lunedì 21 febbraio 2011

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (36 di N)

Quando c'hai un figlio c'è chi vuole che diventi la punta di diamante della famiglia, il punto apicale di un'epopea dinastica. Figli che devono eccellere negli studi, trovare un ottimo posto di lavoro, praticare un mestiere gratificante e ammirevole, concludere un buon matrimonio. C'è chi considera lo scopo dell'essere genitore il forgiare un elemento della società meritevole di finire negli annali, un ritratto a olio che decori la biblioteca di un'università prestigiosa, il campione in grado di ispirare le generazioni future. In pratica c'è chi chiede ai figli di incarnare quello che sarebbero divenuti loro stessi se avessero avuto se stessi per genitore. Se io avessi avuto me come padre, il sillogismo, ora avrei realizzato i miei sogni, l'errore è nell'usare 'miei sogni' al posto di 'suoi sogni'. Ma forse hanno ragione loro, forse il motore del progresso dell'umanità lo dobbiamo a genitori che costringono i figli a soddisfare criteri di approvazione al alto contenuto di severità, al prezzo di implacabili sentimenti di persistente inettitudine o di vanitoso e patetico narcisismo.

A chi piacerebbe un figlio che non raggiunge gli obbiettivi che si pone. Quando c'hai un figlio perché porre limiti all'ambizione? Si deve mirare in alto, si deve avere fiducia nella proprie capacità, si devono utilizzare tutte le armi possibili per occupare un posto. Quando prendi qualcosa nessuno ti viene a dire che non te lo meriti, che le tue caratteristiche sono inadeguate. Sei giustificato dal fatto di esserti calato nella parte, la dimostrazione del tuo diritto è chiaramente esposta nell'atto del possedere, dell'utilizzare, del rivendicare. L'ambizione, che motivazione strampalata e autoreferenziale. Essere disposti a tutto pur di, sentirsi reietti e falliti e miserabili nel caso in cui. Perché chi non risica non rosica, chi va lecca e chi sta secca, chi si accontenta non è vero che gode e se gode nell'accontentarsi è un perdente. Tutto ormai si valuta sul binomio vincente-perdente, il premio-punizione terreno di derivazione protestante, puoi solo vincere o perdere, non esiste via di mezzo che non sia mediocrità, grigiume, insipienza, vorrei ma non posso, scarso impegno e mai scarsa capacità.

L'ambizione. Ambire, viene dal latino ambitum, andare intorno. A quei tempi c'era gente che si dava un gran daffare per ottenere i favori dei potenti passando le giornate a rincorrere tutti coloro in grado di intercedere, di metterci una buona parola. Chi ambiva era colui che si affaticava per farsi notare, per entrare nelle grazie, per ottenere appoggio e protezione. L'ambizioso blandiva e corteggiava i potenti per ottenere a propria volta un ufficio, una prebenda, un incarico, una rendita. Almeno la possibilità di fare gavetta se non di agguantare direttamente il successo. Qualcuno sostiene che di questi tempi le cose vadano diversamente. Che l'ambizione venga premiata in base al merito effettivo, concreto e misurabile. Sembra una cosa molto scientifica, oggigiorno, l'ambizione, e molto giusta. Pensatela come vi pare. Dal canto mio, se ancora non s'è capito, detesto e rifuggo l'ambizione. È vanità, direbbe Quelet. Ma senza ambizione occorre trovare altre spinte motivazionali, ragioni obsolete che non vanno più di moda.

Quando c'hai un figlio vuoi che un giorno lui si volti indietro a guardarti e non dica mio padre era privo di ambizioni, ecco perché non ha mai nemmeno provato a vincere. È questo che alla fine governa le piccole vite di noi piccole menti umane, è la psicologia spicciola dell'evidenza non va dimostrata a suscitare il battito di farfalla che innesca uragani. Alla fine non è per i soldi, per il sesso, per la fama, per il potere. Quando si affronta l'idea della morte si scopre che di noi sopravvive più che altro il bisogno di essere ricordati, con rispetto, con nostalgia, con affetto. Da gente di cui non ci importa nulla? Da masse sterminate di fanatici? Per alcuni magari sì, tipo i dittatori e gli insicuri. Ma di solito no, ci interessa dare qualcosa di noi, la nostra carne e sangue di transustanziazione casereccia, alle uniche persone che dal primo momento in cui fanno la loro comparsa, luce da luce, diventano il fulcro della nostra esistenza: i figli. Se così non è allora c'è qualcosa di storto nell'equilibrio psicologico di un aspirante genitore.

Comunque quello che volevo dire è tutt'altro. Ero partito con l'idea di raccontare come abbiamo giocato ieri, mio figlio ormai quasi seienne ed io, qualche aneddoto divertente, non so perché son finito nel serio. Del ninjago, del togliere le rotelle alla bici, dei funghi sulla pizza spacciati per olive, dei cruciverba per bambini, del vantarmi di come mio figlio non abbia mai, dico mai, neanche una volta, pisciato a letto. E invece ecco un predicozzo arzigogolato (ah-ah-ah) sulle ricadute dell'ambizione. Forse ho bisogno di un periodo di vacanza, giorni senza tv, radio, web, niente, solo libri e silenzio. Magari uno pensa che siccome scrivo parecchio (mi son beccato del grafomane, a me che sembra di scrivere poco), allora sono un chiacchierone nella vita, in realtà invece a me piace molto il silenzio, posso stare zitto per ore, per giorni, per mesi. La parola è un po' come l'ambizione, spesso la si pratica per supplire a una mancanza, per riempire un vuoto.

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