sabato 27 novembre 2010

The Thing's arms.

pita di avere le braccia pesanti come le braccia della cosa dei fantastici quattro solo le braccia diventano di pietra e finiscono a terra o sul tavolo e ti tengono bloccato per via del peso sono grosse e pesanti gran parte di te è ora fatta solo di braccia sei un mostro con il corpo piccolo e le braccia enormi sei un animale deforme la cui mutazione genetica l'ha portato in un vicolo cieco questo stai pensando mentre cerchi di capire la sensazione di avere le braccia della cosa dei fantastici quattro cerchi di capire perché non vedi la pelle dividersi in placche di pietra arancione quando cogli un movimento e alzi lo sguardo e vedi che c'è tua moglie dall'altra parte del tavolo c'è la tovaglia tra di voi ci sono i piatti i bicchieri e tua moglie ti sta fissando e tu pieghi la testa di lato scegli una delle sue pupille di moglie sulla quale concentrarti e ti concentri sulla sua pupilla che è nera che è grande e rotonda e nera e profonda come lo schermo del computer quando giocavi a doom c'erano delle zone della mappa c'erano delle stanze nere di quel nero di pupilla e dal nero dal fondo del nero sbucavano teschi in fiamme teschi urlanti di dolori invisibili che ti inseguivano per scoppiarti addosso e tua moglie abbassa lo sguardo nel piatto e mangia un boccone e quando lo rimette su di te è diverso adesso è come se si fosse ricordata una cosa nostalgica che ti fa venir voglia di deglutire ma non lo fai perché nella tua gola c'è una matassa di filo spinato e dopo aver masticato e inghiottito tua moglie ti dice sei pallido e fa la pausa di una virgola e aggiunge molto pallido col tono di una persona che è suo malgrado preoccupata e si sente in dovere di essere sincera al che tu rispondi non è niente e ci metti la pausa di una virgola e aggiungi devo aver dormito poco e nient'altro perché ogni parola tira pezzi del filo spinato che hai nella gola ma lei si rianima forse pensava che il tuo silenzio fosse dovuto al rancore all'immotivato astio che a volte matura da ghiandole e ormoni maschili e allora ti racconta ti parla ti fa partecipe di ciò che le interessa di ciò che le occupa i pensieri da quando si sveglia a quando si addormenta e forse anche nel sonno le cose che sogna e che al mattino non si ricorda mentre tu fai molta attenzione non vuoi che ti si accusi di non ascoltare e cerchi domande da fare senza trovarle cerchi la prontezza in eventuali risposte da dare anche se è difficile con il vento fuori che manda foglie secche a sbattere sui vetri e le braccia della cosa dei fantastici quattro ancora immobili sulla tovaglia e la mente che ti dice hai sentito questa non era una foglia questa era un passero andiamo a vedere andiamo a controllare e nella tua immaginazione scosti la tenda e tiri un sospiro era una foglia magari grossa e bagnata ma non devi perdere il contatto con la voce di tua moglie con il senso se ce l'ha ancora nelle frasi di tua moglie in ogni singola parola che ascolti con la massima attenzione possibile poi ripeti la scena e non c'è niente da sospirare c'è un passero che sbatte della due la sola ala che non si è spezzata ma tu ascolti tua moglie nessuno può dire che non stai ascoltando anche se fuori c'è vento anche se il rumore delle foglie che sbattono contro i vetri è così affascinante infatti ripeti la scena e te la sei cercata c'è un passero con la testa rovesciata e l'occhio rotondo per nulla sorpreso il becco socchiuso che reca sui bordi tatuato l'ultimo cinguettio e qualcosa dentro di te lo traduce e ti fa sapere anche se non vuoi queste parole potevo volare ma non potevo sorridere e tua moglie si alza si è ricordata di dover dire qualcosa a sua madre va al telefono e sorride a qualcosa a qualcuno forse a te che hai recuperato l'uso delle braccia sono tornate normali le usi per strappare il boccone di pane che giura di avere sapore e per metterlo in bocca senza masticare lasciando fare alla poca saliva che ti riesce di spremere dal filo spinato mentre scappi col pensiero su un'isola tropicale dall'accecante spiaggia bianca che all'alba si riempie di piccoli granchi senza colore che corrono a portare da un buco all'altro i loro piccoli frammenti di informazione muovendosi precisi e scattanti in modo che il messaggio ti rimanga implicito e segreto e più li guardi più rimarresti a guardarli che quando scavano un buco nella sabbia e ci entrano dentro sei convinto che spariscano e vadano in posto bellissimo dov'è impossibile a


giovedì 25 novembre 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (32 di N)

Quando c'hai un figlio sembra ieri che l'hai portato a casa e invece l'anno prossimo va alle elementari, ieri sera ha detto quando faccio così, e addenta per un momento il panino imbottito, mi fa male un dente, qui, sotto, questo. Gli tocchi l'incisivo inferiore sinistro e ti accorgi che balla, che dondola, tuo figlio ha iniziato a cambiare i denti, ogni volta è un piccolo strappo nel cuore toccare con mano le prove del fatto che diventa grande. Sembra ieri che l'hai visto per la prima volta, nella culla di alluminio dell'ospedale, le calzine troppo grandi fissate ai polpacci col nastro adesivo che usano per tenere a posto i tubi delle flebo e dell'ossigeno. Perché c'erano quelle calzine troppo grandi, da dove arrivavano non te lo ricordi, forse un regalo. Le manine chiuse, gli occhi chiusi, il cordone ombelicale che è un'escrescenza violacea un po' ripugnante da disinfettare tutti i giorni fino a che si stacca. Gli tocchi la pelle morbida, nuova, si sente anche al tatto che è pelle nuova, pelle che brulica di vita al punto che ti sembra di vedere la rapida e violenta moltiplicazione delle cellule, tocchi la manina con la punta dell'indice e dici benvenuto, e non riesci a immaginare che possa dondolargli un dente o imparare a leggere. Un dente che dondola, sembra impossibile, forse c'è qualcosa di strano, non è troppo presto? Quando c'hai un figlio non ti senti mai pronto, non ti danno mai il tempo di prepararti a incassare i cambiamenti.

Quando c'hai un figlio pensi che quando diventa grande e indipendente si chiuderà la parentesi che ti ha reso padre, immagini di fare come Charlie Chaplin che messo incinte delle donne anche quando era un matusalemme. Ti dici che c'è dentro di te il ragazzo che eri prima e che si può sempre ripartire nella vita. Il ragionamento che va così di moda nei tratti patetici, vagamente mongoloidi, di chi corre dal chirurgo a farsi tirare o gonfiare la faccia. Il riscatto morale di chi firma nuovi contratti di matrimonio come chi trova il coraggio di andare a comprarsi un nuovo cane, magari un orfanello al canile, dopo che il vecchio fedele ha tirato le cuoia. Ti dicono che non è mai troppo tardi, che la vita comincia a 40 anni, 50, 60, che la vecchiaia non esiste più. A volte mi immagino che sia possibile evitare di crescere, di maturare, di accumulare esperienza, di fare progressi nella scalata alla saggezza. Poi vedo le arzille cariatidi che invadono con artificiosa baldanza il territorio dei giovani veri e mi scappa da ridere. No grazie, preferisco la vecchia scuola, per la quale non rimani giovane ma diventi un uomo di mezza età e poi un anziano che ha fatto quello che ha potuto ed è contento così, non sente il bisogno di rifarsi una vita, non gioca a piangersi addosso, sentirsi un perdente, sconfitto, messo fuori gioco da quella truffa chiamata scorrere del tempo. C'è gente che comincia fin da subito a sentirsi male, a mettersi in attesa del remake, perché si vive una volta sola, perché gli anni non ritornano, perché quello che conta è spremere il massimo. E invece no, qualcuno dovrebbe dirlo a reti unificate, riempire le città di manifesti che dicono 'e invece no', vivi come se la tua vita fosse una sola, la inizi e la porti avanti e la finisci, non esiste il bottone del rewind, non puoi fare taglia incolla, non si photoshoppa l'anima.

Quando c'hai un figlio vai alle riunioni, come ho fatto io ieri sera. Abituato a crollare nel sonno alle nove, afflitto da mal di gola e febbriciattola, sono andato a informarmi perché l'anno prossimo va alle elementari e bisognerà iscriverlo. Ci sono state molte domande, nessuna proveniente da me. Non so perché non mi vengono mai in mente domande da fare. Un padre molto domandoso ha invece chiesto se tenevano i bambini fino a sera tardi, se li tenevano anche d'estate, se avrebbero dato compiti a casa obbligandolo al lavoro supplementare di aiutare il figlio la sera, tornato dal lavoro. Uno di quei padri che sanno come farsi voler bene, e magari si lamenterà per la scarsa frequenza delle visite del figlio quando verrà scaricato all'ospizio. Già me lo vedo a far venire i sensi di colpa elencando tutti i sacrifici che ha fatto per i figli, tutto il lavoro per dar loro benessere e opportunità. E mi sento in colpa per averlo giudicato, mi vien da pensare che forse è meglio di me per un mucchio di motivi che non conosco. Una delle maestre risponde no, pochi compiti ma se suo figlio impara a leggere secondo me è anche bello la sera, ogni tanto, ascoltarlo mentre legge. Lui ha fatto silenzio qualche secondo poi ha detto se uno li vuole iscrivere agli sport o a musica, a danza, deve far venire la baby sitter per i trasferimenti o ci pensate voi? Al che mi è venuto da sbadigliare forte e da tornarmene a casa. Ho guardato la maestra e ho fatto il gesto con la mano che significa 'annamo? svicolo tutta a mancina? levo le tolle? E lei ha annuito, mi ha dato il permesso di andarmene, ma quando mi son girato ho visto la sorella, la madre, la suora seduta di fianco alla porta e ho cambiato idea, sono rimasto fino alla fine.

Quando c'hai un figlio torni a casa dalla riunione e scopri che è rimasto sveglio, che ha aspettato il tuo ritorno, e vorresti dirgli grazie, non c'era bisogno di dimostrarmi niente ma grazie, e invece dici “Come mai non sei a letto a dormire? È tardi.” Succede sempre così, le cose che si dicono nella realtà difficilmente sono quelle che si vorrebbe aver detto, non c'è un regista che grida stop, uno sceneggiatore che riscrive le tue battute, un montatore che mette insieme solo i pezzi migliori.

lunedì 22 novembre 2010

E Aznavour vince per un'incollatura (1 di n)

(prima stesura)

L'ex ippodromo era nel mirino della famiglia Bandelli e della famiglia Ronco per via della possibilità ventilata dal comune di trasformare una parte della struttura in albergo, offerto gratuitamente in gestione all'impresa che avesse realizzato la ristrutturazione, col bonus di un parcheggio sotterraneo a pagamento i cui introiti sarebbero finiti nelle tasche del vincitore dell'appalto. Franco Bandelli e Rinaldo Ronco si erano già incontrati diverse volte per fissare i paletti dell'affare. I loro architetti e i loro commercialisti avevano provveduto alle cifre, riempiendo di numeri svariate tabelle e stilando dettagliati resoconti finanziari. Combattere al rialzo era una follia, significava per entrambi una inutile perdita di denaro, molto meglio stabilire fin da subito chi aveva le armi più potenti, le carte vincenti. Poi c'era la questione del cadavere, certo, ma quella poteva aspettare, come amava dire la buonanima Vittorio Bandelli, certe faccende non scappano da nessuna parte.

“Prima di tutto mi interessa sapere se hai avuto notizie del mio cavallo”, disse il Ronco dopo aver abbracciato il suo unico concorrente meritevole di attenzione. Non c'erano imprese edili in grado di mettere piede nel territorio Bandelli-Ronco senza finire coi libri in tribunale. Per l'invasore si trattava di eventi al limite del paranormale: pezzi di carta che la burocrazia non timbrava accampando scuse ridicole, fornitori che mancavano le consegne lamentando imprevisti, guasti ai macchinari che non venivano riparati nei tempi stabiliti, banche che chiedevano maggiori garanzie o intimavano il rientro immediato dei capitali senza addurre uno straccio di giustificazione. Cose così, eventi inspiegabili che respingevano escavatori e muratori della concorrenza fuori dai confini dell'impero Bandelli-Ronco. “Ti trovo sempre in forma, non invecchi mai”, rispose il Bandelli ignorando l'argomento cavallo. È una frase tipica del Bandelli quella del trovare tutti molto in forma, per nulla invecchiati. La dice a chiunque, in qualsiasi occasione, è la frase che usano per prenderlo in giro quando sono così ingenui o ubriachi da essere sicuri che non verrà mai a saperlo.

L'intervento preso in esame dal consiglio comunale riguarda l'intero complesso: le stalle, i fienili, l'ex convento poi ex-caserma adiacente, i magazzeni, le mansarde ricche di colombari, i depositi ricavati dalla muratura dei chiostri, i recinti dove si praticano non meglio precisate terapie a base di equitazione, gli uffici al momento utilizzati da enti, fondazioni, sedi distaccate, associazioni dalle criptiche sigle che si mantengono riscuotendo tariffe la cui origine si perde nel tempo o coi più banali sussidi statali. Le stalle occupano grosse porzioni dell'edificio principale e costituiscono per intero la lunga costruzione centrale di più recente edificazione. La stalla più grande, ben arieggiata, la più lontana dai rumori del traffico che potrebbero infastidire e rendere nervoso l'inquilino è in questo momento sporca di sangue e bisogna gridare per farsi sentire al di sopra del frastuono succeduto ai colpi di pistola, un tripudio di nitriti sconvolti e colpi di zoccolo ferrato contro i portoncini sprangati. Ci sono due uomini che discutono, facendo attenzione a non mettere i piedi nella pozzanghera di sangue che va allargandosi nel fieno, ignorati dal personale che si comporta come se non fosse successo niente.

“Sediamoci”, dice il Bandelli, e suona come un ordine al punto che il Ronco viene sfiorato dalla voglia di rifiutarsi, così, per principio. Sappiamo entrambi che io sono più grosso di te, questo sta dicendo il Bandelli, e sta dicendo la verità, la sua ditta fattura quasi il doppio. Il Ronco si domina, è abituato a teleguidare il suo corpo da lontano, tenendo nascoste le emozioni, preme un pulsante nella cabina di comando e il Ronco sorride come se avesse otto anni e vedesse per la prima volta il mare, che poi è l'unico momento felice della sua vita che il Ronco possa ricordare. “Volentieri”, dice il Ronco lasciandosi cadere nella poltroncina, “Anche tu mi sembri in ottima salute, pensa che qualche infame mi aveva detto che avevi una di quelle malattie, come si chiamano, ero così in pensiero e invece guardati sei un fiore.” Al che il Bandelli annuisce, fa un cenno al cameriere, dimostrando che non gli importa nulla di quello che il Ronco ha da dire. Il Bandelli parla e tu ascolti, il Bandelli dice cosa è meglio fare e tu chiedi solo qual è la tua parte. Il Ronco si aspettava di venire interrogato, che gli chiedesse il nome dell'infame che andava in giro a spargere letame e invece niente, il Bandelli ordinò per entrambi e disse “Ora, se non ti offendi, ti spiego come stanno le cose secondo me, poi tu dimmi che sbaglio.” Dirti che sbagli, chi avrebbe mai il coraggio di farlo, pensò il Ronco.

I due uomini che discutevano nelle stalle si chiamavano Ferruccio e Marcello, e non riuscivano a venire a capo del dilemma. Il cadavere del cavallo copriva parzialmente il cadavere dell'uomo, bloccandolo col suo peso, la testa e il torace dell'uomo saldamente imprigionati sotto i quarti posteriori dell'animale. Aznavour, dicevano i caratteri gotici sotto le coccarde e i trofei vinti dal cavallo che il Ronco aveva deciso di avere a qualsiasi costo, essendo disposto perfino a scendere a patti col Bendelli cedendogli il lotto dell'ex linificio per meno della metà del valore che avrebbe acquisito dopo la trasformazione in nuova area residenziale. Dopotutto quel valore non l'avrebbe avuto mai, quell'area non sarebbe mai stata inserita nel piano regolatore finché il Bendelli non avesse detto a chi di dovere 'Adesso ti spiego come stanno le cose'. Il cavallo sarebbe stato il regalo perfetto per Gioia, la sua nuova amante, regalo per modo di dire, diciamo piuttosto un giocattolo in prestito temporaneo per garantirsi adeguate prestazioni. Se il Bendelli avesse saputo quali promesse la splendida Gioia aveva distillato nell'orecchio del Ronco per convincerlo a comprarle quella bestia dal nome pretenzioso i termini dell'accordo sarebbero stati molto più sfavorevoli. Ora Aznavour giaceva con gli occhi strabuzzati e la lingua bluastra fuori dai denti. Il cavallo avrebbero potuto spiegarlo, forse, ma trovare una giustificazione per il fatto che sotto ci fosse il cadavere di Tonino era più complicato.

Il Ronco ascoltò in silenzio, sorseggiando il costoso vino bianco e sgranocchiando arachidi e patatine. Il Bendelli parlava lentamente, sottolineando con la voce alcuni sostantivi come 'investimento' o 'rischio e pericolo', alcuni verbi come 'impegnare' e 'onorare gli accordi', alcuni aggettivi come 'amichevole' e 'importante e sicuro'. Il Ronco non sentiva niente di nuovo, i rispettivi avvocati si erano già riuniti diverse volte per trovare un accordo, mancavano solo le loro firme, previste l'indomani nell'ufficio del direttore di banca. Aspettava di affrontare l'unico argomento in sospeso, il cavallo. “A me non interessa cosa c'è scritto nei documenti che firmeremo domani, capisci? Mi interessa che ci guardiamo in faccia e ci stringiamo la mano.” Il Ronco annuisce e si fa serio, consapevole che un'occhiata sbagliata manderebbe tutto all'aria. “La parola di un uomo non ha prezzo, dico bene?”, dice il Bendelli allungando una mano di piatto, mostrando il grosso rubino al dito medio come farebbe un vescovo. Il Ronco svuota d'un fiato il bicchiere, lo appoggia sul tavolo e dice “La parola è tutto nel commercio”, lo fissa negli occhi e gli afferra la mano ingioiellata con entrambe le sue, come farebbe per raccogliere un pulcino caduto dal nido. “Noi faremmo grandi affari insieme se ti decidessi a diventare mio socio”, sussurra il Bendelli con un sorriso ferino. “Te l'ho detto, ci devo pensare, ho delle responsabilità nei confronti della mia famiglia, non rispondo solo a me stesso”, dice il Ronco come se fosse sinceramente dispiaciuto. “Certo, certo, il futuro dei tuoi figli e dei tuoi nipoti, come se diventare mio socio significasse buttarli in mezzo a una strada, farli morire di fame”, il Bendelli guarda altrove, offeso. “Non è questo, lo sai, ne abbiamo parlato tante volte”, si scusa il Ronco, “Ma cambiando argomento, il mio cavallo, sai qualcosa del mio cavallo?”

“Chi ce lo dice a quello, ah? C'eri anche tu quando spiegò il cosa, il come e il quando, ah? Quello ci ammazza, vedrai se non ci ammazza”, ripeteva Marcello, ancora istupidito e incapace di accettare la realtà. “Che cosa ti vuoi inventare? Mica lo potevamo sapere prima, ti pare? Chi ce l'ha mandato questo, piuttosto, tu lo sai?”, disse Ferruccio. “Quanto ci mette? Quanto ci vuole a farci sapere qualcosa? Qua si fa buio. Lo richiamo? Lo richiamo.”, disse Marcello schiaffeggiando le tasche del completo alla ricerca del telefono, “Sempre più piccoli, li fanno 'sti aggeggi, ma dov'è? Dov'è?” Ferruccio era molto più calmo, stava pensando, stava riflettendo, ma non riusciva a far combaciare tutti i pezzi, gli mancava qualche informazione essenziale. Ricominciò dall'inizio, la prima domanda è sempre 'chi ci rimette', è da lì che bisogna partire per capire tutto quello che vale la pena di capire. Se capisci chi ci rimette sei a buon punto, sei molto vicino a scoprire da che parte si deve scappare per rimanere vivi. Più ci pensava e più gli sembrava assurdo, non riusciva a concentrarsi perché da ogni parte rimbombava nella sua testa la voce del buon senso che gridava 'Cerca un cavallo uguale, fai sparire le prove, metti le cose a posto'. Ma aveva già guardato, non c'erano cavalli uguali, un paio simili sì, ma non proprio uguali. “Vale la pena rischiare?”, disse a se stesso. “Eh?”, disse Marcello coprendo il telefono con la mano. “Niente Marce', anzi dimmi, secondo te questo cavallo quanto assomiglia da uno a dieci a quello morto?”

giovedì 18 novembre 2010

Le buche

Le buche si evidenziano abitualmente come depressioni su una superficie altrimenti coerente e priva di tensioni discrete. Altresì non sono rare buche più importanti, deformazioni vistose provocate da una consistente perdita di materiale costitutivo. Il marciapiede che collega via stazione con piazza mercato presenta solchi rettangolari dove le pezze d'asfalto più scuro segnalano scavi recenti nel manto stradale, crepe abbondanti dove le radici degli alberi si sono allungate in profondità, screpolature, avvallamenti, piccoli crateri dovuti al gocciolamento o alle infiltrazioni. È un marciapiede dalla morfologia complessa, costellato dalle macchie di antiche gomme da masticare, da ciuffi d'erba e isole di muschio, da rifiuti, escrementi, tracce sbiadite di vernice. Si verifica la presenza di alcuni tombini, uno quadrato dove tutt'attorno l'asfalto ha ceduto dando forma a canali di scolo che spingono l'acqua piovana, proveniente da una vicina grondaia abusiva, a evitare il tombino, a dividersi in due rigagnoli che l'avvolgono e si riuniscono dietro di esso precipitando infine dal cordolo in una composta, elegante, anche se ridotta cascata. Altri tombini sono rotondi, più piccoli, la forma rotonda è l'unica che impedisce per ragioni geometriche al coperchio di scivolare nel buco comunque lo si posizioni.

Entro spingendo una porta a vetri leggera al punto da far pensare che sia polistirolo mascherato da legno, dipinto da un maestro del dettaglio con pennelli millimetrali. È il mio ristorante preferito, ricordo a me stesso volgendo intorno lo sguardo a riconoscere, a controllare, a verificare che tutto sia dove deve essere. Il vaso dei fiori secchi sul pianoforte con le sue spighe colorate di rosso, le roselline ingiallite dal capo chino, gli steli di foglie improbabili che hanno perso spessore fino a diventare filigrane. Il tavolaccio infinito davanti all'enorme camino, dove c'è sempre posto finché qualcuno riesce a stringersi al vicino, poi non più, e ci si passa il vino e ci si offre il pane chiacchierando di argomenti innocui, masticando i bocconi con tutta la calma necessaria a meditare una risposta accurata. I cani, il giovane che ti lecca la mano e ti appoggia la zampa sulla coscia, il vecchio che rimane sdraiato accanto al fuoco e se accetta un boccone prelibato è solo per farti un favore, lo prende con delicatezza sopportando il mal di denti, il mal di ossa, la nausea per vita che è l'insulto continuo di una morte che indugia. I quadri anch'essi saggi nella loro mancanza di vigore, senza nessuna voglia di stupire, di ammaestrare, se ne stanno appesi un po' sghembi a mostrare acquarelli di ponti su fiumi tranquilli, placide composizioni di frutta in cui la luce proviene sempre di sbieco.

C'è una buca molto vecchia dove il bitume e la pietra si odiano, alla base di un gradino da soglia che non porta a nessun ingresso, un portoncino di marciume verniciato, marchiato da spaccature vistose e tumescenti così antiche da non avere attrattiva neppure per l'insetto meno esigente. Dove in passato ci furono pareti ora c'è un giardino, ma l'accesso è sopravvissuto, risparmiato dalla pena dei muratori, dalla superstizione dei proprietari, dalla distrazione degli architetti o semplicemente da un bisogno di memoria, uno scherzo incomprensibile. La buca rivela dei segni incisi nella pietra, dove il marciapiede si scosta o viene respinto, e questi segni, corrosi quanto sono, non dicono più niente, borbottano i segnali incoerenti degli anziani che si addormentano con gli occhi aperti. Poco più avanti le bocche di lupo, le reti arruggine su grate arrugginite che proteggono da ciò che si nasconde nel buio della cantina, oppure sono lì per impedirci di entrare, di fare pazzie. Si sentono correnti d'aria che sono un respiro odoroso di polvere d'estate e di muffa d'inverno, che ti fanno guardare nel buio oltre la rete e le grate mentre allunghi il passo. Nelle buche si raccoglie la terra, il polline giallo dell'immenso cedro dall'altra parte della strada, ci finiscono oggetti smarriti che sono bottoni rotti, puntine schiacciate, frammenti di carta dai contorni frastagliati, schegge di vetro molato dall'eterno rotolio dell'abbandono, l'insonnia di una febbre che è chiedersi il perché senza trovare mai risposta.

Il mio ingresso fa suonare una campanella e rimango fermo in attesa che appaia la cuoca. Non passa mai più di una manciata di secondi prima che venga fuori sparata dalla cucina con in mano dei piatti o una caraffa, dei bicchieri, delle posate, un cesto di fette di pane. Non è ancora entrata nel salone che il suo sguardo è su di me, mi stava vedendo attraverso le pareti e non mostra stupore si limita a un cenno delicato del capo, comprensivo, un sorriso che non ha paura di mostrare qualcosa di intimo e sincero, un organizzazione dei movimenti che rivela totale disinteresse per i problemi che tormentano la gente comune, uno sguardo che ha smesso da tempo di arrendersi a qualsiasi disagio. Mi vado a sedere e prima di rivolgere l'attenzione ai presenti mi concentro sugli spari e i fischi dei ciocchi sugli alari, e mi sgonfio, e dimentico. Mi separo dalle sciocche polemiche dei militanti, dagli stretti orizzonti dei predicatori, dalle argomentazioni insidiose degli squilibrati, dall'arroganza dei sobillatori, dalle pretese degli ipocriti, dalle menzogne degli arrivisti. Penso alle mani della cuoca, arrossate dai forni e dai vapori, ammorbidite dai sughi e dagli unti, odorose di spezie e di primizie, nodose e precise, fragili e rapide. Penso ai capelli della cuoca, legati e racchiusi nel canovaccio di cotone a righine usato come foulard, al disegno delle ciocche invisibili, alla tensione che muove le forcine quando piega la testa. Penso al fuoco e anche al basso soffitto con le travi a vista, agli oggetti sulle mensole, ai mattoni del pavimento. E con gratitudine dimentico.

martedì 16 novembre 2010

Sono andato alla gita.

Sono andato alla gita con il pullman e mi sono divertito molto. Punto. Mi è piaciuto andare alla gita e quando sono tornato l'ho detto a tutti, anche al signore che sta sempre fuori dal negozio a fumare. Il suo negozio è sempre vuoto quando ci passo davanti guardo nella vetrina e dentro al negozio del signore che fuma non c'è mai nessuno. Non lo so come fa a resistere, il negozio vuoto mi mette tristezza, forse è per quello che se ne sta fuori dal negozio a fumare, per non sentirsi troppo triste. Una volta ho sentito dire questa cosa dell'elefante. Si dice che non si vede l'elefante dentro alla stanza. Mi piace molto dire questa frase quando mi sembra di essere l'unico a vedere l'elefante. Il significato dell'elefante è che stai avendo una luci nazione, che vedi cose che non esistono. Ecco perché lo saluto sempre col sorriso il signore che fuma fuori dal suo negozio sempre vuoto, perché mi sto immaginando un elefante. Lo dimostra il fatto che il signore mi saluta tutto allegro come se il suo negozio di solito fosse pieno di clienti e proprio quando passo io, guarda la coincidenza, per combinazione è uno dei pochi momenti della giornata che è vuoto.

In pratica mi è piaciuta molto la gita perché non ho visto elefanti. Ecco. La parte più bella della gita è stata quando non c'era più l'autista, non si trovava più l'autista, l'autista era andato via e nessuno sapeva dove. Ho riso moltissimo ma senza farmi scoprire perché capisco come ci si deve comportare. Se tutti sono arrabbiati e preoccupati, se tutti si lamentano e si agitano non puoi metterti a ridere nemmeno se sai come spiegare cosa ci trovi di divertente. È come l'elefante, quello che trovi divertente tu scopri che agli altri non fa ridere per niente. Ho riso forte dentro di me anche per via del fatto che dicevo ma è assurdo, ma dove sarà finito, non si fa così, questa è proprio bella. Insomma giocavo all'agente segreto, da una parte mi scandalizzavo in compagnia dall'altra facevo il tifo per l'autista dicevo scappa autista sei libero corri. Ho avuto un momento di panico quando mi è venuto il dubbio che tutti stessero facendo come me, stessero simulando per obbedire a qualche ordine impartito da un genio del male che preme tasti su un telecomando e ci fa fare cose di gruppo, ci fa risalire i torrenti come ai salmoni, ci fa agitare torce e forconi contro chi si rifiuta di ignorare l'elefante nella stanza, scatena il panico nelle mandrie per farle andare dove desidera. Davvero ci imprta qualcosa dell'autista, ho pensato, perché non scendiamo dal pullman e ce ne andiamo via? In quel momento è comparso l'autista e quando è salito sul pullman hanno fatto tutti silenzio e quando ha acceso il pullman l'abbiamo festeggiato con un grande applauso.

Di solito le gite non mi piacciono ma questa mi è piaciuta per tanti motivi che non posso dirli tutti, ne verrebbe fuori un elenco noioso. E basta. Uno dei motivi è che è durata poco. Quando siamo arrivati faceva freddo e pioveva e dopo un po' si è capito che si voleva tornare a casa. Così siamo stati praticamente tutta la mattina sul pullman e ho guardato fuori dal finestrino e forse ho dormito un po'. Quando il signore che fuma fuori dal suo negozio vuoto mi ha chiesto perché mi è piaciuta la gita non sapevo proprio cosa rispondere così gli ho detto perché non ho visto elefanti e lui ha riso come se fosse la cosa più divertente che avesse mai sentito dire in vita sua. Poi ha tossito fino a diventare tutto rosso in faccia e quando si è ripreso ha detto è meglio che torno dentro a lavorare. In quel momento ho pensato che quella era la cosa più divertente che io abbia mai sentito dire in vita mia eppure, inspiegabilmente, non ci ho trovato niente da ridere. Ha cercato di toccarmi sulla testa ma io sono scattato indietro e lui si è ricordato che detesto venire toccato e allora ha sorriso e ha allungato la mano. Stringere la mano va bene, si può fare. Non ho detto che tipo di negozio è, lo davo per scontato. È un negozio barba e capelli, di quelli vecchi che ho visto solo nei film. È l'unico negozio del genere rimasto nel raggio di qualche chilometro o di qualche anno luce. Descrivo il negozio: ci sono due poltrone da barbiere, un grande specchio, un calendario. I muri sono colorati di tinta verde chiaro, forse un po' sul giallo o sull'azzurro. Il signore indossa un camice con i manici delle forbici che spuntano dal taschino e pettini di varie misure.

La gita è stata così bella anche perché è l'unica gita che non saprei dire dove siamo andati a farla. Siamo arrivati, abbiamo parcheggiato, siamo scesi, ci siamo rifugiati dentro a un bar per via del freddo e della pioggia, siamo risaliti sul pullman, abbiamo aspettato il ritorno dell'autista scomparso e siamo tornati indietro. Dove siamo stati in gita non lo so, per rispondere dovrei andare a leggere il nome del posto sulla fotocopia che ci hanno dato da portare a casa la settimana scorsa. Lo so che dovrei dire che questa gita è stata un fallimento, che non c'è stato niente di cui andare orgogliosi, che come gita tutti si aspettavano qualcosa di meglio. E infatti io sono d'accordo al cento per cento, stavo solo parlando dell'elefante, so benissimo che non c'è, volevo solo fare una verifica, se anche voi non lo vedete allora è tutto a posto, io infatti non lo vedevo neanche prima, facevo finta, anzi non l'ho proprio mai visto, ci siete cascati. Per cui cara maestra sappi che la gita non mi è piaciuta, che ho avuto paura per l'autista che fosse sparito per sempre e saremmo rimasti bloccati lì fino alla fine dei tempi, che al ritorno ho dormito male per via di come è andato tutto storto rovinando le mie splendide aspettative. E se dappertutto c'è gente con il mento rasato e i capelli in ordine vuol dire che il signore che fuma fuori dal suo negozio lavora quando io sono a scuola, non posso certo stare tutto il giorno a controllare chi entra e chi esce, le pare? Niente elefanti. Questo è quanto.


mercoledì 10 novembre 2010

Odori.

ori soprattutto gli odori i profumi le esperienze olfattive perché il mio naso era morto per colpa del fumare il mio naso era in coma nel buio di una puzza di fumo continua e costante e con gli odori anche i sapori se ne vanno perché i sapori non esistono da soli senza il naso i sapori sono solo acido dolce salato e così ho scoperto che c'è ancora un naso sulla mia faccia e che funziona sento gli scarichi delle macchine sento le foglie bagnate sento i capelli lavati le cicche americane il lucido alla cera d'api sento il pane sento la cipolla vecchia nell'androne e l'asfalto la vernice il disinfettante e sento gli acidi di stomaco delle invidiose i denti non lavati dei lazzaroni il grasso sulle dita dei meccanici il naso mi sta facendo impazzire non riesco più a sopportare le aggressioni delle correnti d'aria non sono più abituato alle ondate molecolari di una porta che si apre di un corpo che si toglie il cappotto riesco a visualizzare le particelle chimiche che si sprigionano all'intorno spinte da differenze di calore vedo spirali e onde e sciami di insetti disturbati è così che vede il cane mi chiedo è così che vede il cieco il pipistrello perché io mi muovo in mezzo agli odori ci nuoto in mezzo li evito e gli giro intorno o mi ci tuffo dentro perché azionano meccanismi mi riempono la bocca di saliva mi brontola lo stomaco oppure mi lacrimano gli occhi mi spingono alla fuga come fate vorrei dire ai passanti come fate a vivere così io non fumo da una settimana e sto per venire annientato dagli odori dai profumi come fate a vivere così io ho questa cosa sulla faccia che è il mio naso e il mio naso non posso ignorarlo senza ricorrere alle sigarette alla pipa il mio naso dice solo la verità non sa mentire come fate voi a vivere così il mio naso è Dio che mi appare in un cespuglio rovente e mi dice non hai nessun posto dove scappare perfino i sogni hanno ricominciato a odorare abbiamo un sacco di parole per la vista il tatto il gusto ma per il naso abbiamo solo profumo e puzza e questo dimostra che c'è qualcosa che non funziona che abbiamo paura dell'olfatto e stiamo cercando di liberarcene come di un senso di colpa ancestrale una traccia odorosa che ci portiamo dietro da secoli e che potrebbe condurre da noi i predatori il naso ci ricorda che siamo animali che siamo semplici che siamo stupidi il naso non ci piace ci impedisce la vanità l'ambizione l'orgoglio il sogno ma tutti questi odori come faccio non voglio ricominciare a fumare ma questi odori sono così tanti sono così forti sono così belli e tremendi da far