mercoledì 23 febbraio 2011

After Hour

Harry Potter quando compie 40 anni impazzisce, nel libro non si sospetta niente, nel film nulla lo lascia presagire, Harry Potter sta facendo colazione il giorno che compie 40 anni e, niente, gli viene in mente una cosa e impazzisce, di botto, i famigliari poi diranno che fino a ieri era normale, era tranquillo, non dava assolutamente alcun segno di voler impazzire, così, di botto, proprio il giorno del suo compleanno, poi però a un certo punto trovano la cura, la voce narrante lo dice mentre commenta il singolo pensiero che fa impazzire Harry Potter, la voce narrante butta lì la speranza che un giorno possa rinsavire, Harry Potter, e infatti succede, dopo anni, dopo che sono successe altre cose, dopo che ormai lo davano per spacciato, Harry Potter è guarito e la voce è circolata non potevi incontrare qualcuno che non ti riferisse la notizia che Harry Potter era finalmente guarito, con la voce di chi se lo aspettava che accadesse, che in fondo lui o lei l'avevano semrpe saputo che sarebbe guarito, perché lui è Harry Potter, non poteva finire diversamente, solo che quando torna a casa Harry Potter scopre che non c'è più nessuno che lo aspetta e allora vuole impazzire daccapo ma non ci riesce, torna dai dottori e dice loro perfavore fatemi tornare malato, stavo molto meglio quando ero malato e i dottori scuotono la testa, gli dicono non posso va contro la deontologia professionale, non ha altra scelta Harry Potter che entrare in una setta che odia la magia, gli illusionisti, i cartomanti, la prestidigitazione, l'astrologia, gli aruspici e i lanciatori di malocchio, le fattucchiere e gli incantatori, entra in una setta che crede solo nei numeri, nel metodo scientifico, nella logica, e quando incontra vecchi amici fa finta di non riconoscerli, dice lei ha sbagliato persona, io non mi chiamo Harry Potter.

Il giorno che impazzisce Harry Potter c'è il sole, la prima azione che fa Harry Potter quando impazzisce è prendere per il collo la sua civetta e staccarle la testa, la moglie infatti trova Harry Potter seduto per terra in cucina con la testa della civetta infilata sui rebbi di una forchetta, Harry Potter fa ballare la testa della civetta e ha sul volto l'espressione serena di chi osserva vicende che riguardano gli altri, ogni tanto sibila, Harry Potter, parla da solo in serpentese e ride alle sue stesse parole, ride e ride e ride, sempre in serpentese, tanti piccoli sibili in crescendo, in seguito hanno provato in tutti i modi a trovare una causa specifica per il delirio di Harry Potter, a risalire al trauma, indagare il fattore scatenante, ma niente, non si è mai capito perché Harry Potter è impazzito il giorno del suo compleanno, all'inizio l'opinione più diffusa riguardava l'impossibile ritorno di tusaichi, ma col passare dei mesi e degli anni venne progressivamente accantonata, Harry Potter impazzito, una realtà da nascondere, da ritenere momentanea e ignorabile, Harry Potter sarebbe tornato sano, anche la voce narrante lo sperava, di più, ci credeva, la voce narrante diceva vedrete che prima o poi Harry Potter guarirà, intanto però non si poteva più narrare la sua storia ai bambini senza temere la domanda fatidica, la bocca dell'infanzia a chiedere adesso dov'è Harry Potter, cosa sta facendo Harry Potter adesso, perché non mi dici la verità su Harry Potter, cosa mi nascondi, niente amore mio, niente, è tutto a posto, va tutto bene, adesso dormi, ma le voci girano, strisciano sotto le porte, e la testa della civetta veniva sempre a galla, i bambini chiedevano ma è vero che ha staccato la testa della civetta e tu dovevi dire no, Harry Potter no, certo che no, cosa ti viene in mente, chi ti racconta certe sciocchezze.

Il vecchio Harry Potter, del tutto rimessosi, completamente recuperato, indossa sempre guanti di pelle, cappello di feltro, occhiali scuri, usa il bastone il vecchio Harry Potter, e nessuno gli nomina il periodo che è stato malato, nessuno ha il coraggio di dire a parole quello che si legge sulla faccia di vecchi amici, conoscenti, affezionati ammiratori, ovvero tu sei impazzito, Harry Potter, sei impazzito il giorno che hai compiuto i 40 anni, lo sai tu e lo so io, dentro di te ci sono le ceneri del te stesso impazzito che ha staccato la testa alla sua civetta ridendo in serpentese, anche se adesso sembri tornato normale abbiamo tutti paura per te, tu Harry Potter compreso, si teme una tua ricaduta, un ritorno di fiamma, una mancata compensazione emotiva, se almeno avessimo scoperto il fattore scatenante, il pensiero che la voce narrante ha rivelato agli spettatori e al pubblico pagante, ora saremmo più tranquilli e prudenti, in qualche modo premuniti e addestrati a evitare argomenti delicati, opinioni pericolose, e invece ogni pensiero diventa bollente incontrando Harry Potter che passeggia a testa bassa, la leggera zoppia così perfetta nella sua metronomia da apparire simulata, certe volte non puoi fare a meno di salutarlo, di scambiare due chiacchiere inoffensive sul clima, sulle notizie di attualità, giusto per fargli capire che c'è ancora qualcuno che lo stima, Harry Potter, che gli vuole bene, nonostante, ecco, sia stato per un certo tempo diciamo così impazzito, ma solo un po', solo in parte, infatti Harry Potter si vede che ne è uscito alla grande, senza spiacevoli conseguenze a livello fisico, a parte quella zoppia che sappiamo entrambi essere finta, è messa lì per fare scena, una sfaccettatura caratteriale per dare spessore a un personaggio che rinasce a se stesso.

Stiamo parlando di Harry Potter, non so se mi spiego, che ha sconfitto e distrutto anche il peggiore dei nemici interiori, il nostro amato eroe Harry Potter ha avuto la meglio nientemeno che sulla follia senza riportare contraccolpi nel fisico, a parte la zoppia che manco si nota, né strascichi alla psiche evidenti, perché di entrare nella setta è stata una scelta voluta e a lungo meditata di Harry Potter, non è onesto metterla in relazione con, diciamo, come vogliamo chiamarla, malattia o semplice disturbo passeggero, in quanto è frutto di una trasformazione radicale del credo di un uomo come Harry Potter che non ha mai avuto paura di esplorare l'impossibile, il diverso, di andare contro le credenze comuni, di sostenere le proprie idee con ogni mezzo, Harry Potter incarna l'eroismo che difetta nella gran parte di noi, e dunque eccolo a dimostrare teoremi geometrici, a deridere i sortilegi degli incantatori, le pozioni delle maliarde, gli amuleti degli stregoni, i sortilegi degli indovini, non ha importanza il suo mutato atteggiamento nei confronti del magico, il sentimento critico che anima il razionalista Harry Potter, il redivivo Harry Potter, quel che conta per noi è che Harry Potter sia tornato, Harry Potter adesso sta bene, Harry Potter è di nuovo in mezzo a noi, sta benissimo Harry Potter, ora è felice, molto felice, e manda a tutti i suoi fan un abbraccio e un caloroso saluto, gridiamo viva Harry Potter, resta con noi Harry Potter, salvaci tu Harry Potter, Harry Potter, Harry Potter, Harry Potter, Harry Potter.

martedì 22 febbraio 2011

Stranu storiu.

Stanotte ho sognato che le parole finivano tutte per U, e le stanze di casa erano vuote. Era vuoto il bagno, avevano portato via anche i rubinetti e i bottoni della luce. Era vuota la cucina, non c'era più lo stipetto dove ci tengo le mie brioscine preferite, al suo posto un segno sul muro, come quando togli la maglietta e si vede il segno dell'abbronzatura sul collo e sulle braccia. La mia casa era senza maglietta e sentivo freddo al posto suo. Correvo in giro cercando di fermare le persone che mi stavano svuotando la casa ma era troppo tardi, non ho trovato nessuno. Ho pensato che non è possibile far uscire tanti mobili così in fretta, che forse era un trucco da mago, una illusione, ma avevo paura di allungare la mano e scoprire che era vero, che non c'era più niente da toccare. È stato lì che mi sono accorto che c'era il re cattivo dei cartoni animati, non mi ricordo mai come si chiama, solo che non era più cattivo, aveva la faccia di chi ha paura a dirti perfino una cosa gentile perché ci sono delle volte che qualsiasi cosa dici lo fai piangere e allora è meglio stare zitti e fermi, guardare da un'altra parte, aspettare che passi da solo.

A volte lo so che è un sogno ma sono troppo stanco per svegliarmi. Preferisco accettare la tortura di un sogno come questo piuttosto che fare lo sforzo di aprire gli occhi, di alzarmi dal letto che magari fuori c'è ancora buio, è tutta fatica sprecata. È come quando sono scivolato sulla pietra, eravamo in due quella volta, due bambini obesi, lui più obeso di me, a prendere la rincorsa. Era uno scoglio piatto, molto lungo, con sopra delle alghe che divennero una poltiglia verde marrone dopo qualche scivolata. Vediamo chi arriva più lontano, era la sfida, e si rideva. A un certo punto, nel mezzo della scivolata, ho perso l'equilibrio e ho picchiato la testa, dietro, dove c'è la nuca. Mi sono rialzato e ho detto non è niente, vergognandomi, ho fatto finta che non vedevo ombre che non dovevano esserci, che non mi sentivo frastornato. Non bisogna mai pensare al peggio, certe cose succedono solo se ci credi, si nutrono della tua paura, lo sanno tutti. Mi sono concentrato sullo schivare la paura ma per quanto mi gettassi di lato riusciva sempre a scartare e a toccarmi, non sono mai stato bravo a giocare a ce l'hai.

Il re cattivo dei cartoni animati indossava la sua maschera da combattimento e quando ha capito che poteva parlarmi senza farmi scoppiare a piangere per niente, il pianto senza motivo che ogni tanto non riesco a trattenermi e mi sembra di essere tornato piccolo piccolo, il re cattivo ho scoperto che era buono nel sogno e mi ha detto “Hannu portatu viu puru lu tivvù”. Ho pensato che fosse uno scherzo per farmi ridere, come le esse allungate dei serpenti che a me fanno sssssempre ridere tantissssssimo. Invece sapevo che c'era una malattia nel sogno, parlavano tutti così, finendo le parole con la U, e la malattia era così pericolosa che la gente non si accorgeva di parlare strano, si sentiva normale, o forse non voleva produrre nutrimento, non voleva servire porzioni abbondanti di paura alla malattia. “Non sonu malatu”, ha detto il re non più cattivo, per difendersi, ma la sua faccia è diventata molto grigia e i suoi denti molto sporchi. Adesso era lui quello che era meglio non parlarci assieme, mi sembrava un re piccolo piccolo adesso che lo guardavo bene da vicino, nel mondo vero, se così posso dire di un sogno.

Il mio amico più obeso di me ha chiesto se stavo bene, se doveva andare a chiamare un adulto, ricordo bene che disse adulto e non grandi, non disse chiamare i grandi. Ha chiesto “Ti esce il sangue?” Ho controllato con la mano, faceva molto male e si stava gonfiando ma non c'era sangue. Se non c'è sangue è una bella cosa, vuol dire che non è grave, solo un bambino fa tante storie per una ferita che non esce neanche il sangue. Ho detto no, e lui mi ha guardato negli occhi e ha detto “Sei sicuro?” Ho detto sì, adesso torniamo indietro, ho sete. Non volevo svenire, che per il resto della vita il mio amico molto più obeso di me sarebbe andato in giro a dire che io quella volta ero svenuto, lui che pisciava ancora a letto e io però lo mantenevo il suo segreto. Non avevo sete, volevo solo sdraiarmi, chiudere gli occhi un pochino. Lui è sembrato felice per la mia idea, non vedeva l'ora di cavarsela, ho capito da come camminava veloce e in silenzio, guardando per terra, che si sentiva responsabile, che stava già inventando scuse per quando gli avrebbero dato la colpa. Perché io nelle sue fantasie sarei morto e lui sarebbe finito in prigione.

“Tu stu passandu”, ha detto il re non più cattivo. Si indicava con dito il dietro della testa e non capivo, pensavo volesse farmi invidia per la corona, come dire guarda qua io ho una cosa che tu no. Poi ho ricordato la scivolata, la botta, il bernoccolo pulsante, la gran voglia di dormire che ti viene quando non ne puoi più di stare sveglio. Ricordavo uno stregone con una collana di teschi che forse era una cravatta, con un forcone per infilzarmi la lingua che forse era solo un cucchiaio, ricordavo di aver pensato lasciatemi stare, voglio solo dormire ancora un po'. Ricordavo delle piume, vortici di piume. “Hu setu”, ho detto al re non più cattivo che non mi ricordo mai come si chiama, e non mi sono accorto, nel sogno, di aver preso anch'io, come tutti gli altri, la malattia delle U finali. “Per beru tu devu svegliaru”, ha detto il re con la voce che usa per comandare gli eserciti in battaglia nell'ultimo episodio, quello della battaglia finale. Quando apro gli occhi è mattina e sono tutti contenti di vedermi, dicono finalmente, dicono meno male, e scopro di aver dormito due giorni e due notti di fila.


lunedì 21 febbraio 2011

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (36 di N)

Quando c'hai un figlio c'è chi vuole che diventi la punta di diamante della famiglia, il punto apicale di un'epopea dinastica. Figli che devono eccellere negli studi, trovare un ottimo posto di lavoro, praticare un mestiere gratificante e ammirevole, concludere un buon matrimonio. C'è chi considera lo scopo dell'essere genitore il forgiare un elemento della società meritevole di finire negli annali, un ritratto a olio che decori la biblioteca di un'università prestigiosa, il campione in grado di ispirare le generazioni future. In pratica c'è chi chiede ai figli di incarnare quello che sarebbero divenuti loro stessi se avessero avuto se stessi per genitore. Se io avessi avuto me come padre, il sillogismo, ora avrei realizzato i miei sogni, l'errore è nell'usare 'miei sogni' al posto di 'suoi sogni'. Ma forse hanno ragione loro, forse il motore del progresso dell'umanità lo dobbiamo a genitori che costringono i figli a soddisfare criteri di approvazione al alto contenuto di severità, al prezzo di implacabili sentimenti di persistente inettitudine o di vanitoso e patetico narcisismo.

A chi piacerebbe un figlio che non raggiunge gli obbiettivi che si pone. Quando c'hai un figlio perché porre limiti all'ambizione? Si deve mirare in alto, si deve avere fiducia nella proprie capacità, si devono utilizzare tutte le armi possibili per occupare un posto. Quando prendi qualcosa nessuno ti viene a dire che non te lo meriti, che le tue caratteristiche sono inadeguate. Sei giustificato dal fatto di esserti calato nella parte, la dimostrazione del tuo diritto è chiaramente esposta nell'atto del possedere, dell'utilizzare, del rivendicare. L'ambizione, che motivazione strampalata e autoreferenziale. Essere disposti a tutto pur di, sentirsi reietti e falliti e miserabili nel caso in cui. Perché chi non risica non rosica, chi va lecca e chi sta secca, chi si accontenta non è vero che gode e se gode nell'accontentarsi è un perdente. Tutto ormai si valuta sul binomio vincente-perdente, il premio-punizione terreno di derivazione protestante, puoi solo vincere o perdere, non esiste via di mezzo che non sia mediocrità, grigiume, insipienza, vorrei ma non posso, scarso impegno e mai scarsa capacità.

L'ambizione. Ambire, viene dal latino ambitum, andare intorno. A quei tempi c'era gente che si dava un gran daffare per ottenere i favori dei potenti passando le giornate a rincorrere tutti coloro in grado di intercedere, di metterci una buona parola. Chi ambiva era colui che si affaticava per farsi notare, per entrare nelle grazie, per ottenere appoggio e protezione. L'ambizioso blandiva e corteggiava i potenti per ottenere a propria volta un ufficio, una prebenda, un incarico, una rendita. Almeno la possibilità di fare gavetta se non di agguantare direttamente il successo. Qualcuno sostiene che di questi tempi le cose vadano diversamente. Che l'ambizione venga premiata in base al merito effettivo, concreto e misurabile. Sembra una cosa molto scientifica, oggigiorno, l'ambizione, e molto giusta. Pensatela come vi pare. Dal canto mio, se ancora non s'è capito, detesto e rifuggo l'ambizione. È vanità, direbbe Quelet. Ma senza ambizione occorre trovare altre spinte motivazionali, ragioni obsolete che non vanno più di moda.

Quando c'hai un figlio vuoi che un giorno lui si volti indietro a guardarti e non dica mio padre era privo di ambizioni, ecco perché non ha mai nemmeno provato a vincere. È questo che alla fine governa le piccole vite di noi piccole menti umane, è la psicologia spicciola dell'evidenza non va dimostrata a suscitare il battito di farfalla che innesca uragani. Alla fine non è per i soldi, per il sesso, per la fama, per il potere. Quando si affronta l'idea della morte si scopre che di noi sopravvive più che altro il bisogno di essere ricordati, con rispetto, con nostalgia, con affetto. Da gente di cui non ci importa nulla? Da masse sterminate di fanatici? Per alcuni magari sì, tipo i dittatori e gli insicuri. Ma di solito no, ci interessa dare qualcosa di noi, la nostra carne e sangue di transustanziazione casereccia, alle uniche persone che dal primo momento in cui fanno la loro comparsa, luce da luce, diventano il fulcro della nostra esistenza: i figli. Se così non è allora c'è qualcosa di storto nell'equilibrio psicologico di un aspirante genitore.

Comunque quello che volevo dire è tutt'altro. Ero partito con l'idea di raccontare come abbiamo giocato ieri, mio figlio ormai quasi seienne ed io, qualche aneddoto divertente, non so perché son finito nel serio. Del ninjago, del togliere le rotelle alla bici, dei funghi sulla pizza spacciati per olive, dei cruciverba per bambini, del vantarmi di come mio figlio non abbia mai, dico mai, neanche una volta, pisciato a letto. E invece ecco un predicozzo arzigogolato (ah-ah-ah) sulle ricadute dell'ambizione. Forse ho bisogno di un periodo di vacanza, giorni senza tv, radio, web, niente, solo libri e silenzio. Magari uno pensa che siccome scrivo parecchio (mi son beccato del grafomane, a me che sembra di scrivere poco), allora sono un chiacchierone nella vita, in realtà invece a me piace molto il silenzio, posso stare zitto per ore, per giorni, per mesi. La parola è un po' come l'ambizione, spesso la si pratica per supplire a una mancanza, per riempire un vuoto.

giovedì 17 febbraio 2011

First In Last Out (1 di M?)

Lo scossone, alla stessa ora, con la mano che fa presa sulla spalla destra e impiega sempre la medesima quantità di forza. Lo scossone del risveglio, accompagnato da parole specifiche, pronunciate col solito volume e tono di voce. Lo scossone che dura il tempo di tre spintoni contati, mai due o quattro, dosati con un ritmo dalla velocità bloccata.
“Sveglia”, sono le parole che dice, “ È giorno.”
E un altro giorno comincia, identico al precedente, e il nostro protagonista, che chiameremo con il nome di fantasia 1234, come il personal identification number nei dispositivi vergini, il numero preinserito durante la fase di post produzione, immediatamente prima del controllo qualità. A volte questo numero è formato da quattro zeri, ma li implicazioni filosofiche di una scelta siffatta ci esporrebbero a sospetti, facendoci esporre il fianco a fondate accuse di complottismo, doppio significatismo, insinuazionismo.
“Sveglia”, dice la mamma di 1234, o quella che per lui corrisponde a una mamma. Non avendone sperimentate altre, non volendo supporre di aver passato l'intera sua vita nella falsificazione, 1234 considera la donna che lo sveglia con lo scossone standard, modulato in tre tempi, la mamma di tutte le mamme, la mamma esattamente come dovrebbe essere una mamma, ovvero una Madre, infatti quando parla di lei, per motivi tuttora sconosciuti, ha smesso di dire mamma e ha iniziato a dire Madre, con la maiuscola espressa da un suono di M ben definito, voluto, una M che è in grado di essere onomatopeica, di esprimere una bocca sigillata che non trova le parole, e allo stesso tempo di rispettare il simbolo che tutti i simboli racchiude, proprio la M con i suoi muri e il suo architrave capovolto, le zampe ben piantate e le sopracciglia aggrottate. Sono i pensieri inconsci che 1234 percorre ogni mattina, al risveglio, una moltitudine di pensieri che si condensano come una stella morta e vanno a formare l'occhio del ciclone, il cerchio di calma immobile nel quale troneggia una grossa M che potrebbe essere quella di mamma o quella di madre, entrambe in grado di collassare su se stesse e intrappolare qualsiasi forma di luce, in un tempo oggettivamente così breve da essere inudibile, ma soggettivamente così lungo da suonare come un infinito emmeggiare.
Oggi si alza facendo attenzione, 1234, seguendo il metodo che ha scovato in un manuale di riflessologia indiano, o almeno pareva indiano a giudicare da certe illustrazioni tratte dalla mitologia religiosa orientaleggiante, anche se l'artista aveva modernizzato i soggetti per renderli più familiari all'occhio del fruitore, per rendere gli antichi concetti più abbordabili, si vedevano infatti acconciature da televisione in bianco e nero, roba abbastanza recente, di sicuro più vicina dei corpi pitturati con lunghe oscene lingue che sbucano da mandibole zannute, per non parlare degli occhi sporgenti vagamente rettiloidi. 1234 ripete mentalmente le fasi tecnoaiurvediche: prima sollevare il busto, reggendosi sui palmi sovesciati all'indietro per favorire il flusso energetico del chi, assicurarsi di utilizzare correttamente il diaframma sollevando i piedi, entrambi con tempo rane mente, c'era scritto così, forse un errore del traduttore, tempo rane mente, 1234 era convinto ci avesse messo il dito una potenza superiore, provocando un contatto elettrico nel cervello di tutti gli individui che hanno avuto a che fare col processo di realizzazione del testo, per fare in modo che il trittico di tempo e rane e mente rifulgesse intatto nelle mani del fruitore in cerca dell'illuminazione.
Rimane un po' così, seduto sul bordo del letto a guardarsi i piedi, cercando di visualizzare correnti energetiche variopinte nei polpacci, singole unità di chakra, o era karma, che dalla punta dell'alluce zampettano verso l'alto, verso il centro della sua mente, a portare nutrimento di amore, di felicità, o a piazzarsi come rane in mezzo allo stagno dell'anima. 1234 resta in ascolto, aspetta, finché la mamma, la venerabile Madre, pronuncia il richiamo, emette il primo avvertimento formale sotto forma di “Sbrigati.” Solo a quel punto 1234 si alza e si dirige in cucina.
“L'hai già letto”, dice 1234 osservando il giornale sul tavolo.
“No che non l'ho letto.”
“Mamma, si vede, me ne accorgo se un giornale è già stato aperto.”
“Ti dico di no, forse è stato tuo padre.”
Nella mente di 1234 la rana spicca un balzo, butta fuori la lingua e prende al volo il seguente pensiero: papà dice chiedi alla mamma, mamma dice chiedi a tuo padre.
“Non significa niente”, dice 1234.
“Che cosa?”, dice la Madre spadellando le uova nel suo piatto della colazione, quello di quando era piccolo, con il paesaggio montano, piatto che gli venne omaggiato da un proprietario di locanda durante una vacanza della quale 1234 non serba alcun ricordo, il piatto che da anni svolge la sua funzione di piatto della colazione di 1234. Le uova hanno un buon odore, pensa la rana masticando il pensiero dal sapore di uova, 1234 sbatte le palpebre e pensa di essere ancora sonnacchioso perché ha perso il filo del discorso.
“Sto dicendo che me ne accorgo se lo leggi perché le pagine diventano come stropicciate, non più, come dire...”
“Adèse?”, interviene il padre. 1234 non sa dire perché, si vergogna un po' di ammetterlo anche a se stesso, ma padre non ha la P maiuscola.
“Sì, insomma, l'elettricità statica si perde”, finisce 1234, e aggiunge rivolto al padre: “Questo volevo dire.”
Il padre annuisce, tenendo gli occhi bassi, controllandosi le unghie.
“Quante storie per un giornale”, dice la Madre buttando il piatto sul tavolo. Anche questo modo di fare, quanto dà sui nervi a 1234. Perché non lo puoi semplicemente appoggiare con garbo? La rana spicca un balzo e si nasconde nel fango, sul fondo.
“Perché dovrei aprirlo se da come vi comportate capisco subito che anche oggi niente?”
“Ti sbagli”, dice il padre, “So che ci tieni, non mi costa niente evitare.”
E tu, pensa 1234, perché non posso mai arrabbiarmi con te per qualcosa, perché non fai qualcosa di sbagliato, una volta tanto?
“A te non interesserebbe comunque”, dice 1234, e apre il giornale facendo più rumore possibile, arrivando a strappare via la pagina degli annunci di morte.
“Adesso calmati”, ordina la Madre, col tono che usa con la propria di madre, quand'ella si lascia prendere dai ricordi e parte coi rimproveri diretti a un uomo già morto, che come ultimo dispetto nei suoi confronti non è nemmeno riuscito a impedire la propria morte. La Madre dice le esatte parole, cadenzate, servite fredde e senza contorno, dice solo “Adesso calmati” e la nonna ammutolisce, perde lacrime silenziose e non singhiozza nemmeno una volta.
“Non mi voglio calmare!” Nelle intenzioni voleva essere un grido ma gli esce un borbottio, al quale segue una forchettata di uova per interrompere una sequenza immaginaria che rischia di comprometterlo, di chiuderlo in un angolo.
Il padre si schiarisce la gola. La Madre, 1234 ne è certo, lo fissa con il sopracciglio alzato, pronta a strappargli la vita con un incantesimo che solo i figli più ingrati rendono attuabile. Sfidami, dice il sopracciglio, vediamo fin dove puoi arrivare prima che l'anima ti scappi fuori dal corpo per volare nella mia mano come un uccellino spaventato.
“Vedi?”, dice 1234, la voce di uno che sta cercando di giustificarsi, “Nessun vecchio morto.”
Il padre butta fuori l'aria che sta trattenendo e si rilassa al punto che sembra sgonfiarsi sulla sedia, beandosi della salutare e prevedibile routine domestica, ora la Madre rinnoverà le speranze del figliolo, il ragazzo si rassegnerà a un domani slittato a domani, e lui potrà scommettere di avere una famiglia con chiunque si azzardi a sostenere il contrario.
“Sono anziani”, dice la Madre, “Prima o poi se ne vanno, lo lasciano il posto ai giovani.”
1234 mastica le uova e sente un pezzo di guscio fra i denti, la rana torna a galla, affiora per respirare e dice anche Lei è vecchia, e Lei ha la L maiuscola, ma forse è un problema di morfologia boccale anfibia, è un'allucinazione percettiva, 1234 non capisce davvero a chi si riferisca la rana, continua a masticare e pensa può capitare, non voglio ferirla, e infatti non dice niente, annuisce ancora e con l'aiuto di un pezzo di toast manda giù le uova e il guscio e tutto il boccone.
“Tua Madre ha ragione”, dice papà, “Ha sempre ragione.” E questa è una delle poche volte che 1234 non capisce cosa intenda dire suo padre, nel senso di dire per davvero, nel senso di lasciar intravedere per mezzo delle parole l'intimità dei propri sentimenti. Sempre ragione, cosa intendi dire esattamente? Sei ironico, sei sottilmente perfido, sei rassegnato all'inevitabile? Cosa sei, papà? Come sei diventato così come sei? Dov'è la manopola per metterti a fuoco, sei privo di definizione, papà, sei granuloso e sfarfallante.
“Non ti capisco”, dice 1234.
“Lo so, figliolo”, dice il padre, sorridendo come sorride quando vuole fargli credere di essere stanco anche se non lo è, quando chiede di poter scegliere il canale alla televisione sapendo che non è il suo turno, quando gli fai una domanda alla quale non ha e non avrà mai alcuna intenzione di rispondere.

mercoledì 16 febbraio 2011

Livelli.

nava il telefono nel sogno che stavo sognando il sogno nel sogno come in quel film intendo il sogno di secondo livello era brutto ma il sogno di primo livello non era brutto né bello nel sogno di primo livello mi agitavo nel sonno per via del sogno di secondo livello che invece era brutto nel sogno di secondo livello stavo discutendo e non ne venivo a capo perché la persona che avevo di fronte era robotica era burocratica era grassa prima di tutto era una persona grassa non di quelle allegre ma di quei grassi arrabbiati col mondo perché pensano di essere malati e che i magri li prendano in giro e questo è falso ma è anche vero non lo posso sapere nel sogno di secondo livello non posso sapere se ha ragione o meno di essere arrabbiato posso solo sapere che sto perdendo tempo che sto in qualche modo morendo nel senso di perdendo la vita è un sogno brutto quello di secondo livello per la certezza che la mia vita si stia consumando da qualche parte mentre cerco di capire se chi ho di fronte abbia ragione o meno di essere arrabbiato quando si fa largo la certezza che non potrò venire mai a capo di niente prima che scada il tempo che suoni il gong che si spengano le luci e però tutto questo non mi crea problemi è solo un sogno che sta facendo il me stesso che sogno e quindi non è che lo sto sognando io direttamente è più come se lo sognassi mentre faccio altro come quando parli al telefono e intanto scarabocchi il sogno brutto di secondo livello sono gli scarabocchi e quando avrò finito il sogno di primo livello ne farò una pallina e me la butterò alle spalle quand'ecco che suona il telefono nel sogno di primo livello io sto ascoltando Gerry Scotti che non è grasso e non è arrabbiato Gerry Scotti è magro come Gandhi Gerry Scotti assomiglia a Gandhi anche di faccia Gerry Scotti porta gli occhiali con la montatura di Gandhi è vestito con un lenzuolo come Gandhi è venuto a casa mia Gerry Scotti per lamentarsi con me di certi fatti di certe situazioni di certe caratteristiche del programma di quella china che secondo lui ha preso la televisione e il Gerry mahatma Scotti mi sta dicendo quanto si sente responsabile di tutto e mi sta dicendo che lui sa benissimo di non avere nessuna colpa quando suona il telefono e alzo un dito per scusarmi con Gerry mahatma Scotti e anche il me stesso che sta sognando il sogno di secondo livello alza il dito e anche nel sogno di secondo livello viene alzato un dito con l'intenzione di placare la rabbia del grasso complessato in modo tale che le dita alzate vadano a formare sbarre di carne diventando la graticola del confessionale dietro il quale rispondo al telefono e sento la voce di Franzen anche se io mai l'ho sentita dal vero ma so che è la voce di Jonathan Franzen che mi dice felice col tono di chi sta comunicando una buona notizia mi dice non mi sento più le gambe ho freddo e non mi sento più le gambe e io gli chiedo sì ma ce la fai a scrivere e lui dice no non credo di farcela e basta cade la linea si scarica la pila il telefono diventa un giocattolo per bambini non c'è niente da fare penso che stava scherzando penso beato te penso tanto vale che torno di là e così faccio esco da quello che scopro essere uno scatolone da trasloco e Gerry Scotti è andato via e anche il me stesso che sognava il sogno di secondo livello nel frattempo si è svegliato è andato via e sono così contento di trovarmi solo che me ne vergogno al punto che prima di sorridere dico a bassa voce c'è qualcuno dove siete c'è nessuno e penso lo devo dire a Franzen non mi crederà mai ma il telefono è finto allora ripeto a voce un po' più alta ve ne siete andati via tutti per davvero o vi state solo nascondendo per farmi uno scherzo per farmi sen


martedì 8 febbraio 2011

Ri-epiloghi (2 di 2)

G. aveva una vespa cinquanta verniciata di solo antiruggine, quello color mattone. La trovano parcheggiata al lato della sterrata che corre tra il canale e la ferrovia. Non buttata in terra, non scagliata nell'acqua. Ha le chiavi inserite, non è una dimenticanza. Siamo in primavera, potrebbe essere entrambe le cose: risucchiato da una corrente o schiacciato dal treno. Alcuni dicono che ci sono volute ore per trovare tutti i pezzi, altri si ostinano a riferirsi all'accaduto usando la parola incidente. Ha parcheggiato, ha lasciato dentro le chiavi, è ovvio che intendeva tornare indietro, come si fa a dire che non è un incidente, che l'ha fatto apposta.

G. non aveva soldi, vendette la catenina d'oro del battesimo per comprare del fumo che non faceva neanche ridere, tanto era scadente. Lo fece per sdebitarsi con gli amici, così pensarono F. e T., prima di capire che era stato un regalo d'addio. Gli amici, se si possono chiamare così gli unici coetanei del paesello, un posto dove conta chi e come ti ha truccato il motorino, conta se sei uno che va incontro al rischio di fare a botte per difendersi da un'offesa o se sei uno che lascia perdere, che ha qualcosa da perdere, una reputazione da difendere che non sia quella del ragazzo che è meglio non infastidire. Gli amici, quelli che frequentano il parchetto vicino alla chiesa, con i quattro giochi arrugginiti che non usa mai nessuno, quelli che non si ritrovano a casa l'uno dell'altro per mangiare cose buone e giocare a giochi belli, che non vanno in palestra, in piscina o un qualunque posto dove per entrare si deve pagare. Gli amici che un giorno F. è arrivato con in tasca una cosa proibita e i bambini che giocavano al pallone si sono trasformati in quello che sono adesso, qualcosa che non ha un nome pronunciabile ad alta voce, qualcosa che spaventa le persone per bene.

G. ha mollato la scuola per andare a lavorare, i soldi in famiglia non bastano mai, se vuoi continuare a vivere con noi devi contribuire. G. molla la scuola e va a lavorare, sulla sua vespa antiruggine, convinto che sia la cosa giusta da fare, che tanto non sarebbe mai diventato qualcuno, che tanto la scuola ti porta a lavori che stai sempre seduto e ti ammali e diventi pure stronzo di carattere. Al lavoro di giorno e la sera al parchetto con gli amici per una partitella al pallone prima di cena, all'inizio, per farsi le canne, in seguito, per calarsi di brutto, alla fine. Che G. a quel punto partecipava come spettatore, limitandosi al fumo, andando a casa quando si iniziava a far sul serio, che lui doveva alzarsi presto, doveva essere pronto a lavorare, non poteva permettersi di venire licenziato e smettere di portare soldi a casa. Gli amici invece si lasciavano andare, F. diceva che la droga ti fa avere tutto, i soldi con lo spaccio e anche le ragazze, dopo un po'. G. si spettava di veder comparire la polizia, sera dopo sera, ma la polizia non arrivava mai. G. si chiedeva se la chiamassero e non si disturbasse a intervenire, come se lo ritenesse inutile, o se nessuno si prendesse nemmeno la briga di chiamarla, dandoli ormai tutti per spacciati, per abitanti di un altro mondo, come quando sua madre al mercato si voltava dall'altra arte per non vedere un mendicante.


G. non aveva una ragazza. Come l'avrebbe mantenuta una ragazza, dove l'avrebbe portata? Se vuoi una ragazza devi essere in grado di tenere la testa alta, di garantirle sicurezza. F. non si faceva di questi problemi, lui iniziava dicendo vuoi fare un tiro e diopo un po' le sue ragazze lo chiamavano per la dose e pagavano in natura. F. che era pazzo, e anche T lo era, entrambi impazziti di eroina, pasticche, cocaina, che l'hashish per loro era come bere acqua di rubinetto. Era pazzo vero, F., si convinceva che le ragazze lo tradissero, si accorgeva che stavano con lui solo per la droga, che non lo amavano davvero. F. ci impazziva e si sfogava contro la verità picchiandole, a volte con foga, come quella ragazza a cui provocò un taglio sullo zigomo per poi scusarsi dicendole tanto una cicatrice ce l'avevi già da prima. F. e T. che quando iniziano con la roba forte parlano sempre delle stesse cose, dicono che tutti fanno come loro, che i ricchi e i famosi sono come loro, usano solo droghe più costose e scopano donne più belle. Si danno ragione a vicenda, F. e T., mentre G. quella sera dice offro io, e i suoi amici non gli chiedono dove ha preso i soldi, gli vendono un fumo che non fa nemmeno ridere e fanno i nomi degli attori colti in flagrante, dei cantanti soffocati dal loro stesso vomito in lussuose stanze d'albergo. G. vorrebbe far notare che è roba di anni '60, sono passati più di 20 anni, ma sta zitto, aprire bocca non porterebbe a niente, solo a polemiche senza capo né coda.

G. sa che non è vero niente, c'è una parte di sé che rifiuta di afflosciarsi e seccare, la parte che gli suggerisce di riprendere gli studi, di mandare giù l'equivalente aziendale del nonnismo in cambio della possibilità di avere una carriera diversa dai prevedibili scatti di anzianità. La parte che gli dice con voce pacata e ragionevole che potrebbe aspirare alla macchina famigliare, al mutuo sulla casa ancora tutto da pagare. Ma chi vogliamo prendere in giro, replica G. a quella vocina stupida, mi vedi? Vedi chi sono, vedi dove vivo? Accusa la propria famiglia, G., accusa gli avi, accusa la società, il destino, tutte le divinità che gli vengono in mente. Due settimane prima di sdraiarsi sui binari era con me giù alla cava, tiravamo fuori pesci gatto tanto per passare il tempo, li pescavamo ributtandoli dentro, G. mi diceva che B. non diventerà mai un campione, che si è rotto la clavicola, per la seconda volta. Finirà barista come suo padre, dice G., e il tono della sua voce mi ha fatto sentire freddo nella schiena. B. stava con quella ragazza, dico io, quella bella. G. annuisce e dice ci stava, sì, quella con la cicatrice, prima che lei accettasse l'invito di F. a fare un tiro, una sniffata, e poi un buco. Al che io gli chiedo ma tu ti droghi? E lui fa spallucce, dice ci vogliono troppi soldi e prima o poi finisci in galera. Ma secondo te, gli chiedo, è vero che si passa dalla leggera alla pesante? G. annuisce, dice bisogna accettare, bisogna sentirsi come uno che ha raggiunto l'ultima pagina, l'epilogo, come uno che se mai ha avuto una storia da raccontare quella storia l'ha già consumata, oppure non se la ricorda più, non sa come va avanti, o lo sa benissimo ma non vuole più sentirla uscire dalla propria bocca. Per un po' siamo stati zitti, e a un certo punto G. ha detto mi sembra che i pesci non abbiano più fame. Sì, gli ho detto, porca troia c'hai ragione, cazzo di budda, andiamocene fuori dalle balle mi son rotto i coglioni di stare qui in questa merda di cava, e non so spiegare perché sentissi all'improvviso tanta necessità di dire parolacce.

G. l'hanno trovato il giorno dopo, sono passati diversi treni nel frattempo, nessuno inizia a cercarti se non sono passate un certo numero di ore dalla denuncia. L'ha trovato uno di quegli uomini che cercano di restare in forma correndo. A volte hanno un cane, a volte si mettono calzoncini da maratona e canotta di rete come se si reputassero immuni dal poter dare scandalo. Per essere precisi trovò la vespa, parcheggiata in modo da non ostacolare il passaggio, con le chiavi inserite una nel quadro e l'altra nella serratura del cassettino, unite da un portachiavi a molla iridescente, di quelli che andavano di moda in quel periodo. Il guaio di essere poveri in un piccolo paese o in un palazzo di periferia è che non puoi scappare quando arrivano i cacciatori, armati di sogni infranti e pezzi di fumo scadente, di rabbia nei confronti della società e di strategie indiscutibili per portare giustizia nel mondo a forza di guerriglia urbana. Liberare gli schiavi, sfamare gli africani, togliere ai ricchi e dare ai poveri, così potranno comprare la droga e anche le pistole. Finalmente basta a tutta questa confusione, a questo odio, a questa continuo insultarci a vicenda. Siamo tutti sulla stessa barca, sono discorsi del genere che fanno F. e T. dopo aver citato Jimi Hendrix e Jim Morrison, imitando le schitarrate con la bocca, nanana vuduciaild laitmaifair. G. non ci stava, quelli ci usano, diceva il sabato sera, l'unico giorno della settimana che non doveva andare a letto presto e poteva restare fuori con gli amici, quelli come lui, i drogati del parchetto vicino alla chiesa. Vanno in tivvù e sui giornali a parlare difficile, diceva G., e mandano noi a prenderci le botte, a gridare e spaccare tutto senza avere un'idea precisa del perché. Gli amici a lasciarlo dire, aspettando che finisca il discorso per rimettere la palla centro zero a zero, non ti ho nemmeno ascoltato. Ridevano, gli amici, dicevano senti come parla G. quando è fumato, ma G. io l'ho sentito parlare così anche da normale. Un vago senso di fratellanza, un lavoro di squadra, dice G. pur sapendo che sono parole buttate, ci dicono solo quelli ci amano e sono dalla nostra parte, quelli ci odiano e dobbiamo schiacciarli. Semplice come un derby, dice G. quell'ultima sera. G. che ha venduto la collanina, ha visto belle ragazze diventare puttane, ha ascoltato per migliaia di volte i discorsi farneticanti dei tossici, G. che ha visto finalmente arrivare la polizia, e quella sera G.fu l'unico che trovarono pulito, l'unico che non venne portato in caserma.

Ri-epiloghi (1 di 2)

Mi hanno spiegato cosa avrei dovuto aspettarmi e io ho creduto ai vecchi, agli esperti, ai saggi, i depositari che nella Bibbia possiedono quella cosa chiamata sapienza. Nella Bibbia non è intelligenza, non è cultura, non è buon senso, non è intuito. È sapienza e viene giù dall'alto, devi aprire la bocca e lasciare che la pioggia te la riempia, che Dio te ne distilli un po' da quell'organo che Dio ha dentro di sé, una sacca pulsante di cose luminose e buone che nuotano una attorno all'altra con apparente disagio, gocce di sapienza per non lasciarti in preda all'ansia, sconvolto dall'incapacità di comprendere nel profondo quanto ti circonda, toccare il noumeno e venire incenerito per l'affronto. Perché non avrei dovuto fidarmi delle facce rugose, dei nonni che quando li baci ti graffiano con barbe dure e ingrigite? Dei libri anche, libri su libri che ti mettono in guardia, che ti raccontano come vanno le cose, come sono andate, come potrebbero andare, così che tu non venga sorpreso dal temporale della sapienza quando pensavi di avere ancora tempo, di poterne fare a meno, perché certe cose succedono solo altrove, solo agli altri, e comunque mai prima che ci sia data la possibilità di affrontarle in modo dignitoso, senza pericolo di venirne inceneriti.

La ragazza era bella, felice anche. Teneva il broncio e scuoteva la testa per muovere i lunghi capelli che poi con un gesto della mano raccoglieva attorno al collo. A quel punto si girava verso di te e sorrideva per farti capire che era ben consapevole del potere che aveva su di te, non aveva segreti il tuo restare immobile a osservarle il broncio, a seguire il gesto meticoloso sempre uguale a se stesso mediante il quale riportava i capelli all'obbedienza, fino al momento del sorriso, del come sei buffo col tuo desiderio immaturo, la tua capacità di farti bastare un'espressione e un movimento per costruirci attorno sogni confidenziali da non più bambino e non ancora uomo. La pelle abbronzata nell'aria umida, la cicatrice portata con la sicurezza di un ricordo d'infanzia, di una partita finita da troppo tempo per ricordarsi vincitori e vinti. Si sentiva corteggiata, si sapeva benvoluta, tutti noi pensavamo che se mai ci fosse stato l'equivalente di un principe azzurro nei paraggi, l'avrebbe scoperta e portava via con sé. E invece no. Il suo sorriso divenne obliquo, il suo sguardo acquoso e a mezz'asta, le costole sporgenti, i capelli opachi e fragili, le gengive sanguinanti.

L'epilogo, ciò che arriva dopo la fine, perché niente finisce mai davvero. La giovinezza, con la lista delle cose da fare attaccata al frigor con la calamita a forma di personaggio dei cartoni animati. Arriva l'epilogo e ti ricordi della lista, vai a vedere se per caso è ancora lì, dopo tutti questi anni, ed eccola, impolverata e sbiadita, la lista delle cose che non hai fatto e ormai più non farai. Si chiama epilogo, quando trovi oggetti che hai appoggiato distrattamente su una mensola quando credevi che ci fosse tutto il tempo del mondo per occuparsene in seguito, cose che rimangono sul piano del tangibile solo per ricordarti tutto quello che volevi fare nella vita, quello che hai rimandato senza nemmeno trovare la forza o l'occasione per cominciarlo, quello che hai iniziato e che hai abbandonato, ora sai per certo di non poterlo completare. Magari uno pensa che l'epilogo arriva giusto prima di morire, una forma di nostalgia senile per infinite vite da recuperare in mondi paralleli, in rinascite future. E invece no. Quanti piccoli epiloghi ci sfiorano quando siamo distratti, quando non ne vogliamo sapere, quando ci ridiamo sopra, quando ci prendiamo il lusso di sentirci esenti, almeno per un altro po'.

Quando vedo che è stata lei a suonare il citofono mi aspetto che dica qualcosa e se ne vada, non che mi chieda di entrare, per parlare. Il principe azzurro che si grattava il naso, che teneva le maniche lunghe anche d'estate, ora non c'è più. Le è rimasta addosso di lui l'occhiata infida, il portamento sconfitto e guardingo, un tatuaggio che lei nemmeno voleva ma che lui aveva tanto insistito. La cicatrice che prima chiedeva di essere blandita ora si limita a impietosire. Sento di vivere l'ennesimo epilogo perché hanno sempre l'identico sapore, amaro, l'odore di idee avute ieri. La ragazza fuma le mie sigarette, una dopo l'altra, spiegandomi che le servono dei soldi, che è venuta per chiedermi un favore, un grandissimo favore, un favore in nome delle vecchia amicizia - quale?, mi chiedo -, un favore enorme e importantissimo. Prestarle dei soldi, e tira su col naso, fuma le mie sigarette e quelle mani che una volta governavano onde di capelli piene di riflessi ora sono appendici nervose che schiaffeggiano l'aria, si muovono senza criterio, solo per il gusto di esprimere disagio. Ha fretta di arrivare al dunque, di sentirmi dire va bene, eccoti dei soldi, ti pago per non rivederti mai più. Come se fosse colpa mia, come se dovessi sentirmi in colpa io per quello che sei diventata tu.

Gli epiloghi li nascondiamo in cantina, nelle soffitte, cerchiamo di sbarazzarcene come fossero le prove dei nostri delitti. Cos'è che volevi fare tu da grande? Cosa ti facevano venire in mente gli oggetti che hai buttato via in solitudine, come si fa quando si vuole elaborare un lutto, i gesti simbolici che in teoria dovrebbero darci una ripulita dentro, in fondo, dove sentiamo piccoli insetti che si riproducono e non possiamo dirlo ad alta voce, lo sanno tutti che non esistono piccoli insetti dentro, nel profondo, che scavano e a volte ridono, oppure è solo un suono immaginato, in realtà non fanno altro che quello per cui sono stati programmati, muovere le zampe con circospezione, compiere interminabili ricerche nel buio. Non ne voglio di sapienza, non so cosa farmene, mi basta avere una lista con sopra una sola parola e che quella parola sia stata consumata, non mi possa più dare noia, mi sia concessa la pace, un simulacro di quiete, una tregua serena. Mi sia dato il potere di cancellare le mie tracce, di non giungere in alcun luogo prefissato, mi venga elargita la facoltà di esercitare il comando sugli epiloghi. Ordino che svanisca ogni pretesa di realizzazione, ogni margine di compimento, che ogni conclusione rimanga inespressa, ogni pretesa si mantenga inevasa.

Quando mento anch'io, dicendo che non ho soldi, lei dice che suo padre la picchierà, che suo padre l'ha già picchiata, che suo padre la picchia per via delle multe, che ha preso una multa e per questo le servono i soldi, i miei soldi, perché altrimenti verrà picchiata. Immagino suo padre che la picchia per aver preso una multa, per non avere i soldi necessari al pagamento della multa. Rido. Non la accuso di raccontarmi bugie, non ci riesco. Lei dice ti prego farò quello che vuoi ma dammi anche poco, non devi per forza darmi tutta la cifra che mi serve, dammi almeno qualcosa, faro in cambio quello che vuoi. Rido ancora, non mi sembra vero di averla sentita dire parole così poco adatte alla bella ragazza che è stata molti epiloghi fa. Adesso sta diventando cattiva, matura il disprezzo che tiene in serbo per quando smetterà di illudersi sulla possibilità di spillarmi quattrini. La voce della ragazza in questo specifico epilogo è diventata roca, le occhiaie profonde, i modi bruschi. Mi chiede qualche sigaretta prima di andarsene, da fumare dopo, e io l'accontento, le regalo quel che rimane del pacchetto, evitando di guardarla negli occhi quando lo afferra e lo ripone in una tasca interna. La guardo andare via - si volta a fare il sorriso dei bei tempi andati, o almeno ci prova, il sorriso che vorrebbe cancellare l'ultima mezz'ora - e chiudo la porta, col terrore di sentirla bussare, tornata sui propri passi, sforzandomi di pensare che ci sia ancora un epilogo diverso per lei, da qualche parte, più avanti, in attesa di manifestarsi.

Epiloghi se ne leggono ogni giorni dei più strani. Morta schiacciata da un semaforo, spara al cane poi si uccide, scivola sul ghiaccio e finisce impalato, trovato dopo sei settimane perché i vicini hanno sentito la puzza. Gli epiloghi, quelli definitivi, sono sempre brutti. Se finisce bene è per un po', mai per sempre. Eppure siamo pieni di storie prive di epilogo, viene nascosto come un parente scomodo, cancellato mediante un colpo di bisturi mentale come fosse un inestetismo della vita e non una pioggia infinita di sapienza che prima ti disseta e poi ti annega. Il diluvio universale lo immagino sempre come un giorno in cui dio era in vena di confidenze e si è messo a scodellare sapienza su sapienza, a lanciare manciate di epiloghi, un esercito di angeli cecchini che prendono la mira e ci ficcano proiettili di sapienza dritti nel cervello. Chi può sopravvivere? Solo uno stolto, un deficiente, una mente impermeabile e ottusa. Beati i citrulli, perché moriranno nel sonno e tutti diranno guarda com'è bello, si vede che non ha sofferto, sembra che sorrida. Beati gli ebeti e i mentecatti, perché non sentiranno la mancanza degli epiloghi né dovranno subirne il verificarsi. Beati loro, beatissimi.

La porta rimane chiusa e ci separa, io di qua e lei di là, stavolta. Non come tanto tempo prima, quando gli epiloghi erano piccoli, insignificanti, la perdita dei denti da latte, la bici senza rotelle, delusioni facilmente comprimibili, digeribili, quando si è convinti di potersi rialzare da qualsiasi caduta, che non esistano ferite sempre aperte. Era entrata e aveva chiuso a chiave la porta dietro di sé, si era slacciata i pantaloni e si era infilata la chiave nell'elastico delle mutandine. Non riconobbi il motivo stampato sul cotone bianco, un personaggio giapponese da femmina che avevo già visto da qualche parte anche se in quel momento non sapevo dirne il nome. Non successe niente, mi rifiutai di stare al gioco. Le dissi solo bello scherzo, adesso apri. E pensavo non so nemmeno come si chiama la roba che hai sulle mutande, e nemmeno lo voglio sapere. Non voglio vincolarmi a te, diventare quello che un giorno, nel passato, ti prese la chiave dalle mutandine. Devi restare la ragazza bella e felice che si copre la bocca quando ride, non la protagonista di un epilogo squallido, buono solo a rovinare tutto, a segnare una parentesi nella sequenza dei ricordi felici. Lei disse all'orecchio delle amiche che forse ero gay, e anche questo è un epilogo, uno dei tanti che formano la catena con la quale ci leghiamo, dentro la quale ci accoccoliamo quando non riusciamo a prendere sonno.

venerdì 4 febbraio 2011

Brazil.

Brazil è un film del 1985 ma chi allora pensava si trattasse di una storia di fantascienza contaminata, uno spettacolo di puro svago immaginifico, una pellicola candidata a diventare rapidamente obsoleta, lo riguardi oggi per scoprire che era invece un avvertimento profetico, capolavoro di avanguardia in quel decennio felice e ottimista.

Una sceneggiatura ricchissima di rimandi e suggerimenti, degna della qualifica di opera letteraria, dove si sprecano i virtuosismi, peraltro interpretati da attori di stupefacente caratterizzazione, efficacissime capacità interpretative, dove la tensione artistica si rivela anche nel finale anticonvenzionale. I costumi, gli effetti speciali (siamo nel 1985, teniamolo a mente), i set dall'aspetto teatrale che rendono la situazione narrativa mediante una qualità espressiva che è andata svanendo con la recitazione da telone verde, la richiesta di una complicità nella sospensione dell'incredulità sempre meno necessaria con l'avvento della manipolazione digitale delle immagini. Ma questo è un discorso nostalgico da vecchi, sempre pronti a rievocare con fastidio i bei tempi andati solo perché non riescono più a godersi i tempi presenti.

Brazil mi ha ricordato un po' 'Fuori orario', anche lì abbiamo un protagonista soddisfatto e integrato, un membro stimato della società che conduce un'esistenza serena, fino al giorno in cui succede qualcosa e quel qualcosa lo obbliga a (ri)scoprire parti nascoste di sé, a mettersi alla prova in un ambiente diventato ostile senza preavviso, adeguarsi a un mondo che c'è sempre stato ma che lui non è mai stato capace di notare. Da quel momento il protagonista cerca di tornare alla normalità, di riparare la realtà, di ritrovare l'umanità in coloro che adesso gli sembrano manichini, come lui stesso era prima del trauma. Si aggrappa alla razionalità, senza trovarla, ai sentimenti, che lo tradiscono, fino a cedere, arrendersi, rigettare la logica e abbracciare la forza dei sogni. Mentre in 'Fuori orario' la resa del protagonista comporta la fine della tortura, il ritorno alla luce del sole, alla normalità, alla prevedibilità, alla vita precedente ingiustamente disprezzata e data per scontata, in Brazil la sconfitta è invece totale, la rottura definitiva, l'esito della scelta di realizzare il sogno è la perdita di tutto il resto: della famiglia, del lavoro, dell'amore, della speranza, del senno. Chi sceglie il sogno passa al di là dello specchio e vi rimane imprigionato.

In Brazil l'umanità ha ereditato un mondo spinto verso l'eccellenza e la perfezione che fallisce e imbocca una parabola di decadenza durante la quale la società applica la rimozione psicologica del problema e finge che tutto stia andando per il meglio. Non vi formicola qualcosa sulla nuca, non vi sembra che il film abbia descritto nel 1985 la realtà di oggi? Ci sono i terroristi, in Brazil, che compiono attentati ai danni della popolazione civile. Ci sono macchine e computer, tecnologia invasiva che domina tutti gli aspetti della vita e sembra essere diventata consapevole del suo potere al punto da boicottare volontariamente ogni nostro motivo di benessere e tranquillità. E la moda, la chirurgia estetica, il pensiero dominante che si esprime nell'elitismo pseudoculturale dell'egemonia mediatica. Insomma, sembra davvero un film girato nel futuro e spedito indietro nel 1985.

Il mondo come una bella casa, costruita da nonni ingegneri e architetti, ereditata da ragazzini abituati a essere circondati dalla servitù e che scoprono una mattina che la servitù in casa non c'è più, e nessuno sa cosa fare, o quando, come, dove. Al posto di farsi prendere dal panico continua come se niente fosse e lascia che si accumuli la polvere, non ripara ciò che si rompe, spera solo che non gli crolli addosso tutto prima del tempo. Questo è Brazil: una strada scavata in un tunnel di cartelli pubblicitari, bare rosa confetto con fiocco di seta, cittadini che diventano terroristi per una burocrazia che commette errori inconfessabili, inammissibili, come uno scambio di lettera in un cognome provocato da un battito d'ali. Allora scattano le procedure, si applicano le regole, gli errori non vengono rivelati né riconosciuti, la responsabilità viene scaricata e tocca al presunto colpevole dimostrare la propria innocenza, impiegando anni di vita, ingenti capitali che, se già non li possiede, potrà chiedere sotto forma di prestito alle banche o, se privo di adeguate garanzie, allo società che si occupa della fornitura energetica nella sua unità abitativa, o agli strozzini.

Brazil aiuta a togliersi l'imbarazzo di ipotizzare un mondo ben governato solo perché gli hanno dato un ufficio, una famiglia, una routine tranquilla. Il placebo di una conquista illusoria, un tranquillante a dosi massicce, come guardare una televisione che trasmette una visione molto più realistica di qualsiasi effetto tridimensionale.

giovedì 3 febbraio 2011

Carriera.

C'era una volta un signore di nome Eustachio che dalla vita aveva ricevuto tutto. Il giorno del suo compleanno Eustachio soffiò le candeline e scoprì di avere ricevuto tutto dalla vita. Guardando le candeline spente pensò che era stato proprio bravo, non fortunato. Fin da piccolo si arrabbiava moltissimo quando qualcuno gli diceva 'Tu sì che sei fortunato', oppure 'Che fortuna hai avuto', oppure 'Hai avuto la fortuna dalla tua parte, sei contento?' Eustachio voleva essere bravo, non fortunato. E comunque non aveva mai avuto fortuna nella vita più di quanta ne avesse avuta chiunque altro. La vita gli aveva dato tutto ma solo perché Eustachio gliel'aveva strappato dalle mani.

Le candeline non avevano smesso di fumare che senti una vocina dire “In cosa consiste la tua bravura, Eustachio?”

C'era davvero uno gnomo con la bocca sporca di crema che stava staccando una fragola dalla sua torta di compleanno? Eustachio si guardò attorno per verificare le reazioni dei presenti, e stava per chiedere 'Lo vedete anche voi?' ma lo gnomo lo precedette.

“Mi vedi e mi senti solo tu, ti ho concesso la fortuna di vedermi e di sentirmi.”

“Non esiste la fortuna e, se esiste, non lo è vedere e sentire un mostricciattolo come te.”

Gli invitati alla festa si voltarono a guardarlo e, pensando che stesse improvvisando uno spettacolo privato, risero e applaudirono, gridarono “Bravo!”

“Puoi parlare in silenzio, ti leggo nel cervello”, disse lo gnomo, “E ti faccio notare che non hai risposto alla domanda.”

“Quale domanda?”, chiese Eustachio con un gesto sprezzante.

“Ti ho chiesto in cosa sei bravo di preciso.”

Eustachio gonfiò il petto e disse “Forse dove vivi tu non mi conosce nessuno, ma la mia fama di animatore ha ormai raggiunto livelli planetari.”

“Davvero? Che fortuna!”, esclamò lo gnomo.

“Non si tratta di fortuna!”, disse Eustachio arrossendo di rabbia, “Ho fatto la gavetta, ho un agenda piena di numeri telefonici, ho contratti pubblicitari milionari, hai visto il mio ultimo spot alla tv?”

Eustachio ridacchiò e aggiunse, a voce alta, rivolgendo agli invitati un sorriso e il suo famoso occhiolino ticchettoso “A proposito, ce l'avete voi sgorbietti la tv?” gli invitati per un momento rimasero sbigottiti ma, non appena qualcuno batté le mani, scoppiò un applauso convinto e una risata prolungata. C'erano persone che si tenevano la pancia dal ridere, altre che gli venivano a stringere la mano per congratularsi per l'ennesima dimostrazione della sua geniale comicità.

“Visto? Il pubblico mi ama.”

“Mi stai dicendo che non si tratta di fortuna?”

“Smettila di nominarla, la fortuna non esiste!”

“Quanto scommetti?”, buttò lì lo gnomo pulendosi i baffi nella manica.

“Quello che vuoi.”

“La tua felicità?”

Eustachio ci pensò su prima di rispondere. Non si sentiva particolarmente felice e decise che non sarebbe stato un gran danno perdere una felicità che non si lasciava percepire. Sarebbe rimasto lo stesso perdendo una felicità che non sentiva di avere mai avuto.

“O la tua fortuna?”, rise lo gnomo, “Scusa, mi ero scordato che per te la fortuna non esiste.”

“Tu dimostrami che ho avuto tutto dalla vita per fortuna e non per bravura e io ti cedo la mia felicità.”

Fuori dalla finestra ci fu un lampo accecante, seguito da un tuono assordante. Quando Eustachio riaprì gli occhi sentiva le orecchie fischiare e si accorse che non era più alla sua festa di compleanno. Lo gnomo gli stava indicando uno specchio alla parete che mostrava la sua faccia, solo che era diversa dal solito, era la faccia di uno sconosciuto.

“Bene, amico mio”, disse lo gnomo, “Fai divertire questa brava gente.” Si riferiva alle coppie eleganti sedute ai tavolini, ai ragazzi che cercavano di nascondere il disagio assumendo pose da giornale di moda, alle giovani che si bisbigliavano all'orecchio pettegolezzi esilaranti tra un ammiccamento e l'altro. Sembrava proprio gente pronta a divertirsi, un pubblico facile per uno bravo come Eustachio.

“Signore e signori, ecco a voi il grande, bravo, non fortunato Eustachio!” annunciò lo gnomo senza che nessuno dei presenti lo sentisse.

Eustachio non si fece invitare due volte, allargò le braccia, tirò fuori un sorriso più volte definito irresistibile dai critici, sparò l'occhiolino ticchettoso a destra e a manca, avanzando col passo baldanzoso di chi ha avuto tutto dalla vita.

Le sue battute provocarono qualche debole risata. Dopo una prima occhiata, molti erano tornati a fare quello che stavano facendo, ignorando completamente Eustachio, l'Animatore con la A maiuscola, quello che fa alzare l'audience e le entrate pubblicitarie, l'intrattenitore più amato nella storia dell'intrattenimento.

Eustachio cominciò a sudare, non stava andando come previsto. All'improvvisò ricordò. Si rivide giovane, spinto dalla sola passione, a far divertire gli ospiti per quattro soldi, a volte nemmeno quelli. Prima di incontrare l'agente, l'amico del produttore, prima di conoscere tutti quei personaggi dietro le quinte che adesso chiamava per nome, come fossero vecchi amici, e allora invece trattava con deferenza.

“Hai vinto, imbroglione di un folletto.”

“Ti ripeto la domanda, Eustachio, all'inizio ti ho chiesto in cosa sei bravo di preciso per esserti meritato tutto dalla vita.”

“Non lo so.”

“Sei più bravo di lui, per esempio?” e gli mostrò se stesso, da giovane, quando fare l'animatore era solo un modo per racimolare qualche soldo e contribuire al bilancio familiare. Un modo che i suoi genitori, pur apprezzando gli sforzi e la buona volontà, consideravano inadeguato per uno della sua bravura, avrebbe potuto aspirare a un posto in banca, o magari alla professione medica, o l'avvocato, anche il commerciante.

Eustachio a quei tempi invocava la fortuna, non pensava affatto di essere abbastanza bravo da strappare alla vita neanche le metà di tutto quello che la vita aveva da dare. La fortuna di incontrare qualcuno che gli aprisse le porte, come si dice, a cui vendere non il corpo ma l'anima forse sì.

“L'anima sì, e la felicità?”, chiese lo gnomo, che gli aveva letto i pensieri.

Eustachio sentì il cuore battere forte e disse “Non so se esiste la fortuna, ma avere incontrato te è senz'altro stata una grossa, gigantesca sfortuna.”

Lo gnomo iniziò a ridere, sempre di più. Più rideva e più gli veniva da ridere. Al punto che dovette obbligarsi a smettere per riprendere fiato. Quando finalmente anche l'ultima coda di allegria fu scomparsa, lo gnomo disse “Hai ragione, sei bravo, non è facile farmi ridere, per cui ho deciso di annullare la scommessa e di lasciarti la felicità.”

Un lampo, un tuono: Eustachio si trovò sul palcoscenico che si stava aprendo il sipario. Trovandosi di fronte il pubblico si sforzò di cancellare dalla mente gli ultimi eventi e di entrare nel personaggio, era quello che la gente voleva e lui gliel'avrebbe dato. Per la prima volta da moltissimo tempo ebbe paura che nessuno avrebbe riso, nessuno avrebbe applaudito, e si sentì molto infelice. Gnomo, mi hai mentito, pensò, ti sei portato via la felicità che non sapevo di avere. In quel momento un addetto, senza essere inquadrato dalle telecamere, si sbracciò invitando il pubblico a esprimere entusiasmo, si accese un cartello luminoso con su scritto 'Applauso' in lettere enormi, la regia fece risuonare negli altoparlanti il rumore di risate registrate.

Eustachio sentì tornare la felicità, era di nuovo l'Animatore con la 'A' maiuscola, è nessuno era bravo quanto lui nell'essere se stesso, e non pensava più alla fortuna, che esistesse o meno non faceva alcuna differenza.

“Quel che conta è il risultato, “disse, “fatemi vedere dove mettere la firma e ditemi quanti soldi mi date, non voglio sapere altro.” La mattina dopo tutti concordavano sul fatto che fosse la battuta più divertente del secolo.