venerdì 18 dicembre 2009

The last word



The last word, un film che in Italia non è arrivato, parla dell'antagonismo fra vita e scrittura.

Il protagonista, Bentley, nel suo tormentato percorso esistenziale trova appiglio di sopravvivenza nella sua passione per la scrittura. Non cerca successo, scrivere è per lui solo un espediente per sbarcare il lunario. Scrive per gli altri nel vero senso della parola, scrive su commissione e cede tutti i diritti del prodotto all'acquirente.

Non ha amici, non ha relazioni sociali, non ha parenti. Quando una donna entra di prepotenza nella sua vita viene sconvolto il delicato equilibrio di chi per molto tempo si è adeguato alla solitudine e si trova di colpo a dover affrontare la necessità di estroversione, coraggio e fiducia negli altri che uno stile di vita considerato più normale comporta.

Bentley ha iniziato scrivendo composizioni da leggere in pubblico nelle occasioni speciali: compleanni, matrimoni, bar mitzvah, e si è specializzato in discorsi funebri. Scrive per chi vuole lasciare un testo che lo rappresenti, da leggersi al proprio funerale. Per poter scrivere le ultime parole del cliente, Bentley lo frequenta, lo indaga, gli prende le misure proprio come farebbe un becchino per costruire la bara. È così professionale da partecipare al funerale per registrare le reazioni dei presenti e potersi formare un giudizio sulla qualità del lavoro eseguito. È bravo, una sua composizione ha fatto vincere un premio a uno dei suoi clienti e ciò non ha incrinato la sua professionalità, è rimasto nell'anonimato lasciando che il cliente mantenesse la paternità del testo.

Trovo che l'idea di fondo sia geniale ma il film si preoccupa di spiegare la metamorfosi causata dall'amore più che sottolineare la grandezza poetica del protagonista. Avrei preferito una scelta più intellettuale, immune al richiamo degli archetipi romantici così spesso utilizzati per dare uno smalto educativo alle pellicole. Il ritorno alla normalità dell'artista può essere visto come il trionfo dell'amore, panacea ai malesseri interiori, ma in questo caso sembra piuttosto l'assimilare l'arte a una disfunzione dell'organismo che impedisce all'uomo di sbocciare alla comprensione, di entrare nella realtà. Come se il senso dell'arte fosse quello di supplire a esigenze ancora inesplorate, un espediente per emettere gridi di aiuto impliciti e sublimati.

La donna che incontra è Ryder, la sorella di un cliente che lo abborda proprio durante il funerale. Deve mentire sui motivi che lo hanno spinto a presenziare alla cerimonia e questa bugia mina le fondamenta del rapporto sentimentale che verrà a crearsi. La rottura di questa relazione segnerà anche la rottura con lo scrivere e Bentley diventerà una persona “normale”. Avrei preferito che Bentley fosse rimasto una persona atipica, schiavo del suo modo di essere, della sua musa. Ma non riesco a dire quale dei due finali sarebbe il più aderente alla realtà perché in fondo i riti di passaggio molto spesso sono scelte obbligate e di solito non conducono a percorsi in salita senza chiedere un pedaggio molto oneroso in termini di benessere spirituale.


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