mercoledì 30 marzo 2011

Un racconto sugli uccelli.

Racconto scritto per il concorso 'Io scrivo' del Corriere della Sera.

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Mi chiama per sapere cosa ne penso, mi chiama perché gli dia il benestare, come gli animali in gabbia che ti chiedono il permesso con gli occhi per qualsiasi cosa, anche per vivere. Mi chiama K. e mi dice “C'è questo concorso, secondo te lo faccio?” Mi viene da rispondergli: Che ne so, Cosa vuoi da me?, Lasciami stare. Perché mi estraneo, mi stacco dal turbine di informazioni che mi avvolge nelle sue spire e mi stritola, giorno dopo giorno, il Morbo dell'Esserci lo chiamava T., poveretto, che brutta fine. Gli rispondo di sì, faccio pulizia mentale per impedire che K. percepisca il disordine nel tono di voce, ci metto anche un po' di eccitazione, dico bello, dico fantastico, dico K. devi farlo, devi partecipare assolutamente, e lui mi spiega quante parole vengono richieste, mi racconta come si chiama, il concorso, si dilunga in un flusso di pensieri suoi, che scarto e butto via mentre verso polvere di caffè nella moka, chiedendomi che senso abbia l'intera conversazione. Mi richiede “Tu che ne dici, lo faccio?” e io gli ripeto Ma certo, perché no? Perché no? Lo saluto, chiudo il collegamento, accendo il gas, non riesco a impedire che la domanda mi rimbalzi da una tempia all'altra. Perchénoperchénoperchéno.

Il racconto di K., da quel che ho capito, parlerà di uccelli. Che cosa ne sa di uccelli K.? Niente, ecco quanto ne sa di uccelli K.: un bel niente. Da quando ha letto l'articolo pubblicato su un quotidiano americano, scritto dal suo autore preferito del momento, non fa che parlare di uccelli e tutto quello che sa degli uccelli l'ha imparato da quel singolo articolo. Il fatto è che io gli uccelli li odio, mi fanno schifo, mi viene il nervoso a sentirli cantare, mi fanno ribrezzo a guardarli. Però accantono i miei gusti, non impongo le mie preferenze, lascio che K. si sfoghi parlandomi tutto il tempo di uccelli, degli uccelli del suo autore preferito, il più grande scrittore vivente lo definisce, e quando ne parla mi sembra di entrare in chiesa, guai a scuotere K. dalla trance di ammirazione in cui si cala senza preavviso, la voce gli si riduce al bisbiglio e lascia una frase a metà, si interrompe e tronca il discorso, si mette a fissare un oggetto a caso o a controllarsi le unghie con l'aria stupita dei drogati e degli innamorati. Quello che so io degli uccelli è che sono rettili evoluti, lucertole abbellite dalle piume, animali i cui escrementi sono così corrosivi da rovinare la carrozzeria delle macchine.

Ho lasciato il telefono staccato per bere il caffè in pace. Non voglio che K. mi chiami di continuo per incoraggiamenti, pareri, o anche solo per divagare come succede quando il Morbo dell'Esserci decide di dare un giro di chiave, dare una strizzata al cervello collettivo, è allora che K. mi chiama per divagare, per ingannare l'attesa piena di dolore che precede il mai troppo atteso rilassamento dello sfintere mediatico, il Morbo che fa una pausa per riprendere fiato e striscia nel buco dell'indifferenza dandoci il tempo di rialzarci, di riprenderci in mano quel poco di reale che è rimasto delle e nelle nostre vite. Questa cosa del Morbo K. non l'ha mai saputa perché T. l'ha sempre tenuto all'oscuro, poveretto, che brutta fine. Sosteneva che K. era troppo puro per sopportare l'esistenza del Morbo, diceva che noi, gli amici di K., dovevamo tutelarlo, proteggerlo, in modo che non smettesse di produrre divagazioni nei momenti critici. Non c'è niente di meglio di una divagazione di K. quando il Morbo dell'Essere ti sta masticando la faccia, mi ha detto T. molto tempo fa, non ho mai capito la sua predilezione per le metafore atroci.

Di uccelli mi piacerebbe sapere la specie di quello che canta ogni notte, da un mesetto a questa parte, quando rimango sveglio a cercare di seguire i suoi vocalizzi anche se vorrei riaddormentarmi. Sono arrivato al punto di credere che sia finto, un qualche dispositivo elettronico finalizzato alla sperimentazione sociologica, psicologica, uno scienziato col suo taccuino in mostra e un piccolo esercito di penne nel taschino, un ricercatore che non trova divertente il suo lavoro, anzi, ritiene della massima importanza segnalare le difformità comportamentali nei condomini, le cavie sono i miei vicini di casa, bisogna correlare gli sbalzi d'umore, il dottorando s'impegna a classificare la durata, l'intensità e la modulazione del canto uccellesco che si propaga in modo uniforme nel quadrante notturno. Perché è notte, notte fonda, c'è buio pesto e sento l'uccello chissà dove che fischietta motivetti allegri. Non è normale, secondo me non è normale. Gli uccelli di notte dovrebbero fare versi lugubri, da accapponare e rabbrividire, gli uccelli sani di mente se ne stanno zitti durante la notte. Non so se dormono gli uccelli, ma di sicuro al buio tacciono, tutti tranne questo fantomatico simpaticone. Ho detto a K. di parlare dell'uccello che canta di notte nei giardini condominiali ma K. non sapeva di cosa stessi parlando e quando mi sono reso conto di non averne mai parlato con nessuno ho deciso che sarebbe rimasto un segreto, così gli ho risposto che niente, mi ero confuso, che ero ancora assonnato, di lasciar perdere. Ho fatto la voce di chi ha la lingua impastata e gonfia di sete e di sonno, ho biascicato Fai finta che non ho detto niente.

Quando ho acceso la radio è partito il notiziario e la palpebra sinistra ha tremato. Non avrei dovuto accendere niente, l'idea era quella di rinchiudermi nel guscio casalingo e tappare fuori il Morbo, per qualche giorno, per consentire alla palpebra di smettere il tremito, al mignolo di stare immobile, alla prontezza di riflessi di lasciar perdere, alla violenza verbale di ritrovare l'opzione del silenzio. Colpa dell'abitudine, anni di esercizio pavloviano col telecomando in mano, che se non hai un giornale, una radio, una televisione, ti manca l'aria, ti senti in pericolo di vita, come se tutto ciò che ignori in questo momento stesse tramando contro di te. La storia infinita dove al posto del nulla cosa c'è che avanza, distruggendo tutto? C'è la mancanza di corrente forse, un gigantesco black out dell'informazione, una regressione del Morbo. Non voglio esserci, almeno per un po', aspettatemi se volete, se potete, se ne avete voglia, altrimenti non importa, mi arrangerò, salterò un capitolo del grande libro della quotidianità, e se scoppierà una bomba atomica me ne accorgerò solo vedendo il fungo nel cielo. È con tale pensiero che finisco il caffè, mi alzo e vado a tirare le tende, in modo da non poter vedere che fuori c'è il sole.

Gli uccelli. È vero che non ce ne sono più così tanti come qualche decennio fa. Posso testimoniarlo, mi ricordo la quantità di suoni che viaggiavano nell'aria e che adesso sono arrivati a destinazione per sempre. Mi ricordo che c'era sempre un guizzo scuro nella visuale che imparavi a cancellare dal percepito complessivo nel modo in cui non si prende nota delle mosche, delle comparsate, delle singole gocce d'acqua durante un temporale. C'erano, molto semplicemente c'erano, e adesso non più. Adesso ci sono solo i piccioni, con i loro pidocchiosi cadaveri evitati dai passanti, e le tortore, con il loro incessante e monotono richiamo da vecchia comare che non ha più la fede necessaria a recitare la parte della prefica con la pretesa di un dolore autentico. Un verso da rimprovero compiaciuto, lo detesto, è un verso che odio come odio gli uccelli e moltissime altre cose degne di essere odiate, e il mondo intero a volte è più che degno, specialmente di notte, con quel fischiettare solitario di chi, di cosa? Che razza di uccello sarà mai, forse saprebbe dirmelo il più grande scrittore vivente, il prediletto di K., che a volte me ne legge al telefono pagine intere, tratte da romanzi di culto, pagine e pagine che non ascolto con la dovuta attenzione e di cui non capisco nulla e alla fine non ricordo niente.

Tirando le tende vedo la donna, mi sembra che sia una donna a vederla da qui, da lontano, una donna vecchia, nel palazzo al di là della strada, la testa di questa vecchia donna con i capelli arancioni che guarda giù in strada, ogni giorno, per ore, non si capisce da qui l'espressione che ha sul volto, non si capisce se è sana di mente, se è triste o preoccupata o solo annoiata, magari soprappensiero, immersa in piacevoli fantasticherie. Aspetta qualcuno? La mia impressione è che sia pazza, o malata, o che abbia raggiunto un livello di comprensione e saggezza tali da sconfiggere il Morbo dell'Esserci una volta per tutte, diventando libera, serena, in qualche modo placata, benestante, sazia. Non so se compatirla o invidiarla, è un altro mistero dei tanti che il Morbo non mi racconta, il Morbo non mi spiega la donna, non mi spiega K. come fa certe volte a scrivere frasi che sono perle nell'ostrica e mi fanno pensare a lui come se emettesse della luce da dentro, non mi spiega T. e la sua brutta fine, poveretto, non mi spiega niente di quello che sarebbe veramente importante per me, e per tutti, sapere. Morbo spiegami l'uccello, per esempio, fammi comprendere perché sembra felice di cantare di notte, da solo, quando i poeti citano solo ùpupe, o upùpe, o upupè?, nei lugubri cimiteri piantumati a cipresso, mi vuoi forse dire che sono i poeti a sbagliare, eh, Morbo, eh? Rispondimi. Ho paura che la donna si volti verso di me e mi veda a sua volta.

Anzi no, non voglio sapere niente. La palpebra sta tremando, diventerà un tic, finirò pieno di tic nervosi a guardare giù da una finestra, con una parrucca di capelli arancioni come quelli del pagliaccio che rende obesi i bambini cattivi, in modo che diventino più saporiti e appetibili per il Morbo quando verrà a ingoiarli vivi. No, invece no, mi devo solo estraniare, disintossicare, evitando di leggere i giornali, ascoltare la radio, guardare la tv, navigare su internet. Basta che lasci fare agli altri tutto il lavoro del tenersi informati, del sapere a chi dare il voto la prossima volta, che tempo farà domani, chi è stato indagato per cosa, chi condannato e chi assolto, quanti bambini coinvolti in quali incidenti, i morti e i feriti, il pericolo di attentati di malattie di alieni che ti sbarcano sul tetto e ti ipnotizzano il cane, gli errori commessi e le conseguenze che hanno provocato, le responsabilità e le dichiarazioni ufficiali e le smentite e la probabilità che un'epidemia diventi pandemia. E niente che mi spieghi dove sono finiti tutti gli uccelli, che mi rassicuri sul fatto che non me li sono inventati, che c'erano davvero molti più uccelli in giro quando ero piccolo, anche se io li odio gli uccelli fa niente, non mi sembra un buon motivo per

C'erano uccelli anche in città, non solo in campagna. C'erano uccelli anche lì, più da città ma c'erano. Si capiva l'origine della gente da quanti e quali uccelli teneva nella gabbiette sul davanzale o sul balcone. Era gente che arrivava dal sud, era gente che teneva i canarini e uccelli del genere: colorati, allegri, canterini. Uccelli del buonumore, non come quelli che tenevano in gabbia dalle mie parti, nelle valli, per usarli come richiami viventi. Caricava la moto di gabbiette quand'era stagione e se avessi a quel tempo sfogliato certi albi di fumetti d'autore, tipo acquarello francese, tecniche miste americane, avrei pensato che fosse uscito dall'immaginazione di un illustratore: la moto che spariva sotto una catasta di gabbiette dozzinali, costruite a mano con bastoni e rametti per motivi di assoluta mimetizzazione, e le borse da viaggio, le armi, le sacche, le attrezzature, le scarselle, il cacciatore spariva dentro un agglomerato di balocchi che, ripieni di uccelli spaventati, davano un alone di eccitazione festosa all'apertura della stagione di caccia, tutto ciò fino al colpo di pedalina, al primo scoppio nella camera di combustione, il petardare nella marmitta faceva tacere l'intera collezione dei volatili da richiamo e capivi che qualcosa di importante era finito prima del tempo, così, come finisce l'infanzia o un sogno febbrile.

Mi suona il cellulare, è K., mi dice “Sono io, K.” e io dico Lo so, lui dice “Ti chiamo solo per dirti che hai messo giù male” e io fingo stupore e ringrazio, dico Vado a vedere, K. dice che più tardi prova a richiamarmi “Per vedere se hai messo giù male o se è un problema di linea” e io dico Speriamo di no, sarebbe una bella seccatura, la linea, un bel problema. Lui fa una pausa per farmi intendere che è consapevole di tutto, che non dovremmo, che è assurdo esserci ridotti a questo, a far finta che, a fuggire da, poi dice “Vedrai che hai solo messo giù male, ci sentiamo più tardi” e chiude il contatto. Penso che potrei lasciare il telefono staccato e avere la scusa della linea rotta, sarebbe un modo per sottolineare la mia estraneità volontaria, il fuggire il più lontano possibile dal Morbo, anche a costo di perdere le divagazioni di K. che T. considerava poderose ancore di salvezza, è l'unica volta che l'ho sentito usare l'aggettivo 'poderose', poveretto, che brutta fine. Sono indeciso, me ne starò qualche secondo qui in piedi, con il cellulare in mano a decidere il da farsi, con calma, con la cercata precisione di chi vuol fare le cose per bene, come si dice, il puntiglioso.

E pensare che ho anche tenuto degli uccelli. Pappagallini. Come molti animali in natura, se non stai attento i piccoli vengono ammazzati. Non hanno il minimo senso di colpa gli animali poco evoluti. Come discriminante per separare gli animali accettabili da quelli odiosi non userei criteri di intelligenza, come il riconoscersi allo specchio, schiacciare il bottone giusto per ricevere un premio, trovare la soluzione ai rompicapi, no, sceglierei il senso di colpa. Gli animali che sanno cosa significhi sentirsi in colpa da questa parte, gli altri invece tutti qui da me, dentro alla mia capiente scatola dell'odio. Tenevo le cocorite dentro una bella gabbia enorme, costruita con le mie mani, e dentro di me cercavo di soffocare l'odio, dimostrare a tutti che non odiavo quei teneri e simpatici esserini. Non è come pensavate, non sono come pensavate, guardatemi, sto nutrendo le cocorite, ho perfino dotato la gabbia di molti accessori per renderla confortevole. Dovete ammettere che non le odio davvero, che sono una brava persona, che nessuno mi odierà mai senza un vero motivo come faccio io con gli uccelli, facevo, non faccio, volevo dire facevo, prima di scoprire che non si devono odiare gli uccelli, che si devono amare come faceva quel Santo che addirittura ci parlava.

Invece quanto li odio, ma come potrei chiedere a K. di cambiare argomento, di scriverlo sui pesci, il racconto, sui gatti perfino, che li odio anche quelli, odio tutto e tutti, ci sono dei giorni come oggi che il sentimento più vicino alla pietà che riesco a provare è l'odio immotivato, e mi mi ci metto anch'io nella lista, odio anche me stesso, se può farti sentire meglio, odio i pappagallini che non volano via quando gli lascio aperta la gabbia, se ne stanno lì a fissarmi dubbiosi, increduli, apatici, in grado solo di zufolare, arrampicarsi sulle sbarre, mangiucchiare semini vari, scagazzare in giro, condurre una vita approssimativa nei confini artificiali che io ho deciso per loro, senza nemmeno concepire l'idea della libertà, della salvezza, la possibilità di fuga che gli viene offerta in un momento di oppressione dell'animo, quando il Morbo si distrae e per un momento intuisci la tua sorte e desideri che non sia la stessa di tutti gli altri, vorresti una sorte tua per intero e al contempo sei terrorizzato dall'ipotesi che venga soddisfatta la richiesta, così apri la gabbia, dici Tornate nel vostro elemento naturale, immagini che sia la gabbia in cui ti senti a spalancarsi, tu a volare via, e loro cosa fanno? Rimangono fermi, i pappagallini, ti fissano come se l'uccello fossi tu, e ti fanno sentire incompreso e deriso.

Non appena ripristino il collegamento il telefono suona, è K. che mi chiede se ho un momento, un momento solo, sarà rapidissimo. Guardo l'ora, è ancora presto, gli dico K. ho tutto il tempo del mondo, e sono convinto che sia la verità, dev'essere per via del silenzio, nemmeno il ronzio della ventola che raffredda l'alimentatore, il rumore che pervade le lunghe ore di lavoro davanti al computer che mi riempiono la giornata. Gli dico Sai cosa, K.? Lui dice “Cosa?” Gli dico Forse oggi non lavoro, quindi ho tutto il tempo del mondo. K. mi dice “Tu non ce l'hai un lavoro” e ridiamo. Gli dico Non ho un lavoro, questa è bella K., proprio bella, e lui non dice niente, è come se lo vedessi annuire, imbarazzato, ma io mi sento meglio, vorrei dirgli non è come T., poveretto, che brutta fine, è diverso, io non sono lui e tutto finirà bene, vorrei solo che il Morbo crepasse, venisse giù un dio qualunque a prenderselo, sono solo in overdose di informazione, vorrei dare a K. solide rassicurazioni ma se apro bocca so che gli direi divaga, glielo ordinerei con rabbia: divaga, K., divaga! E come se mi leggesse nel pensiero K. attacca a divagare.

Mi racconta del paese dei nonni, ce lo portavano in vacanza, ovvero ci finiva tutte le estati, a casa dei nonni, dal primo all'ultimo giorno di chiusura delle scuole. Non che gli dispiacesse, i suoi genitori passavano ogni tanto a trovarlo, “Non dico che venivo abbandonato”, precisa K., “Non sto dicendo quello”; K. non sta mai dicendo quello che sta dicendo, K. è immune, K. va preservato, gli dico Non divagare, glielo dico solo perché anch'io non voglio dire quello che sto dicendo. Posiziono il telefono fra testa e spalla, ascolto, ogni tanto interrompo, cerco di non perdere il filo quando si avventura in sviluppi laterali, e con la biro cerco l'uscita dall'editoriale del giornale di ieri, pensando che è la pelle morta del Morbo, che la cambia tutte le notti, al canto dell'uccello il Morbo si spoglia contorcendosi nel sonno, provocando vibrazioni nel terreno, scosse che popolano di ansia i nostri sogni. Trovare l'uscita da un articolo di giornale consiste nel partire dall'alto e scendere negli spazi tra le parole, lentamente, come una perdita da una tubazione che si insinua nelle crepe di un muro, l'avverarsi di un meticoloso allagamento che avviene di soppiatto, tra le righe, nel sottotesto.

Nel paesino di K. non ci sono uccelli. È lo spunto per il racconto sugli uccelli che vuole mandare al concorso. Aprono una fabbrica e tutti gli uccelli scappano via. Dovrebbe essere un segnale chiaro ma la gente non se ne accorge, non se ne cura, preferisce sacrificare gli uccelli che restare senza lavoro. K. si blocca e spiega “Senza lavoro nel senso, ecco, la fabbrica è l'unica fonte di reddito per gli abitanti” K. si impappina ma quando realizza che non ho niente da contestare riprende con gli uccelli e parla di gufi, di gheppi, di rondini e storni, parla di corvi, dice che in paese sono rimasti solo i corvi, che la puzza della fabbrica a volte è così forte da intontire, che sulla lingua sa di agrumi andati a male. K. dice che le persone una per una si ammalano e a quel punto non lo ascolto più, mi concentro sul trovare l'uscita e calco tanto con la biro da strappare la carta del giornale. Sto per dire a K. che il suo racconto oggi non lo voglio più sentire, oggi sto bene senza, ma non lo farò, non gli dirò niente, lo ascolterò parola per parola senza lamentarmi, senza lasciarmi sopraffare dall'impressione di essere chiuso in gabbia.

K. divaga. I soldati. Cosa c'entrano i soldati? Niente, ma servono, eccome se servono. I soldati sono la divagazione di K. che arriva a tirarmi fuori dal comodo bozzolo di seta tessuto dal Morbo. Inizia con un filo di bava, poi ti avvolge e ormai è troppo tardi, hai smesso di pensare, hai permesso al Morbo di impossessarti delle tue facoltà critiche, le tue opinioni d'ora in poi le andrai a succhiare già pronte dalla bocca del Morbo. Il motivo per cui i soldati sono importanti è che non c'entrano niente, non so K. da dove li abbia fatti sbucare, so solo che a un certo punto è normale che ci siano, nel paese del suo racconto non ci trovi nulla da ridire sul fatto che vi siano in giro pattuglie di soldati, è un normale susseguirsi di concatenazioni logiche di K. a portarli qui, li ha convinti a uscire dalle caserme per occuparsi delle esigenze narrative, in modo che tutto vada a posto, l'uccello notturno avrà un nome e un motivo per cantare, la donna vecchia avrà una storia di nostalgia per le sere d'inverno e il carattere deciso che serve per affrontare ossa doloranti e bruschi risvegli, arrivano i soldati e va tutto a posto, chiunque non fa che ripetere in giro che andrà tutto bene.

I soldati vengono schierati davanti al teatro parrocchiale, in attesa dell'arrivo del Generale e dei suoi prestigiosi ospiti. Percorrono le mille curve delle strade secondarie per arrivare in un paese ai confini del mondo civilizzato, l'ultima fabbrica sul bordo delle regioni selvagge che si oppongono all'avanzata del progresso, della tecnologia, dell'avida e implacabile fame degli uomini sfuturizzati. Li chiama così, K., uomini sfuturizzati, privati del futuro chirurgicamente mediante un complicato intervento sul cervello del feto allo scadere della ventesima settimana di gestazione. Gli uomini sfuturizzati sono sempre contenti, hanno sempre qualcosa da fare, vivono in un infinito presente e accumulano come fanno i topi ogni sorta di oggetto, materiale e immateriale, senza mai averne abbastanza, senza la scusa di fare scorta per un domani che per loro non esiste, è stato asportato col bisturi, uomini modificati nel profondo a tal punto da non riconoscersi più nello specchio. Di punto in bianco erompe il concetto di vecchiaia nella consapevolezza degli sfuturizzati e il cervello implode, finiscono a girovagare con la testa china dei perduti e disperati. I soldati li catturano, o meglio li raccolgono, e li conducono alla più vicina frontiera. K. si esalta e grida nel microfono “Vengono liberati! Capisci?” e io mento, gli dico Sì, grazie, ho capito benissimo.

Nel teatro si esibisce una ragazza senza nome, nel senso che K. non ha ancora deciso come chiamarla. Mi chiede “Come vogliamo chiamarla?”, io rispondo Maria, un nome a caso. La ragazza di nome Maria non ha mai accettato di esibirsi per il Generale, ha fatto una scommessa col Generale mettendo in palio se stessa, ha scommesso che mai il Generale avrebbe vinto. “E invece” dice K., come se mi stesse rivelando che devo farmene una ragione, e mi sembra di sentire T., era lui che si compiaceva di sottolineare l'ovvio, era T. che ridacchiava riportando le principali notizie del giorno, elencando le diverse opinioni con pennarelli di diversi colori sulla lavagna della sala riunioni, tutto questo prima che, prima di, poveretto, che brutta fine. Dico a K. che sta parlando come T. e lui ci rimane male, si interrompe, dice “Ho cambiato idea, non lo scrivo più” ma non riaggancia. Stiamo in silenzio, entrambi con la voglia di aggiungere un'ultima parola, lui facendo chissà cosa dalla sua parte, io cercando di stabilire se è il caso di chiedere a K. informazioni sugli uccelli in generale e sull'uccello notturno in particolare, sapendo che l'identificazione può basarsi sul canto, l'unico aspetto che conosco è il canto, però non lo so riprodurre e non l'ho registrato. Mi propongo di registrarlo al più presto, magari stanotte, e spero che non se ne sia volato proprio adesso, lasciandomi senza prove per dimostrarne l'esistenza.

Per essere un racconto che parla di uccelli nel tuo racconto ci sono pochi uccelli, dico. K. ride. Secondo me, dico, dovresti metterci un uccello notturno, di quelli angoscianti però, non di quelli felici. K. dice “Esistono uccelli notturni felici?” rendendo inutile il giro lungo che stavo facendo per parlarne senza fare la figura di chi sta confondendo sogno e realtà. Esiste? Hai delle prove? L'hai registrato? Eludo la domanda e gli dico che i corvi non vanno bene, ci vogliono uccelli notturni angoscianti, di quelli che inducono riflessioni e aprono parentesi di compassione nelle menti dell'ascoltatore, una sorta di preghiera laica per sistemare la coscienza degli sfuturizzati. Quando gli parlo di sentimenti o di concetti astratti in generale K. non interloquisce, si chiude come se avesse di fronte un sospettoso analista, uno specialista in discipline arcane, con la diffidenza tipica di chi non vuole lasciarsi esaminare, rivelare troppo di sé. Gli dico Secondo te è possibile che gli uccelli notturni siano in qualche modo terapeutici? K. dice “Sì, è possibile, ma nel mio racconto ci sono i corvi, solo i corvi.”

Il Generale ha vinto. Ha vinto la guerra, ha vinto la scommessa, ha vinto l'esibizione di Maria. Il Generale è venuto a riscuotere. K. tratteggia la scena con le mani, lo so anche se non lo vedo, fa sempre così, come se la dipingesse. Mi dice su quel filo c'è un corvo, e ce lo vedo a puntare il dito, lì ci sono i soldati schierati, le luci del teatro sono deboli lampadine a basso consumo, molte di esse sono bruciate o tenute spente per risparmiare preziosa corrente. Da qualche parte c'è Maria che si prepara a ballare e a cantare per il Generale. Maria che ha sempre saputo di andare incontro a una sconfitta. Maria comunque decisa a dare il meglio di sé, come se non fosse questione di ambizione e sopraffazione, e mi vedo K. fare quadrato davanti a sé con pollici e indici per inquadrare la faccia del Generale, gli occhi del Generale in primo piano, il Generale che aspira alla grandezza e si eccita come chi possa tramandare i propri geni inseminando il mondo intero, stuprando e ingravidando la Storia di se stesso, provocando cicatrici sempiterne sulla corteccia dell'albero della vita e della morte, incidendo a fuoco nella carne del tempo le seguenti parole: chi viene dopo di me subisca il peso del mio nome.

Guardo l'orologio, è tardi. Lo dico a K., gli dico Tra poco devo andare, e sento il verso dell'uccello notturno. Senza accorgermi di parlare chiedo Hai sentito anche tu? e K. dice “Sì” poi dice “Cosa?” ma sono sicuro di averlo sentito e mi dirigo alla finestra, la apro, mi sporgo, guardo verso gli alberi più vicini, K. parla e gli dico Zitto, aspetta, lasciami ascoltare, Eccolo, dico, Adesso lo vedo. È un uccello piccolo, scuro, non ha niente di particolare che lo renda piacevole alla vista o in qualche modo attraente. Dico nel telefono È un uccello insignificante e K. dice “Eh? Cosa?”, gli dico L'uccello notturno felice non è niente di che, è grigio, K. dice “Non esistono uccelli notturni felici”, non insisto, me ne sto a guardare per sincerarmi che non sia un'illusione, un insieme di foglie che hanno la parvenza di, e l'uccello notturno felice apre le ali e vola, mi passa davanti in una parabola che rende visibili le piume brillanti sotto le ali, blu elettrico. Mentre lo incito a volare e gli ricordo di essere libero, so che lo odio, sento che odiarlo può solo farmi bene, farmi sentire meglio. Dico Lo odio, K., lo odio, e K. dice “Eh? Chi?”

K. riprende a raccontare la storia che mai scriverà, il concorso è solo una scusa come un'altra per divagare, per tenere a bada il Morbo. K. chiede “Mi stai ascoltando? Che ti succede?”, non succede più niente, chiudo la finestra e gli dico Sì, è volato, adesso non c'è più. “Posso finire? Faccio in tempo?”, mi chiede e io dico Certo, ma certo. K. parla di Maria, dell'esibizione di Maria, dell'effetto della voce di Maria sulla mente degli sfuturizzati. Non lo seguo più, ho perso il segnale, sono scivolato, il Morbo mi abbraccia come una madre egoista e mi ritrovo a pensare al traffico, all'inquinamento, al costo della vita. Sto pensando che devo lavorare, devo guadagnare, devo consumare. Sto pensando ai nuovi manifesti pubblicitari grossi come intere facciate dei palazzi, ai dirigibili, sto pensando ai film in prima visione, agli attori, alle modelle. Penso alla vacanza, alla potenza, alla violenza, alla prestanza. Sto pensando a T., poveretto, che brutta fine, Sto pensando ai volti sorridenti dentro la televisione, alle folle urlanti, ai gioielli e agli aerei privati, ai vincenti che piangono davanti alle telecamere e ai perdenti che sorridono e battono le mani per non apparire invidiosi e scontenti.

Il racconto di K. finisce così: gli sfuturizzati che ascoltano la voce di Maria non vogliono più venire liberati, non si lasciano deportare alla frontiera, vogliono invecchiare qui, insieme a tutti gli altri, vogliono perdere i denti, diventare sordi, rompersi il femore, insistere per festeggiare il Natale coi parenti, annoiare con futili elenchi di malanni, l'intero pacchetto vecchiaia completo di accessori. Non serve a nulla insistere perché si adeguino alle necessità della nazione, alle esigenze delle nuove generazioni, perché tornino a essere gli inconsapevoli ingranaggi del complesso meccanismo sociale che permette ricchezza e abbondanza, tutto quanto in cambio di qualche semplice e inutile anno di avvenire. Gli sfuturizzati non sono più suscettibili alle accuse di egoismo e non rispondono ai trattamenti farmacologici. Il Generale muore, la fabbrica chiude i battenti e ritornano a vedersi gli uccelli nel cielo. Il Morbo quello invece no, non viene sconfitto, il Morbo rimane, diventa se possibile ancora più forte. “E un bel giorno di te non si è saputo più niente”, mi dice K., e il telefono produce per l'ultima volta il segnale di batterie quasi esaurite, quindi si spegne da solo.

Rondam [004]

NY, 28-11.5583
Indovina dove sono? A poche centinaia di metri in linea d'aria di distanza da te. Sono tornato, sei contento? Così potrai spiegarmi perché sono stato abbandonato dalla ditta, dagli amici, dal mio diretto superiore, ovvero da te. La tua scorta armata non mi fermerà, ho imparato molto nei mesi passati lontano da casa. Ho imparato innanzitutto la pazienza e la riflessione. Ho imparato anche mille nomi della dea del canto e dei veleni, ho imparato anche la danza delle ossa, i movimenti atti a disarticolare. Lo sapevi che anche gli uomini possono rendere le proprie pupille fosforescenti? Occorre superare un esame, occorre sopportare la convalescenza e il rischio della cecità in caso di infezione. Ti scrivo per farti sapere che un giorno di questi ci incontreremo, ti avviso affinché tu possa mettere assieme un po' di scuse da raccontare per impedirmi quella stupida reazione chiamata vendetta. In fondo dovrei ringraziarti, adesso sarei ancora l'amministratore condannato a posture scomode, a consumare velocemente troppo cibo pieno di grassi, vincolato a obblighi contrattuali che lo rendono schiavo di se stesso. Lo deciderò al momento opportuno se stringerti la mano o paralizzarti dal collo in giù. Sai qual è stato lo shock culturale più pesante che ho sperimentato al rientro? Dico a parte i semafori, i cartelloni pubblicitari, i modi di fare di chi pensa di essere solo al mondo camminando nella folla. Dico a parte il rumore di fondo, la vibrazione costante di un motore invisibile. Dico a parte gli odori nauseanti, l'invasione del metallo coi suoi infiniti riflessi. La parte peggiore è stata la finzione, la spropositata bugia che si nutre del cervello collettivo, vedo bocche zannute ancorate a ogni singola mente, a succhiarne fuori libertà, intelligenza, giudizio, onestà, serietà, responsabilità. Non credo che tu capisca cosa intendo, non è possibile farlo senza uscire dagli schemi, dei confini, dalle prospettive disegnate apposta per impedire prese di coscienza. Ne parliamo ancora quando ci vediamo, ti consiglio di preparare un bel discorsetto se vuoi convincermi a risparmiarti una lezione di danza delle ossa. A presto.

giovedì 24 marzo 2011

Il cucciolo.

Il professore con la faccia da neonato ci spiega come si finisce il livello, a me e ai personaggi non giocanti, in tutto siamo una decina, non ho fatto il conto. In alto a destra lampeggia la scritta 'skip intro' e ci metterei sopra la mano se non fosse per la faccia del professore. La maschera da neonato del professore, i pixel che riproducono la grinzosità e il rosa acceso di una pelle abituata ai 37 gradi costanti del corpo materno. Mi è impossibile skippare l'intro per via della faccia del professore, gli occhi che mostrano la presenza di spirito pericolosa dell'adulto, la bocca che si muove esprimendo un linguaggio denso e articolato, il tutto nelle sembianze di un neonato. Chi sarà il programmatore che ha ideato questa combinazione, a quale scopo? Ci si potrà fidare di un gioco che inizia dando segnali di squilibrio mentale? E intanto osservo il professore, il camice bianco allacciato fino all'ultimo bottone, i guanti di lattice, le scarpe infilate in sacchetti che impediscono alle suole di compromettere la sterilità dell'ambiente. Sulla pelle del suo volto da neonato si nota il ritmico riflettersi delle parole 'skip intro' che lampeggiano da qualche parte, in alto a destra, a portata di mano.

Il professore si rivolge direttamente a me, come se sapesse che tutti gli altri sono personaggi non giocanti, governati dallo stesso computer che governa lui, che esegue il codice del programmatore di cui sospetto inconfessabili turbe mentali. La faccia da neonato del professore diventa sempre più grande, occupa tutto lo schermo della mia visuale in prima persona, avvicinandosi perde e riguadagna definizione in accordo coi tempi reattivi dell'unità di processo centrale, o del modulo grafico integrato nell'hardware. Ogni volta che il gioco si congela per il microtempo necessario alla ricompilazione mi sento sospeso, mi sento perso, disconnesso, a galleggiare di fronte all'espressione paralizzata del professore, che sembra andare soprappensiero, ritornare il neonato che dovrebbe essere, poi il flusso delle immagini riprende a scorrere a 60 schermate al secondo e il mondo ridiventa fluido. Ci sono delle ombre incoerenti che cadono controluce, e questo non è bene, non è bene per niente, conferma i miei dubbi sul programmatore, eppure sono tranquillo, cosa potrebbe mai succedermi, è solo un gioco, è finzione, simulazione, virtualizzazione.

Il professore mi spiega come finire il livello, come arrivare alla fine e vincere, guadagnare il diritto di passare oltre, dice 'Io sarò di là ad attendervi', con la d eufonica, la vedo scritta bianco su nero nell'apposita finestra per i sottotitoli. Credevo di avere disabilitato la funzione nelle opzioni generali ma è evidente che non è così, che mi sto sbagliando. Eppure ero convinto, sarà paranoia genuina o un trucco del programmatore pazzo che si diverte a fare confusione, a eliminare qualsiasi elemento prevedibile dal gioco, che si diverte a farti capire che in realtà il giocatore non ha alcun controllo sul gioco, che non esistono regole infrangibili. Metto la mano sul bottone in rilievo con scritto 'menu', lo premo e non succede niente. Mi manca un po' l'aria, un principio di panico, dov'è la barra spaziatrice, come si mette in pausa? È solo un momento di panico, è passato, va tutto bene, mi dico 'Non essere ridicolo'. Il professore fa una risata diabolica, amplificata e distorta, riprodotta con l'eco artificiale dello strumento 'riverbera'.

Il professore spiega come liberarsi del cucciolo, se ce l'avete, oppure come ottenere il cucciolo, se non ce l'avete. Si gira per non mostrare le emozioni che sta provando, dà un colpo a pugno chiuso sulla scrivania, scuote la testa da neonato e sospira, quindi torna a rivolgerci la parola e dice 'Chi non ha il cucciolo vada da questa parte, si diriga nel luogo appropriato' e fa il gesto di chi allontana un seccatore. Mi guardo attorno, non vedo cuccioli, il professore si accorge del mio disagio e sorride tra sé, contento di vedermi in difficoltà. Perché vorrei estrarre un'arma qualsiasi e eliminare il professore dal gioco? Perché non skippo l'intro? Mi concentro sul fatto che non ha senso prendersela con il software, che le provocazioni inserite nel programma sono con tutta probabilità frutto di una consulenza psichiatrica, per dare profondità e realismo al gioco, per renderlo coinvolgente e appassionante, anche se per lo scopo si è deciso di stimolare reazioni negative. Cambio atteggiamento, mi viene da fare i complimenti al creatore del gioco, ottimo lavoro, questo gioco può farti star male davvero se non ci stai attento, se non sei un giocatore esperto.

Il professore entra in un loop di attesa input, guarda se ho il cucciolo, vede che manca, mi manda via con il gesto dell'importunato. Dico al professore sono un esperto, glielo dico premendo la combinazione di tasti che apre la console con privilegi di amministratore in tutti i giochi basati sul motore grafico che ho riconosciuto dal grado di complicazione nelle gestione dei poligoni, dai riflessi sulle superfici ondulate, dalle lame di luce colorata che appaiono nelle prospettive molto acute. Digito i comandi che garantiscono l'invulnerabilità, aumentano la disponibilità di armi con infinite munizioni, permettono di passare attraverso i muri e uscire, volendo, dalla zona di gioco, dalla mappa, dal piano materiale. Mi avvicino al professore e lo kicko via per accedere alla porta, si apre di lato, c'è un corridoio con altre porte, anche queste si aprono di lato, 'Qui tutto è scorrevole, tutto si apre di lato', mi dice in cuffia la voce incorporea del professore, 'Qui tutto scorre, dov'è il tuo cucciolo adesso?', mi dice. Non lo ascolto, apro le porte, rompo gli oggetti, sparo a tutto quello che si muove, ora sono impegnato, ora ho un obiettivo, ora tutto quello che riesco a pensare è solo muoversi, sparare, andare avanti, trovare il cucciolo, finire il livello.

Il professore adesso parla attraverso il circuito interno, ci sono altoparlanti sparsi ovunque, protetti da grate metalliche che li rendono indistruttibili, e la voce del professore diventa più forte quando mi avvicino a un diffusore, più debole quando me lo lascio alle spalle, correndo via. Ho inserito la corsa automatica, corro continuamente, senza mai stancarmi. La faccia da neonato del professore appare in uno dei tanti monitor nevosi e sfarfallanti, la faccia in bianco e nero non è mai in sincronia con la voce. Il professore è furibondo, il suo tono di voce è in conflitto con la musica rilassante da ascensore che il programmatore ha scelto come sottofondo. Il professore sta gridando come un predicatore televisivo 'Il cucciolo è resistente ai danni da fuoco! Ai danni contundenti!', fa una pausa, la musichetta aumenta di volume fino a coprire il rumore dei miei passi di corsa, delle mie armi in azione. Il professore intercala bisbigliando istruzioni speciali per finire il livello 'Il cucciolo potrebbe fornire accesso a nuove modalità di gioco, con vista notturna, con una ghiera di selezione potenziata', e io non so nemmeno come sia fatto il cucciolo, mi chiedo cosa succederebbe nel caso in cui il cucciolo venisse scambiato per un nemico, distrutto, eliminato.

mercoledì 23 marzo 2011

Kevorkian.

You don't know Jack è il titolo di un film biografico, la vita del soprannominato Dottor Morte, Jack Kevorkian. Come tutte le biografie 'trasposte sul grande schermo' (strano che non ci sia il copyright sui cliché, le frasi fatte, i modi-di-dire), anche questa paga dazio al bisogno di romanzare la storia per allontanarsi dal filone documentarista e irretire quella grande fetta di pubblico che è fortemente allergica a tutto ciò che è cultura, riflessione, intelligenza, approfondimento. Se prendete, ad esempio, A beautiful mind e andate a leggere il libro da cui è stato tratto vi sembrerà una vera e propria truffa affermare pubblicamente che il film è 'tratto', si dovrebbe avere degli scrupoli anche solo ad affermare che il film è 'ispirato' al libro. Ma comunque, tant'è, il mondo è fatto così, chi si lamenta ottiene solo sbuffi e solitudine. Solo per dire che va preso con le molle anche questo film sulla battaglia di un medico di origini armene disposto a rischiare il carcere pur di ottenere una legge chiara sul diritto al suicidio assistito.

Il dottor Kevorkian è un Pacino bolso e disarmato che porta in giro la pancia del bevitore di birra in un cardigan lavanda stinto che fa molto pensionato appena sotto la definizione di benestante, di quelli che una volta erano classe media e adesso cercano di nascondere la perdita del potere d'acquisto di quella che allora, quando versavano le rate dell'assicurazione, sembrava in prospettiva un ricco assegno pensione. C'è chi inizia a giocare a golf, chi impara a pescare, chi va a leggere il giornale tutti i giorni sulla panchina al sole d'inverno e in ombra d'estate (se volete sapere quali sono le panchine migliori di un parco cercate quella con sopra dei vecchietti armati di giornale), Jack invece si dedica a un nobile ideale: la prosecuzione della sua professione in altri modi, la somministrazione di medicinali come forma di lotta politica.

Nel film Jack Kevorkian diventa una specie di Ghandi, di Einstein del diritto e dei dilemmi etico-morali, in un mondo di manifestanti deficienti (e nella realtà spesso lo sono), di avvocati deficienti (e nella realtà spesso lo sono), di giornalisti equilibrati e profondi (e nella realtà spesso non lo sono), di poliziotti taciturni e gentili (e nella realtà spesso non lo sono), insomma la presa per i fondelli della storia romanzata si nota benissimo anche se la presenza di malati gravi, malati veri, malattie vere, confonde le idee. La malattia incurabile, la sofferenza del condannato a morte, l'agonia del malato terminale sono l'unica e inconfutabile verità che emerge dalla vicenda del Dottor Morte. Non il suo avvocato che lo difende gratis per ricavarne pubblicità e candidarsi a governatore. Sembrano tutti quanti mossi da motivazioni nobili, del tutto disinteressate, compreso il protagonista che - in una delle rare parentesi di verità che giustificano il collegamento con la vita vera da cui la sceneggiatura è stata 'tratta' - dichiara di credere nel dio Bach, il compositore, non quello dei fiori, l'unico dio che non sia frutto di invenzione, e lo dice con la voce del Pacino anch'esso vero, quello perfetto nei panni di personaggi corrotti e malvagi.

Un film con anche il dimagrente Goodman, il sarebbe ciclope dei Cohen in Fratello dove sei?, e l'invecchiante Sarandon, la Louise che si lancia con la macchina nel precipizio nel famoso film neo-femminista, strano non ci sia anche Sean Penn, di solito si butta a pesce se la storia puzza di politica, un cast che ci ricorda la vocazione pedagogica hollywoodiana, il progresso della civiltà l'abbiamo strappato dalle mani elitarie della cultura e l'abbiamo democratizzato nei media popolari. E forse è giusto così, non sto dicendo di no, mi limito a ribadire il risaputo. La parte migliore del film è la sentenza finale del giudice, che dimostra la differenza che passa tra la semplificazione attuata per raggiungere il maggior numero possibile di utenti-clienti, a scapito della profondità di analisi e grazie alla spettacolarizzazione dell'altrimenti banale, e la limpidezza di argomentazioni precise, coerenti e dettagliate, anche se incomprensibili a tutti coloro che non possiedono gli strumenti per orientarsi nel mondo della cultura alta, dove le idee sono espressione di un vasto reticolo di contaminazioni e riferimenti.

La vicenda è comunque attuale, Jack è uscito di galera nel 2007. Ha ucciso una persona e ne ha aiutato a morire più di cento. Il passo definitivo l'ha compiuto, stando alla ricostruzione cinematografica, per spingere gli Stati Uniti d'America a legiferare in materia. Infatti se nel suicidio assisistito si forniscono al moribondo gli strumenti per una morte rapida e indolore senza causarne materialmente e direttamente il decesso, nell'eutanasia si dà la morte. Mentre non esiste una legge che possa addossare la responsabilità del suicidio su terzi, esiste invece una legge che punisce l'omicidio, al quale viene equiparata l'eutanasia. Il dibattito è molto interessante e articolato, al punto da far ritenere sciocco il Dottor Kevorkian a superare la linea che separa il suicidio assistito dall'eutanasia che può venire paragonata a procedure di scienza applicata alla politica di stampo nazista.

Le ragioni di chi preferisce il vuoto legislativo sul suicidio assistito, prima ancora che sull'eutanasia, non sono da ritenersi meno valide rispetto a quelle di chi sostiene il diritto di decidere per sé anche in tema di vita e di morte. Ci sono moltissime ragioni pratiche che allontanano le situazioni perfette dalla miriade di situazioni imperfette che ci proporrebbe la fantasia insuperabile della realtà. La stessa distanza che separa la musica dal rumore, la matematica dal sentimento, la cultura dallo sport. Si rischia che ogni singolo caso debba venire sottoposto a rigorose analisi, documenti da firmare, specialisti da consultare, turbe mentali da escludere, e alla fine chi vuole fare tutto per bene rischia di metterci troppo tempo, di non arrivare a niente per eccesso di prudenza nelle conclusioni di un esperto chiamato a spaccare il capello e assumersi responsabilità che nessuno vuole. Intanto per strada qualcuno si spara, si ingozza di barbiturici, ci ricorda che in fondo la vita e la morte sono questioni di un attimo, di un bottone schiacciato come di un grilletto premuto, che il ripensamento non esiste per chi non più non pensa né può pensare. E magari tanti di loro non hanno nemmeno la scusa di un dolore immenso e implacabile, di un'agonia spietata e distratta.

P.S.: Ah, i quadri. Pare che si dedicasse anche all'arte, il Dottor Morte. E alla musica. Senza dubbio è un personaggio che merita di venire ascoltato senza pregiudizi.

P.P.S.: Se qualcuno vuol sapere come la penso per congratularsi o insultarmi, il suicidio assistito non è un diritto ma di certo è un grosso favore, e di certo non è reato a meno di inganni, certo, a meno di inganni, mentre l'eutanasia non è altrettanto semplice da inquadrare giuridicamente, eticamente, moralmente, è e rimane togliere la vita non a se stessi ma a terzi.


(un'opera di Jack Kevorkian)

martedì 22 marzo 2011

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (37 di N)

Quando c'hai un figlio ringrazi Dio ogni volta che lo guardi e ti rendi conto che è sano, che non ha problemi di corpo o di mente. Ti sembra un miracolo che possa esistere qualcosa al mondo come un figlio che sta bene. Poi leggi di figli altrui che stanno in ospedale per giorni, settimane, mesi. Nei libri, nei film, nella cronaca ci sono raccontate vicende in cui i figli stanno male, corrono rischi e pericoli, agiscono compiendo errori madornali che ricadono sulla testa dei genitori. Se guardi tuo figlio e non vedi niente di sbagliato ti senti in colpa per la felicità che provi ben sapendo che altri genitori non possono, e allora ti viene da chiedere scusa anche se non hai fatto niente di male a nessuno, ti viene da ringraziare anche se nessuno ti ha fatto un favore.

Elia ha rotto un bicchiere e si è messo in posizione difensiva, le mani unite sul petto, le sopracciglia inarcate, come se si aspettasse rimproveri, punizioni. Mi è dispiaciuto vederlo così, gli ho detto è stato un incidente, la prossima volta starai più attento. Era così sollevato nel vedermi reagire con calma, così riconoscente per la mia comprensione. Mi chiedo chi gli abbia fatto capire che non sono tutti come me, chi gli abbia fatto venire il dubbio che anch'io potrei sgridarlo, farlo sentire sporco e sbagliato per non aver impedito a se stesso di commettere errori. Gli ho detto non è colpa tua, sono cose che succedono. Lui ha detto non ho fatto apposta, la voce di uno che è ancora un po' preoccupato, che non ci crede fino in fondo che non ci saranno conseguenze.

In situazioni come queste non puoi nemmeno mostrare le tue emozioni genuine, come padre le tue emozioni vengono sempre interpretate come una comunicazione diretta a ottenere risposte dal bambino. Se mostri dolore lui pensa che ti sta provocando dolore, anche se il tuo dolore viene dal suo atteggiamento timoroso di possibili conseguenze, quello che un tempo si chiamava il sacro timor di Dio, che è in effetti un rispetto per l'autorità sostenuto dalla disciplina e dal rispetto di un rigoroso codice morale, i comandamenti e così via. Per cui non devi mostrare emozioni che non abbiano finalità educative. In quel momento le uniche emozioni legittime erano positive, dall'accettazione alla calma, dalla spiegazione al perdono gratuito.

L'autocontrollo a cui ti spingi quando c'hai un figlio è di un tipo che non sperimenti in altri ruoli. Gli ho detto stai indietro che ci sono i vetri. Lui ha detto ti aiuto e io ho detto no, ci sono i vetri, faccio da solo. Lui è rimasto male, ho aggiunto se vuoi darmi una mano vai a prendere la paletta. Ho raccolto i frammenti e ho detto ecco fatto. Visto? Tutto risolto. Lui ha annuito e mi guardava come se fossi strano, come se n fondo avrebbe preferito la reazione che aveva previsto. Gli ho chiesto mi sono mai arrabbiato con te per un incidente? Lui ha detto no. Ho mai gridato con te? Lui dice no. Mi sarei dovuto arrabbiare per questo incidente? Lui ha spalancato gli occhi, come se avesse capito qualcosa, e mi ha sorriso.

Non gli ho chiesto chi si arrabbia con lui, chi lo sgrida, chi lo mette in punizione. Ci sarà sempre qualcuno pronto a farlo. C'è pieno di gente che è sempre pronta, non aspetta che un'occasione, per attaccare chi sbaglia, chi gli capita un incidente, per deridere, prendere adeguati e severi provvedimenti. Non sarebbe giusto fargli credere che dovrebbe andare diversamente, è meglio che si renda conto che il mondo là fuori è ingiusto, crudele, stupido. L'importante però è che vi sia un'eccezione, che possa sempre contare su qualcuno e chi meglio di un padre può diventare quel qualcuno? Figli continuamente rimproverati e privati dell'affetto, ecco come si costruisce una personalità disturbata, cito a memoria un telefilm di ieri sera. Anche se a volte non so dire se un cattivo genitore non si riveli un vantaggio, per alcuni almeno, quel che non ti uccide ti fortifica? Non c'è una ricetta, un manuale d'istruzioni.

venerdì 18 marzo 2011

Il lavoro di mio papà.

Il lavoro del mio papà lo so perché ci sono andato. Ieri. C'è un giorno ogni mese che io posso andare col mio papà al lavoro e stiamo insieme mentre lui lavora e io lo guardo che lavora. Come ieri, si chiama il giorno del vai al lavoro col tuo papà, me l'ha detto la maestra come si chiama perché io non lo sapevo, io non sapevo nemmeno che certi giorni avessero un nome. Ieri infatti era il primo giorno di lavoro del mese, è quello il giorno del vai al lavoro con il tuo papà, infatti ieri io ci sono andato per la prima volta perché devi essere abbastanza grande o non ti fanno entrare. Adesso sono un bambino grande e ci posso andare a vai al lavoro con il tuo papà, finalmente. Non è divertente come pensavo ma si imparano un sacco di cose. Lo sapevo che il lavoro non poteva essere divertente, come un gioco per esempio, ma il lavoro del mio papà secondo me è uno dei meno divertenti di tutti. Ho imparato il bottone che si schiaccia per accendere l'ecuazzatore, ho fatto girare la monopola grossa fino a quando abbiamo dovuto tapparci le orecchie con le mani, ho ripetuto nel microfono le frasi che diceva il mio papà e le abbiamo inserite in fondo alla musica fino a farle sparire. Le abbiamo mandate sotto la superficie, ha detto il mio papà, e mi ha spettinato anche se lo sa che non voglio, che mi viene il nervoso se mi sento di essere spettinato.

Il lavoro del mio papà è brutto e non mi diverte per niente, però è complicato e ogni tanto, se lo si fa nel modo sbagliato, potrebbe anche piacermi. Quando si sono chiuse le porte mi sono sentito male, lo ammetto, ma poi mi sono abituato. È tutta questione di abituarsi, ha detto il mio papà, e aveva ragione, dopo un po' non mi sembrava più di stare chiuso dentro una scatola, non avevo più paura di venire stritolato dentro al pugno delle pareti. Hanno messo uno sgabello per me di fianco alla sedia di papà e per fortuna mi sono portato da casa il gamerz sennò sai che noia, tutto il tempo a schiacciare bottoni e muovere i cosi, le levette, come li ha chiamati papà non me lo ricordo più. I cursori! Sì, e mappare le tracce anche, me lo ricordo mappare le tracce perché mi ha ricordato l'immagine che ho visto una volta, che facevano una rete di fili sospesa sopra a un'impronta antica, e facevano delle foto per ricostruire la zampa del dinosauro. Quando l'ho raccontato a papà lui ha detto che fa esattamente la stessa cosa, esattamente quella, solo che lui l'impronta non la porta alla luce ma la fa sparire. Non ho capito perché l'ha detto come se gli dispiaceva di farla, forse a tutto dispiace finire un lavoro, penso che gli era venuta la nostalgia per tutte le tracce che ha mappato in tutti questi anni, come quando io guardo i giocattoli che ho usato da piccolo.

A un certo punto abbiamo fatto una pausa per mangiare, poi io mi sono addormentato perché papà non ha voluto lasciarmi bere anch'io le pillole che beve lui per restare sveglio a finire il turno di lavoro. Poi mi sono svegliato e abbiamo lavorato ancora molte ore prima di tornare a casa. Il mio papà ha la barba nera e in certi punti bianca, gli occhi verdi diventano scuri intorno e sembra che ha una maschera o che si è truccato. A un certo punto, dopo che lo guardavo da parecchi minuti, gli ho detto papà hai la barba lunga e sembri truccato e lui si è spaventato, si è accorto che ci sono anch'io come se il lavoro lo ha fatto dimenticare di me, o forse è che sono stato troppo in silenzio e senza muovermi, però ha riso, ha detto hai ragione, mi ha preso in braccio e mi ha fatto gridare dentro al microfono. Mi ha detto grida più forte che puoi , tanto non ci sente nessuno, la stanza e isonizzata, ma io non sapevo cosa gridare. Papà mi ha detto grida aiuto, grida elpmi, e abbiamo osservato le mille punte della mia voce sullo schermo del computer. Perfetto, mi ha detto papà, e ha iniziato a modellare le punte con le dita, a mappare la mia traccia, a nascondere le mie impronte con le sue, e dopo un po' mi sono stufato di guardare, mi sono stancato di risentire le mie grida sempre più retroficate fino a diventare un fastidio da mandare sventolando una mano.

Io da grande l'ho già detto al mio papà che non voglio lavorare per il ministero, che non voglio fare il suo lavoro di sforzo bellico. Lui dice che allora non sono un patriota, che non contribuisco al bene comune, che non lotto per il mio popolo. A me piacciono i gamerz, da grande inventerò dei game per il gamerz, ecco cosa voglio fare di lavoro. Quando lo dico mia mamma ride, mio padre diventa di cattivo umore. Ieri mi faceva ascoltare i prodotti finiti, mi diceva ascolta questo prodotto finito e partiva una musichetta un po' da gamerz ma più lenta, e poi papà mi chiedeva se avevo sentito qualcosa di strano. No papà. Perfetto, è così che deve essere, l'orecchio lo sente senza che te ne rendi conto. Non senti il bisogno di venire a vivere nel nostro glorioso paese? Papà, io ci vivo già. Certe volte non lo capisco proprio mio papà. In questo ci ho messo la tua voce, mi ha detto ieri papà, quando dici voi vivete in una dittatura, il vostro governo è contro di voi, ma io non sentivo la mia voce né niente, solo la musichetta che vendiamo al nemico, non so se era vero o se faceva uno dei suoi scherzi che fanno ridere solo lui. Papà mi dispiace ma io sento solo una musichetta che si ripete e ripete e ripete. Il mio papà ha annuito, molto soddisfatto, mi chiedo in quale ascensore nemico finirà quella che ci ha seppellito dentro l'impronta dove grido aiuto elpmi.

Tersanctus.

Buono. Buono e giusto. Buono, stai buono, si dice al cane che trema e ringhia, al bimbo che trema e piange. Buono, adesso, buono, che va tutto bene. E poi è un buon giorno. Buon giorno a lei, buon mattino, buon pomeriggio, buona sera. Buona notte. Buono è il sacro, la focaccia appena sfornata, lo scambio degli anelli, la prima risata. Buona è la puzza di merda gettata sui campi, l'odore di un cane affettuoso in attesa del tuo ritorno. Buona la novella del buon pastore, buona la bugia che si vuol sentire, buono il sapore del sangue quando ti mordi la lingua per fare silenzio. Buon sangue non mente. Buon appetito, buon compleanno, buona fortuna. Buona la pioggia, il salvadanaio, la tovaglia pulita. Pochi ma buoni. La buon'anima. Buono è il vento tiepido, l'onda gentile, il padre misericordioso. Buoni pasto, buoni del tesoro. Ai bambini buoni non porta il carbone. Buona la prima. La frutta d'estate, la zuppa d'inverno, sono cose buone. Sarà la volta buona. Sarà a buon mercato. Buona è l'attesa paziente, la pace nei cuori, l'istinto di conservazione. Di bocca buona, il giovane di buone speranze. Buono è circondarsi e venire circondati. Il rimprovero di una madre preoccupata è buono. La superstizione del superstite, la sopravvizione del sopravvissuto, la naufragione del naufrago, è tutta roba buona. Molto buono, anzi buonissimo. Tante cose buone, lo ammise, bontà sua, e lo permise, troppo buono. E coloro che lo videro così buono si spaventarono e corsero via, imboccando direzioni casuali. Buono è il latte e miele, buona la febbre quando scompare, buone le mani di chi sa prendere e di chi sa dare, buoni i piedi di chi deve camminare e camminare. Un buon diavolo, una buona occasione, porcherie belle e buone. Il buon gusto di smetterla, mettersi di buzzo buono. Buono come il pane. Il saluto dall'altra riva di un fiume è buono, il saluto come se fosse l'ultimo è buono, il saluto come se fosse il primo è altrettanto buono. Le buone maniere. Le buone idee.

mercoledì 16 marzo 2011

Kamikaze.

Sono di quelli che hanno alzato la mano, siamo in cinquanta. Siamo quelli che avranno i loro nomi incisi su un monumento commemorativo, ci sarà scritto Qui si ricorda il coraggio e il sacrificio, qualcosa del genere, e si porteranno i bambini in visita, le maestre diranno ecco i nomi dei kamikaze. Forse diranno eroi, ma io direi kamikaze, perché è così che mi sento, come quel vostro uomo-dio che non scappa di fronte alla morte e lo inchiodano a un albero, certo che siete grezzi, senza offesa, voi occidentali, siete brutali, indisciplinati e irrispettosi, siete dei barbari. Chi di voi avrebbe alzato la mano? Avete ancora uomini-dio fra di voi? Ne parlavo con Hiroshi, il mio collega di turno, e lui ha riso, come ride lui, cacciando fuori l'aria come se tossisse, ha detto che voi sareste scappati urlando, puntandovi il dito addosso a vicenda. Ho riso con lui, non avevo voglia di contraddirlo, ma quello che ho pensato è che voi non avreste scelto per alzata di mano, avreste avuto qualche uomo-dio pronto a immolarsi senza che nessuno debba chiedere. Il kamikaze lo fa per sé, l'uomo-dio lo fa per gli altri. Non so se vale per tutti, ma vale per me, Shiro Tagaki, che ha perso la casa, la macchina, la moglie, il figlio, tutto quel che mi rimane è l'orgoglio dell'aver alzato la mano, di aver risposto alla chiamata del dovere, alla richiesta dell'autorità. Ho pensato alla discarica di macerie che è il quartiere dove sono nato e cresciuto, alla scuola che ho frequentato, non ho un posto a cui tornare, mi sono detto, e la mia mano s'è alzata da sola.

Siamo in cinquanta, facciamo turni che durano pochi minuti, per via delle radiazioni. Percepisco la solitudine e l'abbandono come chi sa per certo di non avere accesso alla radio, alla tv, ai giornali, al flusso di informazioni che ti rende uno dei tanti, un membro di un gruppo che condivide lo stesso presente. Ho detto a Hiroshi, mentre controllavamo la pressione, pronti a ridurla aprendo le valvole, gli ho detto Lo sai che non c'è nessuno oltre a noi? Hiroshi ha annuito, ha dato un colpetto col dito a un manometro secondario, ha cambiato discorso prendendosela col tempo, maledicendo la pioggia. Ho detto Non c'è essere umano nel raggio di decine di chilometri. Hiroshi non ha detto niente e dopo un po' abbiamo sentito tremare il pavimento sotto i piedi, abbiamo aspettato che passasse, Hiroshi ha dato di nuovo un colpetto al manometro col dito e si è voltato a sorridermi, e io ho ricambiato la cortesia. Per lavorare qui ho dovuto dimostrare di essere il migliore, più di una volta, e adesso a cosa mi serve sapere tutto quello che c'è da sapere, posso solo essere più informato di chiunque altro, senza che io possa sfruttare il privilegio della conoscenza a vantaggio mio o di chiunque altro. Il potere dell'informazione, quante volte l'ho ripetuto nelle lezioni che ho tenuto a giovani motivati e preparati quanto e più lo sono stato io alla loro età. Adesso a cosa mi serve l'informazione? A alzare una mano quando cercano i kamikaze, gesto che un qualsiasi uomo-dio occidentale potrebbe fare anche senza saperne niente, senza avere altra informazione che il pericolo di morte e la necessità di sacrificio.

L'enorme sapere necessario a costruire la centrale ora si riduce a questo: apri la valvola quando la lancetta arriva sul rosso. Spara nel cielo il vapore radioattivo e torna a combattere il calore residuo nelle barre. Aiuto Hiroshi a indossare al tuta. Lui aiuta me. Camminiamo a testa né alta né bassa, senza la dignità del guerriero né la rassegnazione del condannato. Camminiamo come al solito, infiliamo le tessere magnetiche per abitudine, dimenticando che hanno tolto la corrente dove non è necessaria. Sopra certe temperature l'acqua non si accontenta di vaporizzare, si scinde in idrogeno e ossigeno e basta una scintilla all'idrogeno per esplodere. La tessera è la stessa che segnala eventuali contaminazioni. Stando al colore del materiale reagente inserito nella mia tessera d'identificazione io non dovrei essere qui, dovrei essere in qualche luogo di villeggiatura a godermi la pensione d'invalidità, il risarcimento per danni biologici, con in tasca una lettera di scuse vergata a mano dell'Imperatore. Anche quella di Hiroshi è diventata rossa, anche Hiroshi ha perso tutto, ma non a causa del terremoto e dello tsunami, aveva perso tutto già da prima, non ha più niente da perdere da quando lo conosco, e siamo colleghi da vent'anni. Hiroshi mi ha afferrato il braccio per impedirmi di alzare la mano e mi ha mollato solo dopo avermi guardato negli occhi, mi ha fatto un inchino e ha a sua volta alzato la mano. Vecchio Hiroshi, il solito carattere scontroso, guardando chi andava via senza salutare, pieno di vergogna, mi ha detto Quando avremo finito qualcuno di quelli che non hanno alzato la mano dirà che non era così pericoloso come sembrava.

Stamattina siamo usciti a controllare la struttura esterna e ho notato l'elicottero. Da bambino mi piaceva salutare gli elicotteri, ero convinto che il pilota rispondesse, che certi scarti improvvisi indicassero la replica al messaggio ricevuto. Ho controllato che Hiroshi fosse distratto e ho salutato l'elicottero. Mi è sembrato che si fermasse, puntato verso di me, e abbassasse il muso, per guardarmi meglio. Hiroshi ha detto qualcosa e mi sono avvicinato chiedendogli a voce alta di ripetere ma lui non ha ripetuto, ha solo indicato l'origine del fumo scuro, un buco nel muro largo poco più di un metro. Ho detto Non mi viene in mente una soluzione. Hiroshi ha scosso la testa dentro alla tuta e ha detto altre parole che non suono riuscito a cogliere. Quando siamo rientrati abbiamo fatto rapporto e abbiamo aspettato di sentirci dire se dobbiamo continuare e se verremo evacuati. A ogni fine turno aggiorniamo i dati e i capi decidono se dobbiamo insistere o se morirci sopra non porterà comunque a nulla. Però ce lo chiedono, per correttezza, ci chiedono Qualcuno di voi chiede di abbandonare la posizione? Nessuno fiata, nessuno vuole gettare disonore su di sé e sulla propria famiglia, nessuno ignora il rosso, per alcuni virante al purpureo, della tessera ben visibile, esposta come una medaglia nell'apposito scomparto della tuta. Non ci si tira indietro, non c'è più tempo di ripensarci, comunque vada noi ci saremo stati, avremo fatto la nostra parte, per qualcuno saremo quelli che tanto ormai non avevano più niente da perdere, per altri saremo quelli che salutavano gli elicotteri di nascosto e hanno cercato di proteggere il mondo facendo scudo con il proprio corpo.


lunedì 14 marzo 2011

La bomba.

Uno dei sogni più strani è un sogno con la bomba, come questo che ho fatto un paio di notti prima del terremoto giapponese: eravamo seduti intorno a un tavolo, al sole, chiacchierando, godendoci il panorama. Le associazioni. Quante associazioni. Quando osservo mio figlio che sogna mi immagino di vedere le associazioni sotto forma di temporale, di fulmini dentro la bambagia di nubi gentili, tuoni silenziati, sentimenti quatti quatti, fulmini arrendevoli. Le associazioni capitano, avvengono dentro di noi, afferma chi vuole sbrigarsi a troncare l'argomento, senza che ce ne rendiamo conto, a nostra insaputa, o quanto meno fuori dai confini della nostra volontà. Contatti elettrici governati da un caos capace di organizzarsi in modo spontaneo. La dimostrazione è l'evidenza, basta domande, la scienza si ferma qui e non ammette opzioni irrazionali. Stavo parlando di associazioni come parlo quando il mio unico scopo è obbligare il mondo a lasciar trascorrere del tempo senza che succeda niente, senza che debba per forza cambiare qualcosa. Toccavo il tavolo, grattavo il legno rugoso per rimuovere frammenti di vernice, granelli di sporcizia, portare alla luce il marrone più chiaro che riposa al di sotto, protetto, nascosto. Per esempio tutto questo lo associo alle praterie americane, dico, e mostro con la mano i prati, alle cittadine di provincia americane, dico e indico le strade, i cartelli scritti in inglese. Al tavolo ci sono mia moglie e mio figlio e un uomo che è di schiena, è controluce, è mio padre ma è anche un barbone, o Gesù, o una statua messa lì per divertire i turisti, perché qualcuno salti su a dire forza, scattami una foto mentre abbraccio la statua, mi siedo in braccio alla statua, assumo la medesima espressione corrucciata della statua. Per esempio, dico, associo quest'uomo a una statua e mi ricorda un pellerossa a grandezza naturale che pubblicizza whisky e tabacco, puntando l'indice verso il cielo, e mi ricordo che mi sarebbe piaciuto fare una foto con la statua dell'indiano, mi sarebbe piaciuto far finta, nella foto, che mi stesse indicando qualcosa di molto importante che sarebbe rimasto fuori campo, qualcosa di cui indovinare la natura partecipando dell'espressione e dello sguardo miei e dell'indiano, e sarebbero stati contrastanti, lui preoccupato, io estasiato. Non se ne è fatto niente, dico nel sogno a mia moglie, che sta guardando lontano forse ascoltandomi forse no, dico a mio figlio, che mi sta imitando nello scalfire il legno del tavolo ammorbidito da piogge recenti, dico all'uomo padre barbone Gesù statua, che mi sto convincendo sia un aggeggio robotizzato per come mi fissa, disinteressato, come se condividesse la mia necessità di un periodo superfluo, da buttare via, durante il quale si possa avere la certezza che ogni cosa rimarrà al tempo zero, lo sguardo di un animale feroce che si è abituato alla gabbia, lo sguardo che gli viene quando ha appena consumato la razione e sa che per oggi non accadrà di nuovo. Il sole produce la sensazione di spilli di quando l'aria è secca, il cielo della tonalità di azzurro che fa viaggiare i suoni così distanti da farti sentire uccelli che cinguettano anche dove girandoti non riesci a trovarne. Non c'è traffico né folla, non c'è vento né ombre, dev'essere mezzogiorno, dev'essere domenica, penso, non c'è nemmeno il sottofondo, i rumori che non sentiamo, i particolari che non vediamo, il mondo che brulica in modo così costante e monotono da imporci di ignorarlo o impazzire. Taccio, non parlo più di associazioni, non dico più niente per capire quanto durerà il silenzio, fino a quando mia moglie e mio figlio resteranno incantati nella bolla di pace irreale che non voglio essere il solo a percepire intorno, nei riflessi del sule su vetri e metalli, nei profumi di erba, di terra, di fiori, nella luce leggera che si tuffa come la carezza di una febbre cerebrale dentro alla pelle delle braccia, delle guance, della fronte, facendoti sentire ubriaco e stanco, in grado di resistere a qualunque tipo di freddo, compreso quello del cuore. Mio figlio alza la testa prima degli altri perché i bambini sentono frequenze che vanno perdute con l'età. Mio figlio si volta e mi chiede conferma con un'occhiata, senza pronunciare la domanda a voce alta, così da non coprire il debole suono che solo lui può ascoltare. Adesso lo sento anch'io, è una turbina d'aereo, e mi sembra di vedere un puntino, là in fondo. L'uomo padre barbone Gesù robot per la prima volta apre la bocca e lo fa per suggerirmi di scappare, mi dice 'Scappate e vi salverete', lo dice come se fosse un'ovvietà. L'aereo si avvicina ma il pericolo non viene da lì. Si squarcia la copertura di un silo sotterraneo, lo vedo aprirsi dall'interno come un uovo che non regge più la forza del becco, ne spunta il fumo e il cono della punta del missile. Qualcosa non ha funzionato, il missile non sale dritto su nel cielo come dovrebbe ma scarta di lato, rovina la parabola, cede alle esigenze di fattori imprevisti e viene giù sbilenco, va a sfracellarsi nei prati senza esplodere. È una bomba atomica, lo so, non ho alcun dubbio, fuggire non servirebbe a niente, per raggiungere una distanza di sicurezza dovrei avere almeno un'ora di tempo. Se non scoppia entro un'ora non scoppia più? Lo chiedo al padre statua Gesù robot barbone e lui non dice niente, mi guarda come se fosse convinto che io conosca già la risposta, se ne sta lì seduto come se gli capitasse ogni giorno di trovarsi nel raggio di una bomba atomica sul punto di esplodere. Decido che dobbiamo andare, che non ha senso stare qui a guardare il missile nell'attesa che esploda oppure no, e sento che la pausa è finita, il tempo ha ripreso a scorrere. Il resto del sogno consiste nello scappare, nello sbirciare ogni tanto lo specchietto retrovisore temendo di vedere l'esplosione farsi avanti, dicendo a mia moglie e a mio figlio di stare giù, sdraiati sul fondo dell'abitacolo, dicendolo col tono affettuoso, sereno, quasi annoiato di chi è convinto che domani ci rideremo sopra, dire cose come 'Non può scoppiare, non si è innescata”, cercando di non ripetersi, inventando rassicurazioni differenti, mentire quando tua moglie ti chiede se sei sicuro, come fai a saperlo, rispondere l'ho letto, 'L'ho visto in un documentario', e sentire che sboccia il desiderio che succeda adesso se deve succedere, che non si debba più continuare a vivere con questa paura intorno e addosso e dentro.

mercoledì 2 marzo 2011

Il crocevia dei sognatori (001)

(Disclaimer: bozza, prima stesura.)

La certezza di afferrare nuovi dettagli sogno dopo sogno, visita dopo visita, era confermata nel disegno a china nel cassetto della scrivania, nella camera chiusa a chiave al piano di sopra. Roland approfittava di ogni scusa per accertarsi che il disegno fosse ancora lì, disteso a faccia in giù dentro al cassetto, temendo che l'unica prova tangibile da mostrare alla corte il giorno in cui venisse messo in discussione il suo equilibrio mentale se ne volasse via, il foglio si sarebbe girato dentro al cassetto come un escapista, mimando in due dimensioni gli sforzi e le contorsioni necessaria a sputare la forcina per capelli, tenuta abilmente nascosta sotto la lingua, sul palmo della mano legata dietro alla schiena. Aprire il cassetto e ritrovare il disegno era fonte di continuo stupore per Ronald, non poteva trattenersi dal sorridere e dal sentirsi soddisfatto per averne impedito la fuga grazie al continuo esercizio della preoccupazione.

Approfittando del permesso di andare in bagno, Ronald era salito in camera a sincerarsi che fosse tutto a posto. Era l'ultimo modo di dire che stava dilagando nei corridoi della Galileo 'Formiamo l'eccellenza' Galilei, partita dal supplente di filosofia, il signor Trevor McWudd, ribattezzato Tavor Tuttapposto. Ronald prese il foglio con due dita e lo sollevò per sbirciare che fosse tutto a posto anche sotto e finalmente si sentì appagato, si era riempito la bocca di carne per fare presto, per correre a controllare, convinto che quel foglio una volta girato avrebbe rivelato tutt'altro, non la foresta dalle mille cime pinose, non la linea confusa di nubi e di nebbie dei monti a nord, non la locanda del crocevia, il volto del Guercio alla finestra del secondo piano, la stanza traballante del Cacciatore sul tetto di ardesia, la Capa con le mani sui fianchi, in piedi davanti all'ingresso principale, e il suo grambiule macchiato di sangue. Il disegno di Roland non poteva competere con la limpida verosimiglianza del sogno, ma pian piano aderiva alla consistenza dell'autentico, del tangibile, e ogni nuovo dettaglio recuperato durante il sonno poteva avere un'importanza critica. - Tuttapposto -, disse Roland controllando per l'ennesima volta in controluce che l'inchiostro degli ultimi ritocchi fosse asciugato, trattenendosi dal verificare con la punta dell'indice. Quella sera avrebbe riprovato a creare l'insieme di emozioni e pensieri che aprivano la dimensione giusta, l'unica in grado di consentire l'accesso al Crocevia, pensava Roland rientrando in sala da pranzo.

Zia Fran stava interrogando Alex sulla natura della malattia che aveva impedito al marito di partecipare al Compleanno in famiglia. Quando le conversazioni perdevano slancio Zia Fran si accendeva come se si fosse accorta all'ultimo momento della mancanza di Frederick, il marito di Alex, il terzo marito, come sottolineava Zia Fran spostando gli occhi altrove per nascondere un sottinteso fin troppo evidente che avrebbe potuto offendere la sua fragile e indecisa nipotina. Nipotina quarantenne, va detto, nipotina che aveva sviluppato nel tempo una capacità di sopportazione che aveva dell'innaturale, e questo dimostrava oltre ogni dubbio l'esistenza di una capacità d'amare fondata sul masochismo. Roland tornò a sedersi e venne aggredito dal dubbio di non aver chiuso bene il cassetto quando stava posizionando il tovagliolo sulle ginocchia, azione che avrebbe imposto una tregua all'atteggiamento litigioso di suo padre nei suoi confronti, un colpo di compostezza e decoro potevano tenere a bada la premura educativa del genitore ossessivo per una decina di minuti. Roland fece attenzione a tenere i gomiti aderenti al busto e lontani dalla superficie del tavolo, pensò al disegno che spuntava dal bordo del cassetto dimenticato mezzo aperto, raddrizzò per bene la schiena, immaginò il foglio dondolare nell'aria in caduta libera, cercò di ascoltare il dialogo fra Zia Fran e Alex, si diede dello stupido promettendo che avrebbe resistito, si sarebbe impedito di cedere a pulsioni paranoidi, e per riuscirci controllò che il padre fosse soddisfatto dei suoi modi, che fissasse i resti dell'arrosto nel piatto, contrariato dal non avere motivi di rimprovero.

- Ma dov'è esattamente? - Chiese Zia Fran, come se non le bastasse sapere che si trovava a Chicago, nel loro appartamento, sì, l'ultimo, quello affittato da sei mesi a un canone d'affitto che Zia Fran aveva poco prima giudicato irragionevole e degno di una denuncia penale per estorsione alla brava gente, e dicendo brava gente Zia Fran aveva indicato per prima se stessa, per poi esagerare un gesto magnanimo a voler includere tutti gli invitati nella categoria della brava gente. Roland trovava divertente il tono indagatorio che col quale Zia Fran cercava di mettere in soggezione qualunque interlocutore. Anche la domanda più innocua, nella bocca di Zia Fran diventava un invito nel più profondo degli inferni.

- Cosa intendi con 'esattamente'? - Chiese Alex, senza smettere di piluccare le carote a listarelle e le patate a cubetti del contorno. - Potrebbe essere sul divano, immagino. -, rise Alex, e Roland capì che fra le due c'era in gioco qualcosa di più importante di un battibecco. Fu qualcosa nel tono di voce di Alex, nel cambio rapido della luce negli occhi di Zia Fran. Il confronto fra le due signore andava al di là di un divergenza di opinioni, era più profondo di un cortese detestarsi, Zia Fran arrossì per lo sforzo di non ribattere piccata, come sapeva fare al di fuori delle occasioni mondane, quando restavi invischiato in una conversazione privata con lei che sferruzza all'uncinetto e con tono mieloso ti fa chiudere lo stomaco, ti fa venir voglia di urlare e spaccare le cose.

Alex si accorse di aver esagerato come ci si accorge di aver investito un animale con la macchina, come quando ti arriva un avviso di mancato pagamento e prima di arrabbiarti controlli di aver effettivamente saldato in tempo la fattura. Alex sposta lo sguardo sugli altri commensali che uno per uno scoprono di avere sete, di avere qualcosa da dire al vicino, di dover pulire gli occhiali. - Ci teneva tanto a venire, te l'ho detto -, cede Alex, in nome della pace familiare, - Ti manda i suoi auguri personali, ha detto questo bacio è solo per Zia Fran, mi raccomando -, Alex si sporge a baciare la guancia bollente di Zia Fran, - Mi ha chiesto di scattare parecchie foto, così che al mio ritorno abbia qualcosa da mostrargli che lo faccia sentire meglio. -

L'emergenza per il momento era rientrata, nessuno avrebbe litigato, almeno per un po'. Ronald guardò le lancette della pendola in mezzo alle due ampie finestre del soggiorno e trasse un sospiro, gesto che suo padre non si lasciò scappare. - Sei stanco? -, chiese subito, - Sei stufo? - Non ci si annoia durante le occasioni sociali, non ci si estranea, non si mostra insofferenza o noia. -No, papà, forse ho esagerato un po' col cibo, tutto qua. - Il padre annuì, le labbra tese in una smorfia che Ronald non sapeva associare a una parola, ma che il Cacciatore avrebbe definito sardonica. Chissà se quella notte sarebbe stato accolto al Crocevia, non aveva compreso l'algoritmo che garantiva l'accesso ai segreti del codice binario. Un software per computer, un gioco da consolle digitale, così gli piaceva rappresentare il Crocevia, una sorta di mondo virtuale tenuto in vita dalla corrente elettrica pompata nei circuiti elettronici di una server factory. La password però era un problema, Ronald sorrise, l'intera connessione era un problema, non solo la password, si ripromise di buttare lì una domanda al Guercio, era un argomento che lo avrebbe affascinato, oppure no, oppure avrebbe solo alzato le spalle stancamente e tintinnato le unghie sul vetro della caraffa.

- A cosa pensi, che stai ridendo sotto i baffi? - chiese Don, il padre di Ronald.

- Niente papà, pensavo a Zia Fran -, mentì Ronald.

- Cosa ti diverte di Zia Fran? -, col tono amichevole pronto a trasformarsi in tono di rimprovero.

- Il fatto che lei Frederick non lo sopporta, ecco, cioè, almeno sembrava così l'altra volta, ti ricordi? -

Don si pulì gli angoli della bocca, prima il destro e poi il sinistro, lisciò e ripose in grembo il tovagliolo, sollevò il bicchiere e lo portò alla bocca senza sporgersi in avanti. Tradotto in parole: discorso chiuso.

- Ti voglio dire la verità -, bisbigliò Alex nel modo in cui si bisbiglia quando si vuole che tutti si mettano in ascolto e sentano ogni sillaba in modo distinto – Mi sto accorgendo di essere contenta che non ci sia, che non sia venuto, che sia rimasto a casa. -

Zia Fran fu obbligata a ridere in compagnia, a ingoiare il rospo, a perseverare nella parte che si era scelta sul palcoscenico che Ronald sentiva di calpestare ancor prima di nascere, le assi impregnate di sentimenti negati, violentati, censurati, torturati, esaltati, la coreografia fatta non di quinte ma da bastioni difensivi, e la recitazione avviene dentro a una tempesta di finzioni. La Capa si piazzerebbe nel mezzo a passare la pomice sul filo di una mannaia, è l'unico modo che ha di affrontare quello che non capisce, ma spesso è anche l'unico che funziona.

Zia Fran godeva del suo ruolo di ospite e padrona di casa, di ultimo capostipite vivente di una famiglia di brava gente, la sana e orgogliosa borghesia media, il senso di beatitudine che deriva dall'inserimento in società, la disciplina che implica salutare i vicini, separare l'immondizia cartacea dall'immondizia vetrosa, la possibilità di affermare pubblicamente che si è brava gente beneducata, al riparo da qualsivoglia possibile o immaginabile critica negativa. Zia Fran si alzò in piedi, batté le mani, emise un gridolino e urlò: - Adesso è arrivato il momento del dessert! - Al che esplose un applauso e Don improvvisò l'esclamazione di giubilo del cowboy – Yahuu -, roteando il braccio come se stesse manovrando un lazo, lui che il West lo aveva visto solo in tv, e con l'altra mano allungò una pacca al figlio, incitando Ronald a esprimere un po' più di cortese e affabile entusiasmo.

martedì 1 marzo 2011

cosa mi rappresenti Cacciari

rgo nei sogni spesso mi trovo in un albergo e anche quando sogno di essere a casa non mi sento mai davvero a casa ma in un albergo che è mio e che gli altri trovano più corretto definire casa perché evidentemente per loro c'è una differenza tangibile nell'essere a casa e l'essere in un albergo è quello che penso mentre osservo la camera d'albergo del sogno che è nuova nel senso che non ci sono mai stato prima in quest'albergo da sogno che esiste solo nei miei sogni sono tutti alberghi che non esistono nella realtà ma questo è nuovo nel senso che mai l'ho sognato prima mai la mia mente l'ha costruito per farmici entrare nei sogni e la particolarità di questa camera è che è stata aggiunta in seguito è stata applicata è stata costruita apposta come si mette insieme la cuccia per un cane imprevisto una camera costruita in fretta sopra una trave di supporto infilzata nel tetto della struttura principale così che l'intero equilibrio sia vincolato a una singola trave neanche troppo robusta a vederla così a giudicarla a occhio e croce direi che è vecchia e marcescente ma nel sogno non mi interessa non è un problema che venga giù la stanza che crolli giù in strada con me dentro sono tutte ipotesi inverosimili nel sogno sono eventualità remote perché so benissimo che non mi succederà niente che sono in qualche modo protetto da forze potenti e misteriose non potrà accadermi niente di niente ecco perché sorrido e sono indifferente a tutto mi sento pronto a sopportare qualsiasi accidente e non riesco a dare importanza alla stanza, alla trave, alle tegole di ardesia rese scivolose dall'umidità che bisogna affrontare per scendere per entrare nel blocco principale dell'albergo, dove si potrà mangiare anche mia moglie e mio figlio sono con me e non si lamentano sono contenti che noi si vada a mangiare e chi se ne frega della camera ho già detto che non ci dormiremo ho già rassicurato mia moglie che dev'esserci stato un errore che quella stanza non possiamo accettarla è troppo pericoloso non tanto per la camera ma per il tetto per le tegole di ardesia il percorso che si deve affrontare per raggiungere la camera appollaiata su un angolo del palazzo non possono farci credere che sia normale che saremmo troppo esigenti a chiedere qualcosa di più adeguato alle nostre pretenziose aspettative di stranieri viziati che sono venuti qui a farci sentire poveri e incivili già mi preparavo un discorso che suonasse il meno offensivo possibile da usare per chiedere una stanza diversa avrei detto lo so che ci avete fatto il privilegio della miglior sistemazione disponibile anzi la vista è meravigliosa l'architettura è affascinante ma ecco il ginocchio avrei inventato di avere problemi al ginocchio per colpa del mio ginocchio ho dei problemi a scalare il tetto conico della torre nord e pertanto è con grande dispiacere che mi vedo costretto a rinunciare al privilegio che mi avete gentilmente concesso e in effetti c'è della gente che sale sul tetto a fare fotografie della camera traballante così la chiamano perché emette scricchiolii e solo grazie a tiranti di acciaio intrecciato può permettersi di dondolare pigramente e di resistere alle folate che salgono dal basso o che provengono dal lato destro quello che offre una vista meravigliosa del mare agitato e spumoso una composizione pittoresca che i turisti ci pagano il biglietto e si aggrappa alle tegole di ardesia pur di arrivare in cima a scattare una foto più artistica del normale una foto che esprima cultura e giustifichi la visita domenicale al famoso albergo dova va chi non vuole rispondere sono stato sul divano a guardare la tv anche se dove vorrebbero trovarsi è sul divano anche se in realtà non gli importa nulla della camera e dell'arte e della cultura ma almeno si mangia bene ne val la pena per il ristorante dell'albergo si sentono profumi deliziosi si vedono passare piatti appetitosi ma quando entriamo ci danno un tavolo vicino alle cucine nel posto dove c'è il telefono pubblico e l'attaccapanni e il breve corridoio che porta ai gabinetti è il tavolo peggiore ma non mi arrabbio nella vita reale avrei già dato fuori di matto ma nel sogno sono accomodante e remissivo infatti sorrido al cameriere che parla solo la sua lingua del posto una parlata dai toni aggressivi che mi ricorda vagamente il ceppo slavo ma più rude e consonantico e per andare sul sicuro ordino tutto il menù che consiste in tre soli piatti coi nomi dalla pronuncia assurdamente complicata si può scegliere solo fra tre cose e le ordino tutte per andare sul sicuro e da quel momento inizia un'attesa infinita un'attesa così lunga che mia moglie termina gli argomenti di conversazione e mio figlio si sta addormentando seduto sulla sedia e anch'io è da un po' che fisso in silenzio una imperfezione nel vetro del bicchiere e giochicchio con la punta del coltello facendo disegni sulla tovaglia che è di carta per quanto mi sforzi comincio a perdere la pazienza e mi trovo a fare un elenco delle cose che non vanno in modo che ogni voce aggiunta alla lista faccia da carburante alla rabbia che monta e monta per esempio i muri scrostati la macchie di umidità c'è perfino una ragnatela e si vede che è vecchia è una ragnatela vecchia e polverosa per non parlare delle tende sono orribili è così che funziona la mia testa a un certo punto si verifica un innesco e si accende la caldaia e indietro non si torna se la lancetta arriva alla zona rossa indietro non si torna per questo cerco di rallentare o interrompere il processo non voglio arrabbiarmi voglio essere superiore alle mille cause di irritazione che il mondo è sempre così generoso nell'offrire e in questo vengo aiutato da un donnone col grambiule che può essere la cuoca o la proprietaria comunque una capa di qualche genere a giudicare dall'atteggiamento imperioso tipico di chi è abituato a comandare e ha interiorizzato i principi di una corretta sopraffazione il donnone spalanca le porte della cucina a pochi passi da me si mette a urlare Shultz e grida sempre più forte Shultz Shuuuuultz riuscendo a farmi tornare il buonumore tanto che mi guardo intorno sorridente per verificare che altri clienti oltre a me trovino spassoso il coup de theatre ma riscontro solo facce serie di gente tanto elegante quanto scontrosa e nel silenzio provocato dalla rumorosa chiamata per Shultz si sente la conversazione telefonica di un vicino di tavolo che per sovrastare il volume della cuoca ha a sua volta alzato la voce e sta dilungandosi a proposito di certe malattie della pelle di certi effetti collaterali dovuti al sovradosaggio a quel punto mi alzo vado a lamentarmi col donnone mia moglie scuote la testa si è resa conto che la lancetta della mia caldaia emotiva è andata sul rosso cerco di mantenere un tono gentile chiedendo spiegazioni per la camera scomoda e il tavolo indecente e il pessimo servizio e lei mi dice ma scusi lei nelle sue condizioni cosa pretende al che mi zittisco mi chiedo di quali condizioni stia parlando in che condizioni sono mi sembra di essere in condizioni normali le dico a me sembra che le mie condizioni siano più che passabili e il donnone annuisce come si annuisce con chi sta negando l'evidenza e senza sorridere mi dice seria seria mi dice a bassa voce le cose stanno così il mondo funziona così se fossi in te me ne farei una ragione e detto questo se ne va torna in cucina prima che io riesca a mettere insieme una risposta vorrei risponderle me al sono già fatta grazie non ti preoccupare il tutto senza permettere alla lancetta di andare sul rosso senza esplodere e fare una figuraccia in mezzo al locale ma quale locale a quella topaia lurida ecco che comincio a usare termini offensivi la lancetta sta andando sul rosso per fortuna mi scappa l'occhio su mio figlio che non è arrabbiato per niente ha solo fame ha solo sonno ha solo voglia di stare bene e mi accorgo che è quello che voglio anch'io dico andiamo via e quando stiamo uscendo vedo Cacciari l'ex sindaco di Venezia il filosofo Cacciari e il suo sguardo mi comunica approvazione è come se mi stesse dicendo hai fatto bene hai fatto la scelta giusta sono soddisfatto di te e io mi chiedo Cacciari cosa fai qui Cacciari cosa c'entri tu Cacciari cosa mi rappresenti Cacciari perché sei v