martedì 28 febbraio 2012

l'uomo che voleva azzittire il mondo

Stanotte ho sognato che un gioco per computer della lego dava accesso al noumeno, al significato recondito, mi sono svegliato all'una di notte, tutto sudato, con addosso la frenesia di mettere per iscritto l'intera faccenda, all'una di notte ce l'avevo chiara nella mente, l'intera faccenda, avevo giocato diversi capitoli e nell'ultimo livello avevo conquistato la possibilità di imprimere coerenza al vissuto, al passato, dare una direzione a un vortice di pensiero liofilizzato per creare un ammasso gravitazionale suscettibile di formalizzazione semantica, e me ne stavo a sudare sotto la coperta, immobile, compresso nello sforzo mentale di non mancare la presa su quanto avevo appreso con la lunga fatica di sognare il gioco, capitolo dopo capitolo, manovrando pupazzetti della lego, incastrando pezzi di lego al fine di realizzare gli assemblaggi previsti, costruire artefatti per avanzare, superare la sfida, entrare nel capitolo successivo, e intanto smarrivo particolari fondamentali, tessere d'angolo, ero consapevole di una perdita irrimediabile, una parte di me si stava già consolando, avanzava giustificazioni, indecisa fra il rimprovero e la solidarietà, una parte di me diceva un giorno capirai, niente è perduto per sempre, una parte di me ha messo su della musica, ha tirato le tende, mi ha chiesto qualcosa che non c'entrava niente, facendomi perdere il contatto con il problema stesso del trattenere qualcosa del sogno, che in fondo non ha importanza, una parte di me ha suggerito di tornare a dormire, ha detto non c'è motivo di perdere la serenità per un sogno, è tutto nella tua testa, ma io non trovavo pace, annusavo intorno, mi sentivo in pericolo, vittima di una perdita irreparabile, mi aggrappavo a echi di ricordi, mi ordinavo di rievocare la sequenza dei capitoli, mirando a gradi di illuminazione crescente, mi imponevo di fissare dei punti di riferimento nel gioco privo di parole della lego, non c'era niente da leggere e i personaggi del gioco si esprimevano mediante espressioni facciali stilizzate e mugolii, singhiozzi, gesti, sospiri, l'unica voce era un sottofondo narrante, uno spiegare meticoloso, una voce tranquilla da documentario estraeva significati dal gioco e dava spessore ai contenuti del gioco, così che mentre ero concentrato a giocare una parte di me assorbiva con stupore i colpi della voce narrante, il personaggio lego combatteva contro il gioco e una parte di me contro la voce del sapere, entrambi a prendere botte perché il gioco e la voce narrante rotolavano in discesa, non c'era contraddittorio, si poteva solo accettare e proseguire, annuire e sentirsi umiliati e indifesi davanti al gioco e alla voce narrante, le regole del gioco non ammettevano eccezioni e la ragione della voce narrante non mostrava punti deboli, si poteva solo esser grati per l'esistenza di ulteriori livelli, per la certezza di avere un futuro, perché se il gioco avesse cessato di girare l'omino lego sarebbe precipitato, niente a tenere insieme testa e busto e gambe, se la voce narrante avesse cessato di elargire spiegazioni io sarei sprofondato nell'ignoranza primigenia, niente dentro di me in grado di riconoscermi e tenermi unito, e infatti è quello che stava succedendo con il sogno che mi sfuggiva di mente, un cosmo di verità sepolte che andava sprecato, una parte di me voleva scusarsi con la voce narrante per l'intelletto inadeguato a ricevere le informazioni, una parte di me era invece felice di non essere costretta a ricordare, perché c'era qualcosa di definitivo, di completo, in grado di spaventare anche il più spavaldo e curioso dei sognatori, che mi spingeva a rifiutare, disobbedire, a ringraziare per l'opportunità di scappare, nascondermi, dimenticare il sogno e il gioco, ho lottato fino al sollievo di una coscienza riconciliata chissà come, disponibile a un sonno comatoso e amnesiotico, infatti stamattina non ricordo più nemmeno il gioco, non so più quali fossero gli obiettivi del gioco, mi viene in mente solo che potrei scrivere a riguardo un racconto che ha per titolo l'uomo che voleva azzittire il mondo, in cui c'è questo uomo che vive tormentato dal rumore che fa il mondo, gli arrivano suoni normalmente inudibili, gli sembra di cogliere dei significati nel modo in cui si configurano i suoni ma questi significati restano illusori come ombre viste con la coda dell'occhio, quest'uomo è così torturato dal bisogno insoddisfatto di comprendere la propria situazione che decide di azzittire l'universo intero, comincia con l'ignorarlo, nella speranza che si stanchi di inviare segnali, dopo alcuni tentativi l'uomo riesce nel suo intento e a quel punto è silenzio, subentra il silenzio, irrompe il silenzio, si insinua il silenzio, e col silenzio arrivano altre cose, non ho ancora deciso se cose spaventose o sublimi, vendicative o involontarie, cose che venivano tenute a bada dal rumore.

lunedì 27 febbraio 2012

icone moderne 006

Stasera ci ha fatto questo immenso regalo, lui che ha mezzo milione di followers su twitter ai quali risponde personalmente, ogni giorno, passa trentasei ore al giorno nei social network perché ama i suoi fans, ricambiato da schiere di estimatori di ogni età, adorato dalla critica, lui che con il suo ultimo disco è stato il terzo libro più venduto nelle librerie per tre settimane, nel week end in cui ne ha parlato Ninnuzzo 'o tagliato nel programma in prima serata di don Ciccetto detto la faina, il libro di Gigino ha superato le poesie del cantante e leader carismatico dei Grugno Duro, Gigino er pupazzaro ha venduto più di ogni altro, alle sue esibizioni è sempre tutto esaurito, lui che da piccolo aveva i denti storti e le orecchie a sventola e si vergognava di non avere una ragazza, chi di noi non ha provato almeno una volta nella vita la stesse emozioni, gli stessi sentimenti di Gigino er pupazzaro, lui che si faceva le canne quando parlava alla radio, quando girava i primi cortometraggi con gli amici, quando si esibiva sul palco dei teatri di provincia con spettacoli entrati nella storia della comicità demenziale, Gigino er pupazzaro è qui con noi, amici carissimi che ci guardate da casa, lo so che vi state strappando i vestiti di dosso urlando ti amo e baciando il televisore, Gigino è venuto a presentarci la sua ultima fatica, stavolta letteraria, un libro in cui ci racconta di se stesso, la sua vita, i suoi ricordi, i suoi pensieri, della sua relazione con una dominatrix ora in pensione completamente rifatta a colpi di bisturi e botulino, che ancora si veste di pelle aderente nella sua camera all'ospizio e fa spettacoli sexy per le amiche novantenni, vero Gigino? Anche lei ha scritto un libro, vero? E il tuo amico gay, nel tuo libro parli anche del tuo amico gay e di come ha vinto la sua battaglia per il diritto di esternare la sua vera natura, tanto che ti cita nel suo libro, perché anche il tuo amico gay ha scritto un libro, vero Gigino? Siamo una grande famiglia, anche la conduttrice ha scritto dei libri, anche il giornalista che ti siede accanto ha scritto dei libri, anche gli attori che intervisterò dopo di te, Bella e Faccina, è partito l'applauso, sono molto amati dal pubblico, hanno scritto un libro entrambi, a quattro mani, e il regista del loro ultimo film anche, Fintoni, ce lo indivia tutto il mondo il regista Fintoni, anche lui ha appena finito di sudare sangue dal cervello per dare alla luce la sua ultima fatica letteraria, la storia del cane pulcioso di quando era bambino, il cane che è morto di vecchiaia per cause misteriose, siamo tutti curiosi di sapere i dettagli, non vedo l'ora che arrivi nelle librerie per correre a comprarlo, anche il mio idolo del pallone ha appena dato alle stampe la sua biografia, scritta da un intellettuale francese, ricavata da nastri registrati mentre faceva la sua vita da milionario al centro di una metropoli che è pronta a soddisfare ogni desiderio, il titolo infatti è 'Qui non ci sono desideri proibiti', ma siamo qui per parlare del tuo stasera, Gigino, anche se tutti noi, fortunati abitanti del magico mondo dello spettacolo, tutti abbiamo scritto dei libri ma nessuno bello come il tuo, Gigino, l'ho letto tutto d'un fiato, quando parli di tua zia che vomita al matrimonio ho riso tanto, e ho anche pianto quando racconti di come hai tenuto la mano per minuti, ore, alla ragazzina nella stanza d'ospedale, quella che ti ha scritto tutte quelle lettere prima di finire in coma, lettere con i cuoricini disegnati, prego la regia di mostrarne una, ce l'abbiamo? Eccola, con i brillantini, è troppo commovente, non riesco a guardarla senza che mi escano delle lacrime, si capisce leggendo il tuo libro, Gigino, che al mondo siamo cattivi, la gente è così, dobbiamo diventare migliori, volerci bene, basta con la violenza domestica e le guerre e gli antibiotici quando non servono, ho capito tante cose leggendoti, Gigino, l'importanza di non litigare per il posteggio, che ci sono cose più importanti, invece che pensare sempre alle bollette e all'invidia verso chi ha avuto successo, la gente ti ama ma anche ti invidia, vero Gigino, noi poi non ne parliamo, noi privilegiati che abbiamo avuto la fortuna, ma anche la bravura, certo, tu meriti tutto quello che hai, anche io, noi due meritiamo ma altri, diciamocelo, altri meno, sono lì per raccomandazione, per politica, e anche noi alla fine siamo invidiosi l'uno dell'altro, sempre, tranne quando ci coalizziamo contro Lalla, a proposito, tu come ti poni nei confronti del capolavoro di Lalla, in cima alle classifiche di vendita da mesi e mesi, cosa ne pensi Gigino del ricettario della Lalla, pensi che sia un successo editoriale meritato il suo? Ah, molto diplomatico, non ti vuoi esprimere, come sei educato Gigino, che uomo di mondo, ma dicci della laurea, cos'è, la terza o la quarta laurea honoris causa che ricevi? Ti hanno dato un'altra cittadinanza onoraria? È vero che hai dato dell'incompetente a Orunzo Chiappone l'altra sera, l'autore del libro rivelazione sul fenomeno politico del momento, te lo chiedo perché l'ho letto su tutte le prime pagine dei rotocalchi di costume e nelle sezione arte e cultura dei settimanali di riferimento per il nostro settore, che gli hai dato anche del masturbatorio compiaciuto, senza specificare se nei confronti di terzi o di se stesso, devo essere sincero è una cosa che tutti se lo stanno chiedendo in questo momento, Gigino, cosa intendevi dire di preciso, non si sa bene, sei stato un po' sul vago, e l'avresti detto, a quanto si dice in giro, in occasione del party esclusivo che si tiene per tradizione dalla contessa Bifolca, quella che il suo ultimo libro parla di fiori spontanei nei prati della sua giovinezza, dopo il party per la premiazione speciale della giuria, che ricordiamolo agli amici telespettatori che siamo in diretta e stiamo parlando con Gigino che ci ha fatto l'enorme gioia di venire a fare due chiacchiere con noi, è vero Gigino che una volta hai detto in un'intervista a un importante giornale straniero che non si è mai troppo vecchi per calcare la scena? È vero che ogni tanto ti fai ancora le canne nonostante tu abbia cinquant'anni suonati e un divorzio alle spalle perché ti hanno trovato in bagno all'autogrill, in situazione, diciamo così, inequivocabile con una persona dello stesso sesso? Come ti senti oggi che tingi i capelli, quelli che ti restano, che indossi perennemente occhiali scuri, che sei un uomo, come dire, di mezza età? Sbaglio o una volta hai detto in un'intervista esclusiva alla collega Astaronza, su un canale televisivo concorrente di cui non facciamo il nome, che per te la vecchiaia significa girare il secondo tempo del film della tua vita? È vero che hai ritirato la querela nei confronti di un collega che ha insultato la tua opera definendola un oltraggio all'intelligenza perché ti ha chiesto scusa definendoti l'imperatore della mediocrità, l'unto del popolo? A questa e altre domande ci risponderà il grande Gigino er pupazzaro dopo la pubblicità, intanto io voglio ringraziarlo ancora per la cortesia e la disponibilità, per aver accettato il nostro invito a partecipare al nostro programma, grazie Gigino, posso stringerti la mano? Grazie, amici una brevissima pausa e torneremo a chiacchierare amabilmente con Gigino! Grazie ancora, Gigino, ti seguo da quando ero bambino, per me sei un mito.



mercoledì 22 febbraio 2012

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (47 di N)

Quando c'hai un figlio ti preoccupi di danneggiarlo sia agendo che con l'inerzia. Per esempio i professori se vogliono possono rendere la vita un inferno agli studenti perché sono stati irritati dai genitori. Per cui i genitori tendono a parlare sottovoce dei problemi e mandano avanti il rappresentante di classe, se ci riescono, altrimenti stanno zitti e subiscono. Un po' come dal medico, non vai a rischiare che si arrabbia e ti sbaglia le medicine o gli scappa il bisturi. O il vigile che ti può multare e poi sarà la tua parola contro la sue. I giudici. Il consorte. Alla fine sei tu contro il mondo intero e la questione della vita sociale è chiara: o ti adegui o rischi le conseguenze. Ci sono moltissime forme di potere che viene esercitato su di te direttamente o indirettamente, sia perché vuoi qualcosa che ti può venir negata sia perché potresti venire punito.

Se prendi in considerazione il fatto che la responsabilità del potere, qualunque esso sia, consiste appunto nell'impedire a se stessi di approfittare della propria posizione, ti accorgi che sono ben pochi quelli che meritano il potere che hanno, e che non ci sono strumenti per impedirlo. Siamo tutti bambini agli occhi di chi detiene un potere, qualunque esso sia, che sia concreto come il potere di metterti in castigo o privarti di qualcosa, o astratto come quello di influenzare l'opinione pubblica o scrivere leggi. Il successo, dentro a questa logica del potere, consiste nel passaggio dal lato dei bambini a quello degli adulti. Guardatevi intorno: siete circondati da bambini che cercano di ottenere il diritto di esercitare piccoli poteri da adulti. Chi è più infantile: quello che volente o nolente resta bambino o quello che diventa potente che lo meriti o meno?

Se ci pensate è molto più facile sopportare la responsabilità del potere se non viene percepita come fardello necessario dell'autorità. C'è del sadismo da bambino che brucia le formiche con la lente di ingrandimento, che avvantaggia l'amico, che dice bugie per divertimento, insomma siamo stati tutti bambini, sappiamo che diventare adulti significa solo smettere di fare i bambini. Solo che alcuni non smettono e non hanno il coraggio di ammetterlo, continuano di nascosto gestendo piccoli poteri, che sia fare aspettare qualcuno in coda, creare fastidi, procurarsi vantaggi mediante comportamenti disonesti. Quando c'hai un figlio capisci che è tipico degli adulti comportarsi da bambini senza darlo a vedere, perché i bambini non possono farlo, quando provano a mentire gli si legge in faccia la paura di chissà quali conseguenze, hanno un timore sacro del falso, del malvagio.

Per cui non è nemmeno un comportarsi da bambini, ma un fare tutto ciò di cui da bambini si aveva paura, come un vendicarsi contro ciò che da piccoli ci obbligava a sentirci in colpa senza motivo, perché da adulti non si ha più paura di niente, non si trovano motivi razionali a supporto di una morale qualunque che non implichi superstizione, ci si sente forti, indipendenti, sicuri, fino al giorno in cui appare una macchia sulle lastre o si sopravvive a un incidente potenzialmente fatale. In quel momento si capisce che in fondo tutta questa faccenda del diventare adulti, del vincere a tutti costi, dell'istinto animale che marca il territorio, conquista il diritto alla riproduzione con riti di corteggiamento o scontri violenti, insomma che la sensazione dei bambini di essere intimoriti di fronte alla potenza del buono del giusto del bello non è una limitazione, un impedimento a esercitare il diritto alla ribellione o quello all'oppressione legalizzata, no, quella dei bambini è una forma di libertà che si perde durante l'infanzia, una forma di passione volatile per tutto ciò che è semplicità, gioia, spontaneità, purezza, innocenza. 



mercoledì 15 febbraio 2012

Le storie che non scriveremo (2 di W)

Il centro commerciale è a ferro di cavallo, due corridoi come zanne di elefante, è così che lo vedo, come la carcassa di un elefante. Mi sto dirigendo a piedi verso il cimitero degli elefanti, dove vanno a morire animali pieni di memoria. Cosa te ne fai di tutti quei ricordi adesso che non stai più in piedi, noi formichine voraci ti entriamo nel naso e ti mangiamo da dentro. Ci si arriva sfruttando una delle tante ciclabili che van di moda negli ultimi tempi. Asfaltate, illuminate, con transenne e panchine, utilizzate da anziani corridori preoccupati per il colesterolo e da proprietari di cani che non hanno voglia di raccogliere la merda quotidiana dei loro migliori amici. L'elefante non si può ignorare, occupa tutta la stanza, attira gente nel raggio di decine di chilometri, il cadavere dell'elefante puzza così forte che le macchine riempiono il parcheggio, l'impianto dell'aria diffonde l'aroma della decomposizione, il chiacchiericcio ricorda un'orgia di masticamento compiaciuto che la musica di sottofondo non riesce più a nascondere. Da dentro l'elefante è interiora qualsiasi, muscoli anonimi, ma da fuori. Oh, da fuori. Fuori dove? Mi alzo dalla panchina martoriata da incisioni a temperino e pittogrammi a inchiostro indelebile. Visto da lontano l'elefante è. Visto da fuori. Circondato da spazi pubblicitari abusivi istallati nottetempo ai bordi delle strade, volantini infilati sotto le spazzole dei tergi, pezzi di carta ricoperti di slogan che trovano rifugio negli angoli, dove non tira vento. Insegne luminose e consigli recitati nei monitor a circuito chiuso, confezioni sgargianti e offerte maliziose dagli altoparlanti. Siamo tallonati e condotti al pascolo da custodi armati di storditore elettrico per bestiame, siamo privi di libertà per il gusto di arrenderci al facile e al comodo, ci accontentiamo di scegliere il prodotto sui banchi del supermercato. È vostro diritto, ci dicono. È nostro diritto, ripetiamo in coro, sgomitando in fila davanti alle casse. Venite e mangiatene tutti, questo è l'elefante, morto per il nostro sollazzo. Senza l'elefante sarei spacciato da un pezzo, lo odio perché gli devo la sopravvivenza, come si permette di starsene lì cadavere a farsi profanare giorno dopo giorno da gente come me, che non si merita niente? Ti vendicherò, penso, anche se non lo vuoi. Mostrerò a tutti cos'è un elefante visto da fuori. Se solo riuscissi a capire perché una parte di me si ostina a dire che è sbagliato, a dirmi non lo fare, lascia in pace l'elefante, lascia perdere l'intera faccenda. Stai sbagliando, dico a me stesso, non combinerai mai niente di buono.

K sta osservando persone indaffarate a scoprire simboli nascosti sotto pellicole dorate, nei pressi del distributore di gratta e vinci. Mi vede e non si muove, non fa un cenno, nulla, aspetta che mi avvicini e si stacca dalla parete come se gli costasse fatica. Cosa stavi guardando, gli chiedo. Niente, la faccia di quelli che grattano. Che faccia hanno? K dice In questo momento non lo so, dice Dammi la lista. Oggi non ho liste, K, oggi mi farò scoppiare in mezzo alla folla. K mi guarda, dice Stai scherzando, e ride. Ci sediamo dentro alla piazza ricavata nell'occhio dell'elefante a guardare i bambini lasciati nel recinto attrezzato e custodito, i bambini seduti dentro al seggiolino incorporato nel carrello, i bambini che dondolano su altalene meccanizzate che funzionano a moneta. K mi dice che potremmo partire dal punto di vista della ragazza, a colpi di flashback, e inserirci spezzoni del colpevole rovinato dalla demenza senile. Gli dico Non ti ho raccontato delle macchine? Quali macchine? Gli indico l'utilitaria esposta in mezzo al corridoio del centro commerciale, con il prezzo disegnato sul parabrezza, il marchio di fabbrica e il nome del rivenditore attaccato su portiere cofano e baule. Hai notato il numero di telefono, gli dico, con quelle cifre puoi formare sei numeri primi. K dice Chissenefrega, ascoltami, la ragazza ora è impiegata di una grossa ditta, una moglie e madre fissata con la pettinatura e la cellulite, capisci? Non è più la ragazza di allora, ha raggiunto una stabilità economica, caratteriale, emotiva, ha sposato un uomo approvato da mamma e papà. Quando sculetta al mare o le capita di lanciare occhiate maliziose non è più come una volta, non c'è più quel brivido di esaltazione, la luce negli occhi e nel sorriso si è offuscata, si sente triste, ha la sensazione di essere la buffa imitazione di una diva del cinema, mi segui? Gli dico No, ti ho già detto di non insistere, non voglio più giocare, non voglio sapere niente di esorcismi e storie improbabili. Non improbabili, mi corregge, tenute volutamente nell'irrealtà, è una scelta che facciamo, ci asteniamo dallo scriverle, è diverso. Guarda quella macchina, K, dimmi cosa vedi. È una macchina, una volta ci sono salito, ne ho guidata una. K mi racconta di come si guida una macchina, di come si debba decidere molto in fretta sulla dimensione di un tronco. Ti hanno detto che a una certa velocità un frontale non dà scampo, ma sarà vero? Ti chiedi se i dispositivi di sicurezza ti salverebbero in caso di. Quando deve essere grosso un tronco per essere sicuri. Un palo, un muro, un ponte. È difficile scommettere sulla morte di chi guida, mi dice K, ci si sente al sicuro lì dentro, indica la macchina, si viene ostacolati e distolti dall'intento suicida, oppure falsamente rassicurati sull'uscirne indenni. Dipende dai punti di vista, e mi racconta di uno che conosce, uno che lavora sulle ambulanze e ne ha viste di. Ti cade la sigaretta, ti metti a smanopolare e sbottonare sul cruscotto, ti distrai a guardare fuori. È un attimo, dice K, potremmo inserirlo nella storia che non scriveremo, i sopravvissuti esercitano un fascino particolare sul lettore. Gli dico Hai usato davvero le parole: esercitano un fascino particolare? Sì, perché, è vietato?

Ci sono dei modi per proteggersi. Musica in cuffia, occhiali scuri, felpe col cappuccio, mani in tasca sguardo a terra. Isolarsi per non ritrovarsi a dire esercitano un fascino particolare. Sono parole che ci mettono in bocca i custodi a forza di scosse nei fianchi, sedute analitiche, filmati educativi ripetuti all'ossessione. Sto fissando un cartello di quelli con segnate le vie di fuga, i punti di incontro, tu sei qui, estintori uscite di emergenza. Sto immaginando fumo, fiamme, sangue, grida, e l'esistenza ignorata del cartello come dell'elefante stesso, il cartello riproduce lo scheletro dell'elefante o il suo sistema digestivo? Quale rapporto funzionale lega l'elefante alle sue innumerevoli rappresentazioni possibili? Non riesco più a pensare all'elefante senza che mi manchi il respiro, non riesco a sollevarne nemmeno l'idea, a maneggiarlo senza restare schiacciato. Per contrasto mi viene in mente la cosa più leggera del mondo. Mio padre. I suoi trenta chili di agonia, il fantoccio robotico che emetteva schiuma di sangue dalla bocca, riempiva interi bicchieri di liquido denso e puzzolente amaranto. Mio padre moriva un poco ogni giorno, trovando chissà dove la forza di sorridermi, svuotavo nel lavandino quei bicchieri con la voglia di prendermi a pugni quando il mio corpo reagiva con i conati a qualcosa che avrei dovuto amare, riconoscente per l'occasione di partecipare alle celebrazioni di una morte speciale, la prima e unica morte di mio padre. Mio padre che mi chiama mi allunga il bicchiere senza dire niente, io che lo prendo senza dire niente e aspetto di essere in bagno prima di sentirmi libero di mostrare disgusto e fare dei conati silenziosi, che non si sentano, come lacrime dentro a un cuscino, in piena notte. K mi sta raccontando del vecchio padre della ragazza ormai donna, del suo farneticare all'ospizio di lusso con vista sul lago, che urla contro il dottore accusandolo di avergli tirato il pacco in autostrada. K imita la voce di un vecchio e gracchia 'Un mattone' così forte che alcuni bambini interrompono i giochi e si mettono a ridere, e hanno qualcosa di sacrilego, qui, nella pancia dell'elefante ancora calda di antiche memorie. K dice che non sa più cosa è vero e cosa no, che a quel punto non ha più senso parlare di colpe e di perdono, ha buttato l'olio usato nello scarico come han fatto in tanti, ha ucciso a fin di bene come han fatto in tanti, perché dovremmo punire lui solo, farne un esempio per cosa? Gli dico Forse è quella la sua punizione. K dice L'inferno della malattia. No, dico, intendo l'aver dimenticato. K rimane zitto. Il centro commerciale va riempiendosi di traffico, guardo chi esce e mi chiedo se ha mai fatto qualcosa di bene per meritarsi di scampare alla strage, guardo chi entra e mi chiedo se ha mai fatto davvero qualcosa di male per meritarsi di finire ammazzato per caso.


giovedì 9 febbraio 2012

y exceed the limit of

ntare una macchina quando colgo dei libri solo i titoli delle immagini solo le linee strettamente necessarie a identificare il contenuto come elemento di un insieme ci sono molti insiemi ci sono insiemi di insiemi e sottoinsiemi vuoti c'è l'insieme primi piani l'insieme panorami l'insieme emozione sovra espressa corpo sovra esposto c'è l'insieme degli scorci poetici degli scatti rubati le pose naturali i colori dominanti viene data libera scelta è dunque possibile catalogare a vanvera determinare una graduatoria personale basata su preferenze soggettive perché occorre avere le idee chiare il problema si sposta a monte e siamo chiamati a esprimere giudizi di valore uno dietro l'altro a sparare valutazioni critiche a raffica per star dietro alla velocità con cui scorrono le alternative da soppesare sulla catena di montaggio del senso comune e non ci sono più gli esperti ci sono gli spacciatori di pubblica opinione c'è il campione di incassi di visite di apprezzamenti sotto forma di click e di link dentro alla grande rete marchettara del passaparola e il tempo passa e la soluzione rimane sempre all'orizzonte ora c'è chi comincia a dubitare e a sospettare che la soluzione sia uno stratagemma per giustificare il processo nell'attesa che venga succhiata anche l'ultima goccia o emerga un sistema per monetizzare la soddisfazione di bisogni futili e necessità virtuali mediante la parcellizzazione la collaborazione spontanea priva di gerarchia preposta a verificare le credenziali per nascondere i dati sensibili e i contenuti inadatti a un pubblico non vaccinato dalla cronaca nera di bambini massacrati dai film horror di bambini massacrati dalla propaganda in mezzo ai bambini massacrati dalla filosofia dei social network mi raccomando restate sintonizzati aggiornate la vostra schermata casomai vada persa una battuta spiritosa una manciata di sarcasmo odioso un pizzico di oltraggiosa insolenza all'insegna di una satira che non perdona che morde il calcagno del potere in tutte le sue forme e se vi è piaciuto il modo in cui ho preso a sberle il responsabile di turno del casino in cui ci troviamo l'effigie di tuo padre tutte le volte che ti ha rimproverato o che non ti ha reputato all'altezza allora compra il mio libro vieni a vedere il mio film ascolta il mio disco vieni al mio spettacolo teatrale al mio concerto guardami in tv aderisci al mio appello votami mandami rose rosse e sonetti in rima baciata sono qui per gestire la rabbia per indirizzare in modo costruttivo l'istinto compresso del cliente pagante le manie del consumatore i complessi del contribuente di coloro che non se lo possono permettere chi si sente povero sfruttato tartassato venite a trovarci su internet accettiamo le carte di credito dovete correre da noi prima di cadere nell'autolesionismo finire vittime della disperazione entrate in contatto apriamo un dialogo interattivo per una seduta psicanalitica di massa noi siamo i buoni vedrete che ci divertiremo sconfiggeremo l'esercito del male staremo bene arriveremo insieme alla soluzione che si cela dietro l'orizzonte perché il mondo è ai nostri piedi il futuro è nelle nos 



martedì 7 febbraio 2012

Tree of life

Un film etichettato, a mio avviso ingiustamente, da intellettuali. Sì, ci sono riferimenti espliciti, vuoi religiosi o filosofici, vuoi junghiani o freudiani, ma non l'ho trovato volutamente criptico, con quella patina di antipatica presunzione che identifica le opere degli intellettuali organici, gli spacciatori di cultura con il loro giro di tossici a cui rifilare stricnina zuccherata. Si tratta di un film inusuale, questo è sicuro, ma nel senso che non ha l'ambizione di spiegare una vicenda ma solo di mostrarla. Non abbiamo l'eroe classico che affronta le difficoltà e vince, non abbiamo buoni e cattivi, non abbiamo un messaggio morale che spinga a fischiare o applaudire. Non è un film studiato per soddisfare i soliti bisogni del pubblico pagante, che va al cinema come andrebbe a scuola o in chiesa: per sentirsi parte di una comunità che ha le sue stesse reazioni di fronte alla stessa scena, che sia commovente o susciti ribrezzo, che sia di sesso o violenza. E per uscirne con la sensazione di aver imparato qualcosa che però già sapeva, aveva solo bisogno di un medium che tirasse fuori e la portasse nel raggio della consapevolezza.

Da un film intellettuale ci si aspetta questa funzione portata all'eccesso, al punto in cui ci si deve sentire i fortunati vincitori della lotteria di una sensibilità superiore, un'intelligenza più sottile della media, una capacità di analisi critica speciale. Non c'è bisogno di dire che per me è un inganno, un far leva sul narcisismo e altre qualità umane lontane dalla virtù, ma così è: l'opera, che sia un libro, una canzone, un film, che va incontro al pubblico molto spesso è una ruffianata, più o meno elegante. Questo va bene, per carità, il mercato si conquista offrendo ciò che la gente vuole e quello che vuole di solito ha a che vedere con bassi istinti da sublimare per un paio d'ore immedesimandosi con i personaggi di una storia se non edificante, almeno divertente. Non abuserò della parola intrattenimento. Il film intellettuale invece, in questa logica, deve disturbare, porre domande scomode, denunciare, farci sentire inadeguati, indurci a fare qualcosa per cambiare la situazione. Tree of life non è intellettuale, al massimo è un tentativo di esemplificazione.

La trama parla di un primogenito che affronta un processo individuale di maturazione fatto di tappe obbligate: dalla gelosia per il fratellino al complesso di edipo, dal risentimento verso se stesso alla ricerca di una difficile riconciliazione, dal senso di colpa alla speranza di un'eterna consolazione. Sono temi importanti, ma non bastano a rendere inaccessibile l'opera a chi non possieda un bagaglio culturale per decifrarlo. Si tratta di una forma di divulgazione pura e onesta, anche nei limiti delle libere e autonome scelte compiute dall'autore, sia di inquadrature, di suoni, di quanto riguarda la forma concreta dell'opera, sia in termini di eventi e sfumature caratteriali che non possono venire generalizzate: dalla madre passiva e spirituale al padre che soffre il peso della responsabilità educativa e vive con ansia il suo ruolo di sostegno materiale. I personaggi vengono ripresi di spalle o in primi piani densi di espressività, c'è molto fumo, nebbia, e molto rumore di fondo, le parti destinate a colloqui interiori vengono proposti mediante sussurri e bisbiglii.

C'è una parentesi documentaristica per allentare la morsa empatica di una famiglia disfunzionale come ce ne sono tante, comprese quelle che non si ritengono tali perché hanno paura di scoprire che tutti gli altri non stanno fingendo, stanno bene davvero, sono felici davvero, come succede quando si fanno brutti sogni. Il big bang, l'estinzione dei dinosauri, per bilanciare una possibile lettura esclusivamente religiosa dell'opera l'autore dice signori, lo so cosa dice la scienza ma non ne frega più di tanto, una difesa preventiva che è l'unica pecca intellettuale che posso imputare al film. Per il resto è l'incidente sulla via di Damasco del protagonista che, adulto, sano, architetto, elegante, telefonino e palazzi di cristallo, ha un mancamento e cerca di riempirlo cercando risposte con l'aiuto dei ricordi. Una specie di seduta analitica, se vogliamo banalizzare. La causa scatenante è un lutto, muore il fratello in un incidente. La morte irrompe nel tranquillo scorrere di una soddisfatta quotidianità e ci spinge a correre incontro alla vita per contrasto.

Non potremmo vivere se pensassimo a quanto è effimera e fragile e delicata la vita nostra e dell'intero pianeta. C'è una straordinaria delicatezza nel modo in cui l'autore si sofferma poeticamente sull'aspetto sentimentale innescato dalla provvisorietà della vita. La parte che nel verso biblico citato in apertura rappresenta la grazia, contrapposta alla natura. Si tratta di una citazione da Giobbe che viene poi ripresa in un'omelia inserita durante il funerale del secondo o del terzo (sinceramente non ho capito quale dei figli è morto, c'è stato un momento in cui ho ipotizzato che fosse lo stesso protagonista a morire, in un universo parallelo, ma ho idea che sarebbe una complicazione esegerata, più adatta alla fantascienza). È un film che si presta a molti approfondimenti, e l'autore dimostra grande onestà quando ambienta la storia negli anni '50, o forse ancora prima, per dare realismo a personaggi che portati di peso nel presente verrebbero subito sfruttati per alimentare polemiche ideologiche strumentali di basso profilo, rovinando del tutto le aspirazioni artistiche dell'opera, quando si nota l'attenzione impiegata appunto per evitare che il film venga impugnato come arma impropria da una fazione politica qualsiasi.

Il film è anche ricco di simbolismi, la scala, il cancello, la porta; di valori, la fiducia, il rispetto, il coraggio, la temperanza; di domande che non possono e non devono trovare risposta; di momenti estetico-estatici in crescendo che arriva a un finale di rivelata comprensione liberatoria e scioglimento emotivo totalmente rielaborato. È un film che avrà dato molto fastidio agli atei per via di un esplicito intervento salvifico ottenuto come ricompensa da un protagonista che non si accontenta di un hic sunt leones o di un per ora non siamo in grado di rispondere, ma va alla ricerca di, affronta e accetta le proprie debolezze, dubita certezze pregresse e tenta di rileggere sotto una nuova luce ciò che dava per scontato. Nel film il protagonista vince, arriva da qualche parte, per quanto si possa dubitare dell'autenticità della risposta e della sua testimonianza del protagonista, nel film una risposta il protagonista la riceve, nella realtà non è detto che succeda, che ci sia una ricetta e basti seguirla per ottenere gli stessi risultati, e infatti stiamo parlando di un'opera d'arte, non di un esperimento scientifico, e si torna alla citazione iniziale di Giobbe. Perché l'albero della vita, dalla vita dell'universo alla vita umana, dall'umanità nel suo complesso alla nostra esistenza individuale, vogliamo considerarla oppure no, la vita, nei termini di un'opera d'arte?


Risonanza

Qui è dove si controllano i pendoli, c'è chi li tiene in movimento, chi li ripara, io mi occupo di rompere le sincronie, per evitare chi entrino in sintonia e si crei riverbero. È della massima importanza che non si sviluppi la risonanza, per via di logiche conseguenze, esiti imprevedibili, è un lavoro delicato, richiede precisione, nervi saldi, valutazioni tempestive. Vengo mandato a intuire i futuri andamenti, estrapolare le tendenze, prevedere le convergenze, i pendoli tendono a emulare i rispettivi periodi di oscillazione. Abbiamo pendoli di varie lunghezze, dimensione, materiale, e sono tutti appesi in alto, nel buio, in zone protette dove non è mi possibile accedere. Il mio compito è individuare i cicli e porre rimedio, applicare una modifica, studiare correzioni poco invasive, esercitare la giusta dose di forza nella giusta direzione, si tratta di interventi delicati. Occorre fare molta attenzione ai pesi vaganti, agli archi di cerchio con fuoco prossimo all'infinito, il rischio di impatto involontario è proporzionale alla velocità massima raggiunta dai gravi. I pendoli sono garantiti, la manutenzione ordinaria è sufficiente a ottenere una durata superiore a qualunque esigenza umana. Abbiamo pendoli a orbita fissa o variabile, di estensione fissa o regolabile, potenziati, silenziati, a rifrazione singola o multipla. Abbiamo pendoli opachi e cromati, a finitura grezza o smussata, evanescenti o massicci, indistruttibili o di fragilità estrema. Vengono progettati e costruiti altrove, vengono collaudati e sottoposti a test di resistenza in condizioni avverse, vengono smontati e ricostruiti per eliminare resistenze e difformità, qui è dove vengono messi in funzione. Si consiglia ai visitatori di non fissare troppo a lungo un singolo pendolo, i dipendenti sono stati addestrati per resistere alla tentazione di adeguarsi alla comoda e accogliente monotonia solo in apparenza ripetitiva e prevedibile. Basta una distrazione per scivolare nella sincronia, passare dalla testimonianza alla complicità. Ci si sente cullati, al sicuro, si entra in grande confidenza col presunto centro di un equilibrio dinamico universale, e non ci si accorge delle vibrazioni nel terreno, l'incremento esponenziale nell'intensità di latenza, risultato esprimibile in termini di energia potenziale e capacità di sovraccarico. Non sappiamo quanti pendoli ci siano al momento in funzione, non conosciamo fino a dove e quando si spingono i pendoli nel loro eterno dondolare, siamo lavoratori molto specializzati e io mi occupo esclusivamente di rompere le sincronie. Non sono interessato alle specifiche di produzione, ai margini di tolleranza, alle procedure relative all'implementazione, lascio che gli altri reparti si occupino dei punti di vista che non mi competono, sono già abbastanza occupato a rincorrere le incongruenze, evidenziare scarti infinitesimali, un'eterna lotta contro l'inerzia e l'imperfezione, la tendenza dei pendoli alla stasi, alla rinuncia per stanchezza, alla perdita di slancio, traiettorie che diventano fredde, passaggi di cui si perde il ricordo, pendoli che accelerano o rallentano quando si convincono che non se ne accorga nessuno. Non so perché esistono i pendoli e non so perché sia possibile la sincronia dei pendoli, quello che so è che io non devo cercare un senso alla mia, di esistenza, ipotizzando realtà alternative, universi teorici privi di pendoli, mondi liberi dalla presunta tirannia dei pendoli di cui non posso avere esperienza. Controllo i pendoli, ho uno scopo, una realtà oggettiva parzialmente comprensibile mediante la quale pormi in libera relazione con il mistero della mia condizione di essere vivente, innumerevoli domande che rimangono prive di risposta: è molto più di niente, quando fissi a lungo un pendolo ti sembra anche troppo, per questo ci insegnano a restare concentrati, non cadere vittime delle distrazioni, delle iterazioni, di semplicistiche interpretazioni.



venerdì 3 febbraio 2012

Fiocca la neve

La neve è bella perché è bianca. Se la neve fosse nera non piacerebbe a nessuno. Tranne che a me, a me piacerebbe lo stesso, anche nera, sarebbe come guardare il negativo della foto del mondo. Se uno diventa cieco non lo sa più di che colore è veramente la neve, si deve fidare, magari gli dicono che è bianca per non farlo restare male anche se ormai sono anni che fiocca neve nera. Questo signore cieco la tocca e gli sembra cenere ma non vuole fare il sospettoso, dice che bella neve soffice, chissà com'è bianca questa bella neve, chissà, e cerca di sentire le risate di chi si diverte a prenderlo in giro, e spera di non sentire i singhiozzi di chi si dispiace per lui, come quando succede una cosa brutta e non me la dicono perché sono troppo piccolo. La neve nera sarebbe una cosa da grandi che non si può tenere nascosta ai bambini. È per questo che a me piacerebbe anche nera, ci sarebbe il vantaggio che non diventa sporca come quella spinta via dalla strada, l'importante è che non sia un nero che macchia, altrimenti non mi ci lascerebbero giocare. Se venisse giù la neve nera avremmo tutti così fastidio a metterci dentro i piedi che verrebbe spalata il meno possibile, avremmo minuscoli sentieri da percorrere a piedi, di corsa, gridando di paura, ma per finta, perché non è che per davvero ci sono cose brutte nelle neve solo perché è nera. O forse sì, ripensandoci la preferisco bianca, sono contento che è bianca e che non sono cieco.

Quando fiocca tanta la neve non riesco a guardare chi cammina perché mi sembra che stia per scivolare da un momento all'altro. Sono tutti in bilico, in equilibrio sul filo, e ogni tanto, se lo guardi abbastanza, quella persona gli scivola un piede e ti scappa da ridere, pensi che sei stato tu, col pensiero. Stamattina quando venivo a scuola ne ho fatte scivolare tre, una ragazza, una vecchina e un gigante con una barba che era finta perché una barba così non l'ho mai vista. Per non cadere si deve appoggiare il piede come un ninja, non so spiegarlo bene con le parole ma si deve fare un movimento così, che ti tieni un po' indietro e poi schiacci lentamente prima con il tacco e poi con la punta della scarpa. L'ho fatto vedere a papà per insegnargli come si fa a non venire spinti col pensiero quando nevica ma papà non è portato per fare il ninja, faceva le mosse tutte sbagliate. Se non era per me che ho passato tutto il tempo a proteggerlo con il mio scudo mentale stamattina sarebbe scivolato di continuo. Gli ho detto papà ringraziami che non ti sei rotto tutte e due le gambe, e anche un braccio, perché se non c'ero io facevi la fine della vecchina. Lui ha detto quale vecchina, non si accorge mai di niente, è fatto così. Gli ho spiegato la vecchina con l'ombrello ragno che ha barcollato, la ragazza che si è aggrappata a un palo. E lui al posto di ringraziarmi ha cambiato discorso, ha chiesto cos'è un ombrello ragno. Del gigante invece non gli ho detto niente, fa troppa impressione.

La cosa che preferisco della neve è guardare fuori, sono convinto che tutto si metta a gridare per farsi sentire quando c'è la neve e cosa c'è di più divertente di sentire gente che grida per farsi sentire senza che ce ne sia bisogno, senza che si rende conto di gridare. Si mette a gridare buongiorno anche se ti sta a un passo di distanza, come fa la nonna al telefono quando la chiamano da un'altra città. E quando esce il sole non riesci a tenere gli occhi aperti, ti viene da pensare che la neve si gonfi di luce, sia fatta di tante bollicine con dentro piccole stelle affilate, e devi correre, è per quello che si corre nella neve, per via della luce, se spegni la luce non corre più nessuno, anzi, si cammina adagio, si ascolta il rumore che fa quando la calpesti, ti viene voglia di scavarci un buco dentro e rintanarti fino a primavera. Se c'è il sole guardi la neve come a salutare un amico che sta andando via, ma senza luce la neve serve solo a farti venire nostalgia dell'estate passata. La neve è bella se ti fa venire male alle dita per il freddo e sai che puoi andare a scaldarle sul calorifero quando sei stanco di soffrire. La neve è brutta se continuano a infilarmela nei vestiti anche dopo che ho detto basta smettetela per tante volte e mi arrabbio perché so di essere sul punto di frignare. La neve però mi sono accorto che alla fine è come tante altre cose che mi piacciono, nel senso che è più bella quando non c'è, la neve vera, quando arriva, c'è sempre qualcosa che non è così bella quanto mi aspettavo.