ho guardato tutte le puntate di Lost, in fila, alcune in lingua originale sottotitolate. Ho guardato alcune puntate di in treatment e le prime di fast forward.

Le serie tv hanno di bello che ne puoi parlare con gli amici, ci puoi litigare sopra perché nessuno sa ancora come andranno a finire. Ho finalmente capito perché le ragazze al liceo guardavano saranno famosi dallas e beatiful. Mi chiedevo come facessero a parlare per tutto quel tempo di una cosa vista alla tv. A quei tempi il motivo che mi teneva lontano dalle serie tv non era la paura di non riuscire a smettere, il motivo era cose da femmine, alcune cose erano di esclusiva pertinenza femminile e già mi immaginavo le ragazze del liceo nei panni della casalinga frustrata, molto prima della comparsa di disperate housewife. A un certo punto le serie tv si sono evolute, sono diventate anche per uomini. Il sospetto è che molte altre cose che erano solo per donne abbiano invaso l'universo maschile. Così adesso ci sono uomini, ci sono anch'io fra quelli, che parlano di cosa come quando perché di quel che succede nelle serie tv. Mia moglie ride, immagino che come lei riderebbero anche le ragazze che prendevo in giro al liceo chiedendo “Come sta il mascellone?”, c'era un tizio a quei tempi in tv che aveva una mascella grossa come il paracarro di un camion, le ragazze lo trovavano sexy, quel tizio, e io ogni tanto mi sono interrogato sulla mia mascella, allo specchio, chiedendomi se fosse adeguata agli standard moderni. Tanto tempo fa i ragazzi più coraggiosi le guardavano solo per attaccare discorso con le ragazze, oggi ci sono serie tv con sparatorie, misteri della fisica, superpoteri. Non sono più come x-files, ogni puntata una storia completa. Adesso non sappiamo neppure se la serie stessa finirà mai. Moriremo senza conoscere l'epilogo, e questo è poetico, c'ha dei risvolti filosofici. Non posso entrare nei dettagli, di queste cose parlo solo con chi ha visto quello che ho visto io, se non hai mai guardato le serie tv non capiresti.

Le serie tv ogni episodio finisce con un colpo di scena. Sembra fatto apposta, aspetti da una settimana di scoprire il significato del colpo di scena precedente. Vivi in perenne attesa di una risposta, e quando la ottieni eccoti un'altra domanda, più grande, e anche questo è poetico. Per esempio sparano nella pancia di una donna che ha visto nel futuro se stessa incinta. Non sono il solo a considerare quella scena un capolavoro. La donna col proiettile in pancia giace in terra, per strada, col sangue che le sporca la camicia, e pensa a se stessa incinta nel futuro mentre la sveglia. La sua amica, che è la sua amante, la donna è lesbica e anche questo entra in conflitto con la visione del futuro, la sua amica le ha regalato una sveglia robot che si muove su ruote e dice svegliati è ora ripete è ora svegliati. Da tutt'altra parte sta accadendo una sparatoria nel parcheggio sotterraneo sulle note di like a rolling stone di Bob Dylan. Le due situazioni si sovrappongono. Una sparatoria infinita con il rumore degli spari che si mischia alla musica e ogni tanto lasciamo che vadano avanti a spararsi addosso e l'attenzione torna alla donna in terra, sdraiata scomposta sull'asfalto nella luce arancio dei lampioni, la sveglia uscita dalla borsa che si è attivata e corre in cerchi caotici gridando è ora svegliati con voce metallica, svegliati è ora, le ruote che si sporcano di sangue e disegnano curve al roteare della sveglia, la donna che guarda nel vuoto e piange senza fare smorfie, in estasi, forse per il dolore, forse perché vede se stessa incinta, nel futuro, poi torniamo alla sparatoria e c'è fuoco, c'è violenza, e tutto questo va avanti per parecchi minuti, e vorresti che il tempo rallentasse fino a fermarsi perché ogni cosa è compiuta, non c'è bisogno di aggiungere altro, tutto ciò che verrà in seguito servirà solo a farci rimpiangere l'epifania.

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mercoledì 25 novembre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (16 di N)

Quando c'hai un figlio Natale diventa un tormentone. Vuole che arrivi subito. L'anno scorso non sapeva nemmeno cosa fosse. Non che adesso ne sappia molto di più, anche se le suore all'asilo gli fanno il lavaggio del cervello con preghiere, canzoni religiose, racconti su Gesù. Che poi torna a casa e nei momenti più improbabili dice “Grazie Signore” oppure per strada “Guarda papa, c'è Gesù” che ti vien voglia di insegnarli una bestemmia, per bilanciare. Ieri gli ho detto quando vai all'asilo domani corri dalla suora e leccale la faccia. Perché lo mandi all'asilo dalle suore, potrebbe chiedermi qualcuno. Non ho niente contro la religione, anzi, la trovo interessante, essenziale, solo trovo stupido tentare di insegnare ai bambini concetti profondi già difficili da capire dopo quarant'anni di interrogativi e approfondimenti. Trasformare in un gioco partorire in una stalla, metterci pastori che suonano la cornamusa e studiosi arrivati da lontano per allungare doni preziosi. Da una parte non gli devi far vedere superman che vola perché si potrebbe buttare dalla finestra per imitarlo, dall'altra gli mostri Gesù che cammina sull'acqua. Mi sembra di mettere nelle loro mani un bisturi e lasciargli operare il loro stesso cervello, per gioco. Comunque male non gli può fare, al massimo grida è morto! è morto! quando mi trova addormentato sul divano e poi è risorto! quando salto in piedi spaventato. L'unico rischio è che da grande riponga il tutto dove finiranno i giochi dell'infanzia, è questo che vorrei dire alla suora capo, quella che mi sembra il capo, mi viene da dirgli sono solo bambini, li vede?, finiranno per detestare o quanto meno ridicolizzare insegnamenti ridotti a semplice e monotona liturgia, ma poi la osservo e trovo che sia così fragile, come in costante equilibrio con un piede su qualcosa di piccolo e duro che le provoca dolore sotto il tallone. Mi viene da volerle bene. Allora desisto, mi dico lasciala fare, ne ha bisogno più lei che i bambini. Tanti padri nutrono l'illusione di poter far vivere i figli in un ambiente del tutto controllato, sigillato, io non sono uno di quelli. Che impari le preghiere, che intoni canti di lode al Signore, sempre meglio che prendere a calci i cani e sputare per terra. Ma ho divagato, il Natale, dicevo, il Natale quando c'hai un figlio si divide in Babbo Natale e Gesù bambino. Ci sarebbe anche Santa Lucia e la befana, ma lasciamo stare, finché non me le nomina lui io faccio finta che non esistano. Come decidi chi porta i regali? Babbo Natale o Gesù bambino? Entrambi? Insieme o separati? Ci sto pensando, per il momento ho stabilito che Babbo Natale è un alieno – a lui piacciono gli alieni, i robot e i dinosauri, e ciò mi rassicura sulla presenza in mio figlio di anticorpi intellettivi – e Gesù bambino scende dall'astronave alla guida di un dinosauro robot che si nutre di palle dell'albero di Natale. Arrivano qua a far scorta di palle e se non le trovano mettono tutto in disordine, Babbo Natale sputa fuoco, Gesù Bambino strilla e fa i dispetti, insomma scoppia un gran casino se non trovano le palle sull'albero di Natale. Non dirlo alla suora però, aggiungo, perché lei non lo sa e potrebbe diventare triste se lo scoprisse, sai, ormai è vecchia, non possiamo farle perdere l'equilibrio, quando sei vecchio se cadi ti fai male. Però puoi sempre correre da lei e leccarle la faccia se ti va.

La mia Testa era bionda.




Adesso c'è questa nuova moda della Testa, tutti mi chiedono se mi è già arrivata, di che colore ha i capelli. È il computer che sceglie per te, mi fa sapere la lettera del ministero, studia la tomografia assiale del tuo cervello e stabilisce non so che parametri, usa chissà quali algoritmi scritti da altri computer collegati ad altri computer ancora e giù a cascata fino a quando risulta impossibile capire da dove venga fuori la Testa fatta e finita, che ti arriva per posta e ti chiama per nome mentre è ancora chiusa nella scatola.

Vincenzo, il mio vicino, la chiama 'la mia amica speciale', e ogni mattina in ascensore mi chiede se ho ricevuto la mia amica speciale. Rispondo sempre di no, che non ancora, e sudo freddo. Un giorno scopriranno che fine ho fatto fare alla mia Testa e allora che accadrà, non lo so. Non hanno ancora inventato una punizione, non credo sia nemmeno considerato un reato, per adesso, non ancora, ma non conosco nessuno che non sia entusiasta della Testa, della sua nuova amica speciale, per cui immagino che sarò considerato un mostro, o come minimo un delinquente, quando scopriranno cosa ho fatto.

In realtà la mia Testa è arrivata il mese scorso. Ricordo che parlava, parlava, e parlava, non stava mai zitta. 'Assumi uno stile di vita!', mi diceva, 'Scopri le tue potenzialità'. Aveva sempre qualcosa da suggerirmi, da consigliarmi, arrivando a minacciarmi. Come se davvero fosse convinta che le sue minacce potessero avere un qualche effetto. 'Sei solo una Testa', mi piaceva ricordarle, e lei si arrabbiava, si immalinconiva, assumeva espressioni maligne, iniziava a dire cattiverie.

Ho chiesto a Vincenzo 'Che succede se ti cade, se la rompi?' Lui ha sobbalzato, inorridito, ha scosso la testa 'Spero ci sia una garanzia, che sia riparabile, che succederebbe a tutta l'esperienza che ha accumulato?' L'ascensore è arrivato al piano terra e Vincenzo è uscito senza salutare, a testa bassa, rimuginando preoccupazioni dal mio punto di vista ridicole. È solo una Testa, avrei voluto dirgli, scuotendolo, svegliati, è solo una Testa.

La mia Testa era bionda, con gli occhi azzurri. Le bionde mi piacevano da bambino, mi ricordavano gli angeli nelle illustrazioni degli opuscoli che le suore ci obbligavano a leggere e a cantare. Cantavo in chiesa e vedevo rispecchiati gli angeli dipinti sui soffitti nelle bambine bionde inginocchiate sulle panche. Con l'adolescenza rifuggivo le bionde, sarebbe stato come lordare con appetiti carnali l'innocenza cristallina degli angeli, come tirare fango su un abito da sposa. Gli occhi azzurri invece mi fanno da sempre paura. Negli animali gli occhi azzurri sono indice di una lunga catena di accoppiamenti fra consanguinei. L'avrei preferita né bionda né bruna, con dei normalissimi occhi castani. Il computer ha deciso altrimenti, e io l'ho distrutta.

Un giorno riusciranno a capire cosa ha ucciso tutte le donne, useranno l'immenso potere di calcolo di quei cervelloni elettronici per ricreare le donne. Donne vere, non questi surrogati da tenere sul comodino. Non hanno nemmeno un corpo! Dicono che non ci serve un corpo, che quel che sta rovinando il nostro cervello di uomini è solo la mancanza della femminilità nelle nostre vite. Vincenzo non porta con sé la sua Testa solo perché ha paura di rovinarla, la tiene sotto una teca di vetro e non permette a nessuno di toccarla, di parlarci, nemmeno di vederla. Forse teme che possa rivelare qualcosa su di lui che deve rimanere segreto, qualcosa che i computer hanno scoperto unendo i puntini sulle lastre delle sue tomografie.

Sempre meglio di questi che girano col la Testa sottobraccio. Teste spettinate, sporche, che gridano inascoltate mentre vengono gettate nel bagagliaio o dimenticate – volontariamente? - da qualche parte. Sono Teste sfortunate, mi fanno pena. Ma che dico? Non mi fanno pena, sono oggetti, a volte me ne dimentico. Non ho ucciso nessuno, la mia Testa era solo un ammasso di circuiti stampati, lo so perché l'ho aperta, ci ho guardato dentro. Ci ho messo parecchio perché ero sconvolto, piangevo, tremavo, mi veniva da vomitare. Ma alla fine ce l'ho fatta, ho smesso di ascoltare le sue suppliche e ho aperto la mia Testa. Mi aspettavo di sentire suonare un allarme, di vedere uomini in divisa sfondare la porta del mio appartamento. Invece niente. Non è successo niente.

Non so se riuscirò a rimetterla insieme. Quando ho iniziato a strappare fili dentro la mia Testa ci ho preso gusto, non riuscivo più a fermarmi. Dentro di me sapevo che era inutile accanirsi, ma le mie mani volevano scavare dentro la mia Testa fino a trovare qualcosa, che cosa non saprei dire. Ho pensato di tingerle i capelli, di dipingerle gli occhi di verde. Potrei rimetterla insieme. Magari non parlerebbe più, forse rimarrebbe semiparalizzata, ma tornerebbe in vita, quella parvenza di vita femminile che gli scienziati assicurano ci sia indispensabile per mantenere l'equilibrio mentale.

martedì 24 novembre 2009

Restituire la vita con gli interessi (sottotitolo: la morte fa paura)




Ho letto questa cosa dei talenti, molti parlano di questa parabola, spesso senza averla mai nemmeno letta. Pare che tutti siano concordi a interpretare i talenti come la capacità di far bene qualcosa dataci da Dio. Eppure se uno legge il vangelo scopre che l'interpretazione più comune non è del tutto condivisibile. Tanto per cominciare ci sono due versioni, una di Luca e una di Matteo. Ci sono delle differenze, e belle grosse.

1– nobile o uomo qualunque?

In Luca c'è un nobile che parte per ricevere l'investitura a regnante nonostante il popolo lo odi e non lo voglia come re.

In Matteo non ci sono più nobili né regni, solo un uomo qualunque che parte per un viaggio, però diventa un profezia. Succederà, in futuro, come succede in questa storiella.

2 – talenti o mine?

In Luca non sono nemmeno talenti, sono mine. Una mina vale molto meno di un talento.

3 – in parti uguali o secondo la capacità di ognuno di far fruttare il capitale?

In Luca consegna dieci mine ai dieci servi, senza suddivisioni.

In Matteo consegna i talenti a seconda della capacità di ognuno: cinque a quello più capace, due a quello meno capace, uno solo all'incapace.

4 – chi ha dato i soldi ai servi è severo (Luca), duro (Matteo)

In entrambi è una persona che prende quello che non ha messo in deposito e miete quello che non ha seminato. La regola dunque è che devi restituire più di quello che ti viene dato, anche se lo trovi ingiusto, perché non verranno accettate scuse.

5 – il ritorno

In Luca il nobile è diventato Re anche contro il volere del popolo che lo odia. I servi avevano di fronte due possibilità: credere che sarebbe diventato Re e sarebbe tornato a chiedere conto dei suoi soldi, oppure credere che il popolo l'avrebbe avuta vinta e fregarsene perché nessuno sarebbe tornato a riprendersi i soldi.

In Matteo l'uomo torna dopo molto tempo. I servi potevano continuare a far fruttare i soldi nella certezza che prima o poi sarebbe tornato, oppure a un certo punto dirsi che era probabilmente morto chissà dove e usare i soldi che avevano in tasca.

6 – bilancio

In Luca uno fa fruttare il capitale dieci volte, uno cinque volte. Vengono ricompensati non in modo uguale, ma in proporzione ai risultati ottenuti.

In Matteo il servo capace e quello un po' meno capace hanno entrambi raddoppiato il capitale. Sorpresa: quello più capace ha fatto quanto il meno capace. O quello più capace si è impegnato poco, o quello meno capace si è impegnato tantissimo. Eppure vengono ricompensati in modo uguale.

In entrambi però nessuno dei servi ha mai considerato come suo il capitale, che fosse mina o talento (sembra cosa da poco ma è diverso considerare una mina o un talento. Il talento era il taglio monetario più grande in circolazione a quei tempi e valeva 60 mine. Un talento pesava 26 Kg. Una mina pesava quasi mezzo chilo).

La mina o il talento sono e rimangono soldi del padrone. Il dovere dei servi è farle fruttare affinché al suo ritorno il padrone conceda loro autorità e gioia secondo Matteo, potere su intere città secondo Luca.

7 – paura

Il servo che non ha fatto fruttare il capitale ricevuto in entrambi gli evangelisti ha agito così per paura. Sia in Luca che in Matteo ha avuto paura di un uomo duro e severo che miete quello che non ha seminato e prende quello che non ha messo in deposito.

8 – interessi

La reazione del padrone è il rimprovero e la punizione.

Definisce il servo malvagio (anche infingardo in Matteo) e lo accusa di non aver affidato ai banchieri il capitale.

Quindi il messaggio è che se non siamo capaci di far fruttare il capitale e abbiamo paura del ritorno di chi ci ha affidato i suoi soldi, faremmo bene a darlo ai banchieri e non metterlo in un fazzoletto (Luca) o sottoterra (Matteo).

9 – morale

Sia in Luca che in Matteo: a chi ha verrà dato, a chi non ha verrà tolto anche quello che ha.

10 – epilogo

In Matteo il padrone fa buttare il servo pauroso nelle tenebre a piangere e stridere i denti.

In Luca il Re fa condurre alla sua presenza quelli che non volevano diventasse Re e li fa uccidere sotto i suoi occhi. Il servo pauroso non subisce altre punizioni di sorta.

Pulire i denti




Ieri sono andato a pulire i denti. La Terra sta diventando un forno, muoiono migliaia di bambini al giorno di fame e malattie, ci sono dittature, fondamentalisti, bombe atomiche, pandemie, specie animali che spariscono, foreste che scompaiono per sempre a colpi di motosega, violenza, malcostume, malvagità e paura. E io vado a pulire i denti. Arriverò nello studio del dentista e ci sarà Elena ad accogliermi col sorriso, dandomi il buongiorno, pronta ad usare apparecchiature sofisticate, ultrasuoni, paste chimiche, gomme di diversi colori, per togliere dai denti, da ogni singolo dente, quella roba dura che lo spazzolino non potrebbe mai levare.

Nei libri e nei film succede che salta fuori un problema e qualche eroe se ne accorge e interviene, mette tutto a posto. Io non posso fare niente, non sono il protagonista, tanto vale che vada a pulire i denti. Uno su due, per strada, parla lingue che non sono la mia, hanno facce che vengono da altri posti, anche la pelle ha un colore diverso. Quelli che un po' mi assomigliano e parlano una lingua che capisco sono molto anziani. I pochi giovani sembrano più stranieri degli stranieri perché indossano vestiti strani, ti guardano con ostilità, tranne alcuni che sembrano chiederti aiuto con lo sguardo, come cercassero di capire se sei tu l'eroe del film. Mi spice, non sono io, io sono una comparsa, il regista mi direbbe solo, tu cammina come se stessi andando dal dentista, ma senza tutta quella preoccupazione, non hai ascessi, non hai la faccia gonfia di dolore, cammina come se stessi andando a pulire i denti.

Gli eroi sono quelli che muovono eserciti, che raccolgono i soldi del popolo e li amministrano per il bene del popolo. Dovrebbero esserlo. Poi leggi che si drogano, vanno a puttane, rubano, mandano sicari a uccidere testimoni, fanno fare carriera a chi ha il solo merito di essere amico leale e obbediente. Leggi che i presunti eroi sono finanziati dalle lobbies e quello che fanno è in primo luogo un rimborso, che non hanno interesse a far qualcosa per il genere umano ma solo per umani specifici. E allora dove sono gli eroi, ti chiedi, esistono davvero? Ma sono solo una comparsa che cammina per strada, nel film le comparse non parlano, a nessuno fra il pubblico in sala interessa sapere cosa pensa una comparsa che sta andando dal dentista a pulire i denti.

Il dentista ormai ci trattiamo da amici, non so perché, non so se lo fa con tutti i suoi pazienti o solo con me. Viene a trovarmi nella stanzetta di Elena, che smette di sparare acqua e ultrasuoni così che possa salutarlo con una salda stretta di mano. Ci informiamo sulle rispettive famiglie, come stanno i figli. Facciamo i filosofi con pensieri alla spicciolata, del tipo si sta meglio soli o sposati. Dico non vorrei che sia come un posto che ti piaceva quand'eri giovane, che quando ci torni scopri che adesso ti fa schifo. La vita come successioni di luoghi che non sono belli o brutti di per sé. Risponde 'Non so te, ma io alla mia età comincia a bastarmi un libro.' Un libro, sì, anche meno, ma son cose che si dicono per esorcizzare, per fare ironia, per quanto ci sforziamo non riusciamo a parlare dei figli piccoli senza sorridere.

Ieri il mio, quattro anni, quando è sceso dalla bici, si è messo una mano fra le gambe e ha esclamato 'Che mal di palle!”, ridendo, per fare scandalo. Son cose che gli invidio. Mi immagino a farlo io, adulto: arrivo, scendo dalla bici, mi ficco una mano fra le gambe e grido “Che mal di palle!” Quante cose che da adulto non puoi più fare. Da adulto finisci come quei tizi che minacciano la fine del mondo agli angoli delle strade, classificati pazzi non pericolosi, o semplicemente eccentrici, anche simpatici se hanno molti soldi da parte e c'è la possibilità anche remota che te ne diano un po'.

Con i denti puliti la comparsa torna sui suoi passi, schivando merde di cane, immondizia, sotto gli addobbi natalizi appesi ai balconi. Ogni tanto guarda in alto, nella speranza di vedere un segno, un'astronave a forma di arca venuta a caricare quello che rimane da salvare su questo pianeta. Ci sono solo nuvole, vetrine con manichini senza volto, in pose provocanti, un pupazzo a misura d'uomo, un gigantesco coniglio giapponese rosa e bianco, con dentro un uomo vivo, che se ne sta lì fermo a reclamizzare un negozio di giocattoli. E io ho i denti puliti.

venerdì 20 novembre 2009

Una vita fantastica (1)




Venerdì

Devo tenere questo diario per ordine della mia analista, Maria. Non è proprio un ordine, più un consiglio, lei indossa un foulard celeste e la sua mano ogni tanto lo accarezza, prima di fare una domanda, sorridendo, o darmi consigli come questo. Non per me, devo tenerlo per mia sorella, è lei che non sta molto bene, per questo siamo venuti qua, nell'agriturismo, in campagna, siamo qua per i suoi nervi, la sua psiche.

Rachele, mia sorella, ha un disturbo che la fa sentire felice, sempre. L'idea è che la campagna lombarda possa aiutarla a ritrovare se stessa. La nebbia, le vacche, il fango sulle scarpe, cose primordiali, la nascita la morte il ciclo della vita. Maria è convinta che possa servire, si accarezza il foulard, sorridendo, quando butta lì il consiglio del diario. Non so perché ma sono convinto che la mia analista non dica nulla di vero. No, non sto affermando che menta, magari consapevolmente. Solo che trovo impossibile l'ipotesi che non ci sia un filtro tra ciò che pensa e ciò che dice. Sono certo che esista tutta una catena di pensieri che subiscono un processo di distillazione nel percorso fra cervello e lingua. Questa cosa richiede molta fiducia, ma non ho scelta se voglio che mia sorella smetta di essere felice.

Quando siamo arrivati, stamattina, Rachele ha riso forte. Ha gioito in esclamazioni più che entusiastiche per tutto il tempo, come fa sempre di fronte a qualsiasi novità. Erano solo le nove del mattino e io già mi sentivo stanco all'idea di dover sopportare la sua allegria per chissà quanto tempo. Non guarirà mai, forse è per via di tale convinzione che mi arrabbio e mi sento frustrato quando sto con lei. Maria è stata categorica, la sua guarigione dipende anche e soprattutto da me, ha detto, fissandomi negli occhi con un sorriso, e non posso esimermi dalla responsabilità di contribuire al benessere di mia sorella. Devo starle vicino e tenere questo diario, scrivere ogni giorno almeno una pagina e spedirla la mattina dopo all'analista, per tenerla al corrente.

A me non piace niente di questo posto, Rachele invece ha già detto di voler restare qua per sempre. È un atteggiamento così irritante, dovunque la porti, qualsiasi cosa le mostri, a lei piace e dice di volerne ancora, per sempre. Le piace perché è brutto, la fa ridere perché è triste, non c'è modo di incrinare la sua felicità. A volte la invidio, vorrei anch'io non preoccuparmi di nulla, avere qualcuno come me che si occupi di procurarmi di che vivere. Sì, Rachele da sola non durerebbe molto, non riesce a tenersi un lavoro, la gente dopo un po' vuole che se ne vada, che porti via la sua felicità, che la nasconda almeno. Ha avuto diversi spasimanti ma sono scappati tutti, sopraffatti. Uno di essi l'ha anche picchiata, nel tentativo di spegnere quella luce divertita che ha nello sguardo, ma lei non ha versato neanche una lacrima, ha solo steso la mano in una carezza e ha sussurrato 'Ti perdono'. Lui è uscito di corsa di casa e dopo neanche cinque minuti il suo corpo smembrato sporcava i binari della metropolitana. Si chiamava Fabio, credo, o Mario, non ricordo.

I proprietari dell'agriturismo sono stati informati del problema di mia sorella e la signora Grenzi ha risposto che piacerebbe avercelo anche lei un problema simile, ma stamattina quando ha toccato con mano cosa significa essere come mia sorella la sua espressione spaventata esprimeva in modo chiaro quanto avesse cambiato idea. Niente è mai bello da vicino quanto sembra da lontano. Rachele si è sperticata in complimenti, 'Che bella cucina signora Grenzi', 'Che belle galline signora Grenzi'. La signora Grenzi in un primo momento sprizzava soddisfazione ma dopo un po', quando ha capito che avrebbe ricevuto complimenti a prescindere dall'esserseli meritati, ho notato l'ostilità emergere adagio sul suo volto rugoso.

Nessuno può capire davvero mia sorella, perfino io a volte faccio fatica. Maria, quell'unica volta che s'è tolta il foulard, ha detto che è tutta una questione di fede, che mia sorella è stata toccata dalla grazia, poi le sue labbra sono diventate sottili e il suoi occhi sono rimasti a lungo fissati su un rotolino di polvere nell'angolo. 'Tu credi in Dio?', mi ha chiesto continuando a guardare la polvere. Non ho risposto, ho avuto paura di dare la risposta sbagliata. È stata zitta ancora un po' e ha insistito: 'Tu sei religioso?' Ho pensato che fosse meglio lasciala sola, ho preso il cappotto e me ne sono andato.

Domani andremo giù in paese, quasi cinque chilometri a piedi su strada sterrata, anche le passeggiate, in teoria, dovrebbero avere un qualche effetto sulla psiche di mia sorella. Mi chiedo se ci sia un ufficio postale in questo posto o solo una buca per le lettere. Non so quanto potrò resistere, ho sempre detestato la campagna, la natura in generale. Qua la roba è sporca o puzza, o entrambe le cose. Ci sono animali, ci sono funghi muffe parassiti. Non posso lavorare in condizioni simili, non riesco a scrivere senza le mie cose intorno, non pensavo di sentire la mancanza del mio studio dopo nemmeno un giorno.

Rachele è venuta nella mia camera poco fa, interrompendomi. Lei ha parlato, io ho ascoltato. Funziona così fra di noi: lei ha sempre qualcosa da raccontarmi e io mai niente da aggiungere, e comunque lei non mi starebbe a sentire. Ha fatto una lista delle cose belle che sono successe oggi, mi ha detto di scriverle nel mio libro. Non sa che non è un libro questo, ma il diario per aggiornare la sua analista, la nostra analista, ma se anche lo sapesse non farebbe differenza, mi chiederebbe comunque di scrivere la sua quotidiana lista di cose belle. Tempo fa l'accontentavo, avevo ancora la forza di credere anch'io che fossero cose belle di per sé, e non solo per come lei le intendeva. Mi ha chiesto se doveva ripeterla, la lista, o se l'avevo memorizzata. Ho risposto come sempre di averla memorizzata, quando invece cercavo solo di capire cosa ci fosse di brutto in ogni singolo elemento, per difendermi da un ipotetico pericolo di contagio, sono terrorizzato all'idea che ci sia un fattore genetico, che un giorno finirò come lei. Ringraziandomi con un bacio sulla guancia, Rachele è andata a dormire, 'Non vedo l'ora che sia domani'.

martedì 17 novembre 2009

Mi hanno sequestrato il Nobel




Un capolavoro, non posso fare a meno di rileggerlo. A volte interrompo quello che sto facendo, che sia cucinare o riparare la moto, e corro a rileggermi certi passaggi che non son più certo di sapere a memoria. Ne tengo una copia anche in bagno, e ne ho una fatta a pezzi, le pagine incollate sui muri con parole evidenziate, parole come “ghermito” o “scarponi” o “contromano”. Prima di rispondere a qualsiasi domanda faccio mente locale per capire se c'è l'opportunità di fare una citazione, c'è sempre anche se io spesso non me ne rendo conto, non ho studiato abbastanza bene il testo di questo libro dei libri, il libro che annichilisce qualsiasi altro libro. Se l'avete letto sapete di che parlo. Quando ad esempio il vecchio demente scende in cucina – e già la cucina sepolta è un'immagine che esalta -, la cartolina nella mano tremante, e vede la tigre sdraiata sui fornelli, paciosa, rilassata, lo sguardo perso in giungle immaginarie. Come usa le parole, un che di musicale in ogni singola strofa, che mi vien voglia di cantarlo, il libro, mi vien voglia di sentirlo suonato al pianoforte, o su un organo di chiesa. La parte dei bambini, mi sconvolgo tutte le volte solo a pensarci, la manine strette sull'impugnatura delle pistole, i berretti calcati sulla fronte, nel vicolo dirimpetto la fermata del pullman, il pullman truccato, con il pelo sul tettuccio e gli occhi spruzzati di vernice dietro i tergicristalli sollevati. Che poesia, che profonda conoscenza della natura umana. Voglio regalarlo a tutti quelli che conosco, e lo regalerei anche a chi non conosco purché venga letto da chiunque, ne ho seppellita una copia in giardino, dentro una latta di caffè usata, perché in futuro venga riesumata e riscoperta, che una guerra o altra disgrazia non possa impedire la sopravvivenza di un'opera immensa, totale, qual è il libro più bello che sia mai stato scritto. Basterebbe la descrizione dell'auto in fuga sul ponte, di notte, la paura del pilota che evita le pozzanghere senza emettere un fiato, in una bolla di silenzio concentrato, mentre fuori le sirene, i lampeggianti, le foche sdraiate sulle panchine del porto che cercano di trasmettere il conforto di una madre assente. Anche se il mio personaggio preferito rimane il boss, il donnone col grembiule che lotta con gli ombrellini di carta, non riesco ancora a credere che vada incontro al sacrificio col sorriso e rileggo quelle pagine ancora e ancora, come se fosse possibile un miracolo, l'intervento di un dio vendicativo disposto a scendere a compromessi, ma le parole non cambiano, rileggo un destino segnato con inchiostro indelebile, e piango, oppure rido, dipende, dipende da cose futili, dipende da come cade la luce, da come si muove una mano, a volte basta un fruscio.

Johnny inghiotte lattine.




Non ho mai sopportato il successo di Johnny. Solo perché sa inghiottire lattine, guarda, non bastavano gli spot alla televisione, anche sui manifesti l'hanno messo. Non posso andare in giro in macchina con la mia fidanzata senza che il maledetto Johnny appaia nel parabrezza e, dall'alto di quegli enormi cartelloni, con la mano imbullonata che si muove avanti e indietro, sgargiante di luci al neon, inghiottisca lattine.

La mia fidanzata lo ammira in segreto, lo capisco da come gira la testa per seguire con lo sguardo la mano di Johnny, la lattina che si ficca in bocca, e la mastica, la deglutisce. Maledetto, non ha neanche uno straccio di laurea, bestemmia, ha i capelli così sporchi che ti ci specchi nell'unto, non oso immaginare la puzza di Johnny, maledetto, lui e le sue lattine che agganciano lo sguardo della mia fidanzata mentre andiamo in giro in macchina in quello che dovrebbe essere rilassante, per me, un momento di pace, di conforto, di amore.

Invece stringo le mani sul volante e fisso l'orizzonte, deciso a non lasciarmi abbindolare da Johnny, il maledetto, coi suoi stivaletti di cuoio e la camicia dai polsini, luridi, slacciati, penzolanti sul polso, sporchi di aranciata birra cocacola, roba che esce dalla lattina che si prepara a entrare in quella bocca dai denti perfetti, bianchi perfino, che alla tv senti anche il rumore amplificato dell'alluminio che scricchiola, si spezza in quelle mandibole spesse, muscolose, si frantuma come un onda contro gli scogli bianchi e diritti della bocca enorme, sorridente, oltraggiosa di Johnny, maledetto, che ingoia lattine per soldi, per fama, per quella che per me rimane l'inconoscibile motivazione che spinge un uomo bestiale come il maledetto Johnny a ingoiare lattine.

Ma le donne impazziscono, anche la mia fidanzata che seduta qua di fianco spalanca gli occhi e le labbra le diventano rosse mentre si gira a seguire con lo sguardo l'ennesimo cartellone folgorante sulla strada della nostra passeggiata domenicale, in adorazione della metallica ostia sconsacrata, massacrata dalla bocca del maledetto Johnny, gli sponsor di bibite che fanno a gara per mostrare il proprio logo, per arricchire chi non ha avuto abbastanza cervello da ottenere la licenza elementare, eppure eccolo lì, nello splendore mediatico a lasciarsi idolatrare per il fatto che ingoia lattine, maledetto Johnny, i denti così dritti e bianchi a far da garanzia, le mandibole una promessa mantenuta, e la lingua, oh, la lingua, come si riduce ogni volta, al punto che le ragazze, la mia fidanzata per prima, iniziano a piangere, in silenzio, e si stringono le mani al petto, come in adorazione del maledetto Johnny.

A volte dico basta, se lui ingoia lattine io ingoierò bottiglie, mi dico, e mi immagino la forza necessaria per spingere la bottiglietta giù per la gola, il fastidio del vetro freddo sulle delicate mucose, il virare del colore sul mio viso quando divento paonazzo per la mancanza d'aria, la bottiglietta incastrata in gola, magari per traverso, come nei cartoni animati, il fondo della bottiglia che spunta da un lato del collo e il tappo dall'altra parte, con io che dondolo sui piedi, gongolo, nei pochi secondi che precedono la perdita dei sensi, e la mia fidanzata inginocchiata su di me che invoca il mio nome, pentita, mentre intorno tutti urlano e qualcuno chiede l'intervento di un medico, quando alla fine, quando ormai mi danno per spacciato, deglutisco, mi riprendo, fisso la telecamera e con aria di sfida dico “Johnny”, non c'è bisogno di aggiungere altro, dico solo “Johnny”, e viene giù il mondo.



giovedì 12 novembre 2009

↑x8 (4\n)



Ci son dei giorni che proprio non ne hai voglia. Ti svegli e già lo sai che non avrai voglia. Ti darà fastidio, ti verrà il nervoso. Un senso di fastidio generalizzato nei confronti di tutto e di tutti. È tutto inutile, son tutti pazzi o stupidi, sarebbe meglio isolarsi, non guardare, non ascoltare, far finta di niente. Concentrarsi su un pensiero felice e volare via.

Poi ti alzi dal letto e pensi che era solo un momento di squilibrio ormonale, uno scompenso di chissà quale sostanza o molecola. Adesso passa, troverai un mondo pieno di logica e coerenza e buon senso. Un modo per non farti aggredire dalle notizie, dalle furbizie, dalle malizie. Qualche pensiero per riuscire a sorridere anche ai passanti, agli sconosciuti che incrocerai per strada.

È una presa in giro. Senti una risata dentro di te a troncare quel patetico slancio di ottimismo. Oggi ti farà tutto schifo, che tu lo voglia o no. Tua moglie forse ha ragione a dirti che ha sposato una folla di persone. Non dice più moltitudine di identità perché le hai spiegato che sei religioso e moltitudine è una parola che per te ha un significato terribile, che ti spaventa. Quella volta lei rise e ripeté moltitudine due, tre, dieci volte di fila per vedere l'effetto nei tuoi occhi e, soddisfatta o delusa, non aveva insistito.

Non sei moltitudine, o forse sì, che differenza fa? Ti sei informato e se anche fosse saresti l'ultimo a rendertene conto, se mai ti accadesse di farlo. A te non importano le analisi dell'anima o della psiche, non ti importa di sapere come funziona più di quanto possa importarti l'esistenza di vita dall'altra parte dell'universo. Son cose troppo lontane, del tutto ininfluenti.

Ciò che conta sono cose come il profumo del caffè, il respiro di tuo figlio che dorme, quel modo curioso che ha di tenere la mano sospesa nel vuoto tua moglie quando è assorta. Son cose che travalicano i muri delle personalità, che giacciono nel nucleo di ciò che sei. Anche quando, come oggi, vorresti sparare al tizio di quell'orrenda pubblicità alla radio. Questa schifo di luce, oggi, in questa orrenda angolazione, la mattina presto, tutto questo tempo davanti prima che arrivi sera. E là fuori tutta quella gente orribile, fatta di carne, quella gente che porta in giro i suoi chili di carne, è orribile.

Traffico, effetto serra, violenza, ma soprattutto inerzia. Tutto procede per inerzia, nessuno riesce a fermarlo, a fargli cambiare direzione. Parole, discorsi, blah blah e faremo questo e il futuro sarà diverso. Eppure a te sembra un ripetersi, l'ostinazione brutale di un animale in fuga che travolge qualsiasi tentativo di cambiare. Inerzia. In giorni come oggi dici andate avanti voi, io mi siedo a guardare. Hai voglia di niente.

Sospiri e ti ricordi che non è la realtà, è solo per via che ci son dei giorni come questo, che proprio non ne hai voglia, e ti riprendi. Non è colpa di nessuno, solo un guasto in qualche meccanismo rimasto assopito, una papilla del sentire in manutenzione, ecco; spento potrebbe essere una definizione adeguata. Oggi ti sei svegliato spento. Non spento come qualcosa che aspetta una scintilla per innescarsi, piuttosto qualcosa consumata fino in fondo che cova sotto la cenere.

venerdì 6 novembre 2009

Smettere - Capitolo 1 - 2






(Disclaimer: bozza, prima stesura, contiene linguaggio esplicito)




1

Se ne stava seduto composto su una delle panche di cemento della metropolitana. Non si alzava all'arrivo dei treni, non spostava nemmeno lo sguardo dal monitor del suo netbook. Sembrava una statua, come quella dell'uomo di bronzo con la ventiquattrore aperta sulle gambe vicino a Wall Street, nel parchetto con i tavolini a quadrati bianchi e neri, per giocare a scacchi. Muoveva le dita sulla tastiera, le cuffie con microfono a tenergli a posto i capelli, come un cerchietto che andava di moda tanti anni fa. Se ne stava lì, su quella superficie fredda e sporca, come stesse in poltrona, figura immobile circondata da luci, rumori, poster pubblicitari, graffiti, sbuffi di vento all'arrivo del treno, annunci gracchianti dagli altoparlanti.

Leonard lo osservava da lontano, giorno dopo giorno, includendolo nell'elenco delle solite cose. Cose come aprire il tubetto del dentifricio tenendo fermo il tappo e girando il resto, come strizzare il filtro della prima sigaretta rigirandolo fra pollice e indice della mano destra. Soffiare sullo zucchero a velo della brioche stando chino in avanti per evitare di sporcarsi i vestiti. Controllare l'ora passando davanti all'edicola per evitare di incrociare lo sguardo sempre così triste e confuso sul volto del giornalaio, chiuso nello sgabuzzino a scrutare i passanti con l'aspetto di un animale gravemente ferito. Le solite cose; anche osservare l'uomo statua era diventata una solita cosa.

L'uomo statua era vestito di roba scadente, da grande magazzino. Non sembrava un disperato di quelli che ti chiedono soldi raccontandoti tragedie personali poco verosimili. Non era così magro da far sospettare tossicodipendenze. Non aveva l'espressione di chi è abituato a nascondersi in un vicolo, al buio, ad aspettare la vittima ideale. Eppure. Eppure Leonard non capiva, era curioso di sapere, così se ne stava in piedi a distanza, ogni mattina dei giorni feriali, ad osservarlo. Non era il solo, c'era come un cerchio vuoto intorno all'uomo statua, come se un campo di forza impedisse alla gente di avvicinarsi troppo ed erano molti a fingersi distratti mentre si soffermavano a osservare. Alcuni perplessi, alcuni sospettosi, alcuni divertiti. Poi arrivava un treno e gli spettatori partivano, lasciando il posto ai nuovi arrivati.

C'era un cartello appoggiato in terra ma bisognava avvicinarsi parecchio per poterlo leggere. Bisognava entrare nel cerchio magico e correre i rischio di disturbare l'uomo statua, con effetti imprevedibili. Bisognava arrivare proprio di fronte all'uomo statua, e rivelare il bisogno irrazionale di immischiarsi in questioni che non ci riguardano. Se avesse alzato la testa e, incoraggiato dall'imprudenza dell'invasore, si fosse ritenuto autorizzato a instaurare un dialogo? Se avesse chiesto all'improvviso aiuto, soldi, favori? Magari afferrandoti per la manica o alzando la voce per rendere pubblica una tua eventuale reazione scomposta. Troppo rischioso. Solo un pazzo o un bambino di questi tempi potrebbe sottovalutare il pericolo degli incontri occasionali. Come il ragazzino in impermeabile e stivaletti di gomma che proprio in questo momento strattona inutilmente il braccio di sua madre per sbirciare il cartello, col solo risultato di essere trascinato di peso a distanza di sicurezza.

Leonard aggiornò l'elenco delle solite cose guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno l'avrebbe spinto giù sui binari prima di allineare la punta delle scarpe alla linea gialla quando il tabellone segnò due minuti all'arrivo del treno. Fu a quel punto che l'uomo statua si mosse. Leonard trattenne il fiato. La madre del bimbo in stivali accentuò la stretta sulla manina. La guardia appoggiata al muro in fondo afferrò la ricetrasmittente e si mise in attesa. L'uomo statua alzò la testa, fissò Leonard negli occhi, annuì, sorrise e tornò ad occuparsi di qualsiasi cosa stesse combinando col netbook. Leonard riprese a respirare. Un minuto all'arrivo del treno. Si era aperto un corridoio nella folla tra lui e l'uomo statua, come se avesse sparato un raggio laser dagli occhi capace di rendere inadatto alla presenza umana lo spazio fra di loro. Alcune persone si stavano lentamente allontanando da Leonard. Sei stato contagiato, disse una voce molto simile a quella di suo padre nella mente di Leonard. Aveva un tono canzonatorio quella voce, come quando da piccolo andava da lui in piena notte coi postumi di un incubo. Non esistono i mostri, diceva, sono solo dentro la tua testa. Si era scordato di aggiungere che in certe condizioni possono uscire e diventare veri, quando si diventa abbastanza grandi da poterli affrontare nonostante la paura. Riposa in pace papà, replicò Leonard in maniera automatica. Sentì montare la rabbia e cedette all'impulso nel modo in cui si cede quando si sta per fare qualcosa di cui ci si pentirà per il resto della vita: sorridendo solo con la bocca, gli occhi invece a fessura per proteggersi da se stessi, consapevoli che è già troppo tardi.

Leonard si avviò a grandi passi verso l'uomo statua. Gli si fermò di fronte, uno sceriffo da spaghetti western che ha raccolto la sfida del bandito. L'aria montava e già si sentiva in lontananza, nel tunnel, il sopraggiungere del treno. L'uomo statua non diede segno di averlo notato, di nutrire ancora l'interesse nei suoi confronti mostrato poco prima. Forse era soprappensiero e non stava davvero guardando me, pensò Leonard, era semplicemente immerso nelle sue fantasie. Come la spieghi la reazione della gente, disse la voce di suo padre, il fottuto corridoio. Non poteva essere davvero la voce di suo padre, non avrebbe mai usato parole come 'fottuto'.

- Riposa in pace papà. -

L'uomo statua chiuse il portatile e disse con voce forte e chiara, una voce profonda e roca da mal di gola: - Come dice scusi? -

Non aveva replicato a papà in silenzio? Leonard non lo sapeva. Il rumore del treno era molto forte adesso.

- Sta calpestando il mio cartello -, disse l'uomo statua puntando il dito a terra.

Il cartello era occupato da scarabocchi senza senso, una pseudo scrittura inframezzata di immagini ombreggiate a matita. Una sola scritta nel centro, in piccolo, in stampatello: 'Vuoi smettere?' Leonard scoppiò a ridere.

- Mi scusi -, stava per aggiungere signor uomo statua e ciò lo fece ridere ancora di più. Si sentiva come un ragazzino di fronte a uno scherzo ben riuscito. Lo sbuffo delle porte automatiche alle sue spalle lo fece sussultare mentre cercava di aggiungere qualcosa senza spruzzare di saliva l'uomo statua in un accesso di ridarella nervosa. Uomo statua che lo guardava con un sopracciglio sollevato, come lo Spock di quei telefilm quando non capiva una battuta del medico di bordo. Spock nella metropolitana con uno stupido cartello ai piedi fu l'ultima goccia, Leonard non risucì a trattenere le risate.

- Mi scusi -, cercò di aggiungere mentre si girava per correre nel treno prima che si chiudessero le porte. L'uomo statua era tornato a concentrarsi sul netbook, come se nulla fosse successo. Leonard alzò la mano con le dita aperte in un saluto vulcaniano quando il vetro delle porte si frappose fra di loro. Scoppiò di nuovo a sghignazzare raccogliendo le occhiate di rimprovero degli altri passeggeri.

2

Non era ancora uscito dalla metropolitana che il telefono di Leonard partì con la fuga di Bach a tutto volume. La suoneria associata al numero del suo datore di lavoro, Klaus Bazinsky, che stava già sbraitando prima della connessione.

- ...significa, eh? Rispondi! Volete che mi venga un accidente, vero? -

- Con chi ce l'hai, capo Kappa, voi chi? - Leonard camminava col telefono fra spalla e orecchio mentre rovistava nelle tasche in cerca delle sigarette.

- Finalmente rispondi, pensavo che fossi morto! Con chi ce l'ho? Con chi ce l'ho? - Leonard s'immaginava le guance sempre più rosse, gli occhi sporgenti - Mi prendi per il culo? Dove cacchio sei? -

- Dieci minuti e apro la porta del tuo ufficio, capo Kappa – rispose Leonard, strappando il pacchetto di lucky strike morbide per tirare fuori quella che ancora non sapeva essere la sua ultima sigaretta.

- Spero tu abbia una pala e che ti ricordi come si usa! - urlò Klaus.

- Una pala? - Leonard usò l'accendino e ispirò a fondo.

- Sarà divertente guardarti mentre ti seppellisci vivo se non hai con te almeno le bozze. - La risata di Klaus era una frana di odio in una miniera di malvagità.

Leonard non la sentì perché gli era caduto il telefono. Un attacco inatteso di colpi di tosse l'aveva fatto piegare in due e il telefono era caduto sul marciapiede. Era avvelenata, disse la voce di papà, ti rimangono pochi secondi di vita. Leonard gettò via il mozzicone e rimase chino, le mani sulle ginocchia, a riprendere fiato. Non gli era mai capitato di provare tanta repulsione in vita sua, per una sigaretta poi, l'adorato bastoncino catramoso.

Raccolse il telefono, ti rimise dritto e controllo il pacchetto. Le due sigarette rimaste sembravano normali, forse quella gettata era difettosa. Arsenico, disse papà. Si sentiva bene, la crisi di tosse era superata, forse più tardi avrebbe provato ad accenderne un'altra, facendo attenzione. Cianuro, disse papà. Ora basta, riposa in pace.

Klaus stava incornando l'aria, sbuffando come un toro, avanti e indietro a gran passi sul tappeto nel suo ufficio. Non salutò, non lo guardò in faccia, si fermò e allungò la mano.

- Dammi quello che voglio o te ne andrai -, disse.

Leonard gli mise in mano un fascicolo di A4 non rilegati, scritti a mano, pieni di correzioni e note a margine.

- Andarmene dove? -, chese.

Klaus andò a sedersi dietro la scrivania. - Era una citazione, ma cosa vuoi capirne tu? -

Leonard fece spallucce, capo Kappa era matto, questo era un dato di fatto in ufficio e nessuno stava più a interrogarsi sul significato di quello che diceva. L'importante era capire gli ordini e portarli a termine velocemente. Del resto si occupassero parenti, amici e dottori.

- Cos'è quanta roba? Ma porca di quella lurida! Allora ditelo che volete farmi esplodere un vaso sanguino nel cervello e vedermi paralizzato a sbausciare in qualche ospizio di merda! -

- Con che ce l'hai, capo Kappa? Voi chi? - Leonard controllava che il telefono non si fosse guastato nella recente caduta.

- Volete che mi incazzi, lo so, pazzi bastardi! -, Klaus si voltò a guardare finalmente Leonard in faccia, - Roba da caschetti di alluminio da cucina! Tre giorni alla scadenza e tu mi metti in mano questa merda? Dove siamo, in televisione? -

- No, capo Kappa, ascolta un momento -, ma Klaus era già partito in una delle sue sfuriate, si era alzato e fingeva di cercare telecamere nascoste in giro per l'ufficio.

- C'è qualche cazzo di presentatore decerebrato che ride di questa gag? Partono gli applausi registrati quando tiro fuori dal cassetto una bomba e minaccio di far saltare l'intero palazzo? Mi fate gli scherzi, eh? Volete mandarmi al manicomio! -

- Capo, non c'è nessuno, solo io e te, Kappa ascoltami -, Klaus portò gli occhi arrossati a pochi centimetri da quelli di Leonard e vi scrutava dentro.

- Hai ragione, calmati ora, ma che stai facendo? -, chiese Leonard.

- Sto cercando id vedere se c'è rimasto un briciolo di intelligenza e di talento in quella testa enorme che ti ritrovi. -

- Quella che hai in mano andrebbe bene, dai, lo sappiamo entrambi ma forse ho di meglio. -

- Ti ha mai detto nessuno, che so, tua madre, i tuoi insegnanti, che hai una testa enorme? - disse Klaus girandogli attorno, prendendo le misure della testa di Leonard con le dita.

- Nessuno prima di te, capo Kappa, ma dicevo stamattina ho avuto un'idea mentre ero nella metro, ne verrebbe un reportage, senti che roba, siediti che ti spiego. -

- Una volta ho conosciuto uno con la testa enorme quasi quanto la tua, era un idiota totale. - Klaus andò a riempirsi un bicchiere di rum, lo scolò d'un fiato e se ne riempì un altro.

- Hai sentito di quelle persone che appaiono come funghi in diversi posti della città? -

Ora Klaus era interessato. Aveva smesso di parlare della sua testa e far paragoni con zucche e palle da bowling. - Come funghi. -

- Sì, all'inizio si cercava di farne una notizia ma dopo un po', dal momento che non rappresentano un pericolo e non fanno niente di interessante, tutti hanno smesso di scriverci sopra e mandare servizi alla tv. -

- Bella merda. - Per Klaus tutto era degno di un bella merda a commento esplicativo per cui era difficile capire se bella merda nel senso di interessante o bella merda nel senso di noioso.

- Prendo Max, lo porto con me a scattare due foto, rimedio un'intervista e prima di sera ho materiale per qualcosa di meglio di quello che hai in mano.

- Anche il pelo sputato da un gatto randagio è meglio di quello che ho in mano. -

- È un via libera? - Leonard annuì speranzoso davanti allo sguardo depresso di Klaus.
- Un giorno mi farete perdere la pazienza e allora vi pentirete di tutto il male che mi avete fatto. -

- Capo Kappa, voi chi? Con chi parli, se lo chiedono tutti. - Leonard sorrise, componendo il numero di Max.

- Sei ancora qui? Porta quella testa orrenda fuori dal mio ufficio.- Leonard non raccolse, era già in piedi diretto alla porta e parlava al telefono con Max.

martedì 27 ottobre 2009

Apologia dello scrivere

Non capisco quelli che si lamentano quando devono scrivere. Scrivere è facile. È un po' come parlare, ma più facile. Parlare significa dover sostenere una conversazione, magari con qualcuno che non ci è simpatico, che non reputiamo all'altezza, che usa una lingua straniera. Scrivere è più facile anche per motivi pratici: non puoi interrompere una conversazione per andare a berti un caffè, non puoi cancellare quello che hai detto, non puoi decidere unilateralmente che la discussione è durata abbastanza.

Quelli a cui non piace scrivere preferiscono dirti a voce il perché e già questo implica la loro convinzione che chiunque ama scrivere ama anche parlare anche se non viceversa. Partono da una superiorità morale nei confronti di chi scrive, per loro tu sei uno che per autolesionismo, superbia o chissà quale oscura motivazione, si esprime con mezzi innaturali e trova addirittura soddisfacente un'attività di palese masochismo come permettere alle parole di ledere la tua stessa privacy.

Quando parli ti può giudicare scemo solo chi ti ascolta e solo in quel momento. Se dici una castroneria puoi dichiarare di essere stato frainteso e tutta la questione resta avvolta dal fumo di ricordi indimostrabili. Se scrivi ti esponi e per rimangiarti i pensieri devi distruggere fisicamente le prove. Anche questo è un buon motivo per preferire gli scritti alle conversazioni, la gente potrebbe imparare ad ammettere gli errori quando è impossibile negarli, prendere le distanze da se stessi dimostrando di crescere, di evolversi. Diventa più facile andare d'accordo quando viene eliminata la possibilità di barare. Questa è una difficoltà reale per chi dice che scrivere è difficile. Posso capirla.

Se hai un vocabolario limitato e sei confuso sulle regole di grammatica e sintassi puoi condurre una vita lunga e felice limitandoti a parlare. Di solito, quando parli, alla gente interessa solo sapere il motivo per cui stai causando tanto disturbo al prossimo. Scrivere è più facile anche perché non ti devi preoccupare di rompere le scatole a qualcuno; se ti legge ha deciso per conto suo di farsele rompere. Non devi salutare, presentarti, dare la mano, fare commenti sul tempo, complimentarti. Devi solo esprimere quello che ti preme comunicare. Ecco perché quando sento dire che scrivere è difficile ho la tendenza a iniziare a parlare e andare avanti per ore, senza permettere all'interlocutore di interrompermi o di andarsene.

Se non sei capace di maneggiare lo strumento ti giustifico pienamente. Io per esempio non ho mai voluto imparare uno sport, né praticarlo né impararne le regole o la storia o il nome dei campioni. Però non dico che è fare sport è difficile o che quelli che lo fanno sono dei perditempo e mi sembrano un po' matti – anche se in realtà lo penso. Se pratichi uno sport nessuno ti guarda come se fosse sbarcato un alieno, se scrivi invece devi avere per forza qualcosa che non va. Il pregiudizio è minore per altre attività che implicano fatica mentale – d'accordo lo ammetto, scrivere può essere molto faticoso. Se scrivi poesie, aspiri a ottenere fotografie suggestive, ti dedichi alla matematica, sei molto meno inquietante di chi scrive, così, solo per raccontare cose che nessuno leggerà mai – di solito chi trova difficile scrivere trova difficile anche leggere, ma non è la norma.

Alcuni mi fanno sapere che è del tutto inutile. Fatica sprecata. Senza contare che quei pochi che leggeranno potrebbero sentirsi in imbarazzo incontrandoti per strada, come se ti avessero spiato mentre facevi la doccia. Parlano con te e intanto pensano a quello che hai scritto e si vergognano al tuo posto, pensando a come arrossiresti se ti dicessero di aver letto ciò che hai scritto. Un altro motivo per affermare che scrivere è facile: quando scopri che gli unici a doversi preoccupare di ciò che scrivi sono quelli che leggono.

Certo, puoi sempre incontrare qualcuno che ci tiene a farti sapere che gli piace oppure no, ma nella maggior parte dei casi è gente che lo dice solo per vedere come reagisci. È sufficiente riconoscere il loro ruolo di presenti sul luogo del misfatto che vogliono salire sul banco dei testimoni. Quando parli nessuno ti dice se quello che stai dicendo gli piace oppure no, al massimo ti danno ragione o torto. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno complimentarsi o dichiararsi infastidito per l'eloquenza, la retorica, la scelta dell'argomento, la capacità di sintesi, il moderato ricorso alle divagazioni, lo stile oratorio dell'interlocutore. Quando scrivi tutte queste cose sembrano improvvisamente assumere un'importanza cruciale. Ebbene, non è così. È solo un modo per certe persone di vendicarsi delle matite rossa e blu che usava la maestra quando erano piccoli. Se hai paura delle critiche è meglio che ti chiudi in casa, stacchi il telefono e non esci più.

Ma io non ho niente di dire, mi si obietta, ho il terrore della pagina bianca. Sì, quella è l'unica difficoltà dello scrivere. Bisogna trovare la forza di cliccare sull'icona del programma di videoscrittura e mettersi a parlare con nessuno e allo stesso tempo con tutti quelli che potrebbero leggere. La mamma, il collega, il/la fidanzatino/a del liceo, il medico, gli insegnanti dei tuoi figli. Prima o poi saranno tutti morti, te compreso, che te ne frega? Si inizia così, con uno pseudonimo, così puoi guardare senza essere visto, il che può titillare una propensione inconscia al voyeurismo (chi è senza peccato...), se ti va bene smetti prima che sia troppo tardi, sennò entri nel tunnel con la scimmia dello scrivere sulla spalla. A quel punto scrivere non è più difficile, diventa sempre più facile, smettere di scrivere piuttosto sembra assurdo.

Ecco perché c'è così tanta gente che scrive e così poca che legge. La stessa ragione per cui c'è così tanta gente che parla e così poca che ascolta. Se scrivi per essere letto sei come quello che parla per essere ascoltato. Se tutti quelli che parlano lo facessero solo perché hanno davvero qualcosa di importante da dire il mondo sarebbe molto silenzioso. Se ti chiedono di smettere di scrivere replica chiedendo che smettano di parlare.