venerdì 11 dicembre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (19 di N)



Una delle cose che cambiano è che comincia a interessarti la società, il mondo in generale. Prima l'obiettivo era prendere, consumare: lo voglio usare tutto, anche la tua parte, e quello che avanza lo butto via perché mi devo vendicare di qualcosa che non so nemmeno io cos'è, forse il fatto di essere qua senza averlo chiesto, forse il fatto che sono arrabbiato e per dispetto lo rompo, solo perché me l'hai regalato e non è bello come mi aspettavo, forse perché lo fanno tutti e allora tanto vale, non rimarrà niente lo stesso. La filosofia del vincere solo perché qualcun altro perde, dell'essere i migliori solo perché c'è chi sta peggio, dell'andare a testa alta solo per distinguersi da chi non ne ha motivo, o magari non ne ha più voglia.

Pensavo questo ieri, mentre andavamo a comprare un regalo per mia moglie. Non c'è associazione tra cosa uno pensa e cosa sta facendo, almeno non nel mio caso. Qualcosa lavora in background e mi fa pensare quello che gli pare mentre io faccio altro, lo mette in un cassetto e quando vado a tirar fuori i calzini ce lo trovo dentro ed è come se mi ricordassi di averlo pensato. In realtà il programma a pieno schermo pensava a Babbo Natale e a non mollare la mano di mio figlio. Mollare la mano di un figlio in certe situazioni può provocare danni al cuore. Prima nei miei incubi poteva capitare di cadere nel vuoto, di venire ferito a morte da una persona che nella vita reale non mi ha mai nemmeno guardato storto, di finire schiacciato da una macchina movimento terra impazzita, cose del genere, che riguardavano me, però, solo me. Potevo ritrovarmi a correre in preda al panico negli anfratti bui delle rovine di una cascina o nei saloni di un albergo che esistono solo nel mio immaginario onirico. Ma erano tutti eventi che implicavano me e nessun altro.

Adesso negli incubi a me non succede più niente. Anche quando, per sbaglio, sta per succedere qualcosa a me, ecco che mi guardo intorno per assicurarmi che mio figlio sia al sicuro. Da quando è nato a mio figlio è successo di tutto, nei miei incubi. È annegato, spappolato, schiacciato da un auto, rapito per strada, rapito al supermercato, preso in ostaggio, si è rotto la testa, si è spezzato una gamba, gli è venuta una malattia spaventosa. È solo un elenco parziale e qualche accidente orribile è capitato più volte. Mentre negli incubi prima mi bastava svegliarmi, ora non posso più, è una via di uscita che si è chiusa, devo restare nell'incubo e sistemare le cose, non puoi andartene da un incubo quando la cose brutte stanno capitando a tuo figlio, devi rimanere, rincorrere il cattivo, uccidere il nemico, riparare quel che si è rotto, intervenire in qualche modo, a qualsiasi costo.

Per cui stavamo entrando nel grande magazzino, gli tenevo la mano come la si tiene ai bambini, facendo attenzione che non ti mollino all'improvviso perché attirati da qualcosa, una luce, un cartello, qualsiasi cosa può attirare un bambino e spingerlo a staccarsi dalla tua mano in modo fulmineo e correre via gridando, ridendo, o anche in totale silenzio. Intanto una parte di me, in modo furtivo, rifletteva sul mondo come risorsa da usare con moderazione e alla società come simulazione di attività governate da istinti animali. Ma Babbo Natale era ciò che dominava la scena, incombendo sui miei processi cognitivi, grippando le mie facoltà di linguaggio.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Vorresti un taglio sulla pellicola. Qualcuno che stacca questo pezzo di pellicola e con un po' di scotch unisce il punto in cui non ti ha ancora fatto la domanda a quello in cui hai già risposto. Non voglio neanche sapere, pensi, cosa ha risposto il padre, mi basta che quel momento sia già passato. E invece non passa, diventa un infinito deja-vu che riecheggia ma al posto di perdere volume diventa assordante.

“Papa, Babbo Natale è finto?”

Finto? Into? NTO? TO? O? Controlli che la sua manina sia ancora nella tua. Verifichi che intorno a te la gente è la solita di sempre. Salta la luce di un lampione. Quando vengo messo in una situazione che reputo stressante al limite dell'autodistruzione capita a volte che fulmini le lampadine. Chiedete a mia moglie se non ci credete, ve lo confermerà. Non smetterà mai di chiedermelo fino a quando non otterrà una risposta. Non è un tono di sfida quello che ho sentito nella sua voce? Non è una specie di domanda trabocchetto per capire quando si possa fidare di me, una prova del nove sulla mia capacità di mentirgli volontariamente?

“Babbo Natale dici? Beh, dipende, in che senso?”

Quando non voglio rispondere una delle mie strategie è fingere che la domanda possa avere risposte multiple egualmente valide. A quattro anni non potrà certo competere con anni di esperienza in evasione retorica, ambivalenza dialettica, confusione premeditata.

“Papa, è finto?”

“Tu che ne pensi?”

“Sto dicendo, Papa, se Babbo Natale è finto!”

“Ah beh, tutto può essere.”

“Noi ce l'abbiamo il camino?”

“No, ma non è che ci deve essere per forza. Potrebbe passare attraverso i muri.”

“Papa.”

“Guarda! Ci sono delle cose, andiamo a comprare un regalo a mamma!”

“Papa.” Si è impuntato, non muoverà un altro passo se prima non otterrà ciò che vuole. Sospiro.

“Dimmi.”

“Babbo Natale è finto?”

“Sai, a qualcuno piace pensare che...”

Sorride.

“Sì, è finto.”

“Lo sapevo.” Sorride.

“Possiamo andare adesso?”

“Guarda papa! Cos'è quello? Vieni, corri!”

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