mercoledì 15 febbraio 2012

Le storie che non scriveremo (2 di W)

Il centro commerciale è a ferro di cavallo, due corridoi come zanne di elefante, è così che lo vedo, come la carcassa di un elefante. Mi sto dirigendo a piedi verso il cimitero degli elefanti, dove vanno a morire animali pieni di memoria. Cosa te ne fai di tutti quei ricordi adesso che non stai più in piedi, noi formichine voraci ti entriamo nel naso e ti mangiamo da dentro. Ci si arriva sfruttando una delle tante ciclabili che van di moda negli ultimi tempi. Asfaltate, illuminate, con transenne e panchine, utilizzate da anziani corridori preoccupati per il colesterolo e da proprietari di cani che non hanno voglia di raccogliere la merda quotidiana dei loro migliori amici. L'elefante non si può ignorare, occupa tutta la stanza, attira gente nel raggio di decine di chilometri, il cadavere dell'elefante puzza così forte che le macchine riempiono il parcheggio, l'impianto dell'aria diffonde l'aroma della decomposizione, il chiacchiericcio ricorda un'orgia di masticamento compiaciuto che la musica di sottofondo non riesce più a nascondere. Da dentro l'elefante è interiora qualsiasi, muscoli anonimi, ma da fuori. Oh, da fuori. Fuori dove? Mi alzo dalla panchina martoriata da incisioni a temperino e pittogrammi a inchiostro indelebile. Visto da lontano l'elefante è. Visto da fuori. Circondato da spazi pubblicitari abusivi istallati nottetempo ai bordi delle strade, volantini infilati sotto le spazzole dei tergi, pezzi di carta ricoperti di slogan che trovano rifugio negli angoli, dove non tira vento. Insegne luminose e consigli recitati nei monitor a circuito chiuso, confezioni sgargianti e offerte maliziose dagli altoparlanti. Siamo tallonati e condotti al pascolo da custodi armati di storditore elettrico per bestiame, siamo privi di libertà per il gusto di arrenderci al facile e al comodo, ci accontentiamo di scegliere il prodotto sui banchi del supermercato. È vostro diritto, ci dicono. È nostro diritto, ripetiamo in coro, sgomitando in fila davanti alle casse. Venite e mangiatene tutti, questo è l'elefante, morto per il nostro sollazzo. Senza l'elefante sarei spacciato da un pezzo, lo odio perché gli devo la sopravvivenza, come si permette di starsene lì cadavere a farsi profanare giorno dopo giorno da gente come me, che non si merita niente? Ti vendicherò, penso, anche se non lo vuoi. Mostrerò a tutti cos'è un elefante visto da fuori. Se solo riuscissi a capire perché una parte di me si ostina a dire che è sbagliato, a dirmi non lo fare, lascia in pace l'elefante, lascia perdere l'intera faccenda. Stai sbagliando, dico a me stesso, non combinerai mai niente di buono.

K sta osservando persone indaffarate a scoprire simboli nascosti sotto pellicole dorate, nei pressi del distributore di gratta e vinci. Mi vede e non si muove, non fa un cenno, nulla, aspetta che mi avvicini e si stacca dalla parete come se gli costasse fatica. Cosa stavi guardando, gli chiedo. Niente, la faccia di quelli che grattano. Che faccia hanno? K dice In questo momento non lo so, dice Dammi la lista. Oggi non ho liste, K, oggi mi farò scoppiare in mezzo alla folla. K mi guarda, dice Stai scherzando, e ride. Ci sediamo dentro alla piazza ricavata nell'occhio dell'elefante a guardare i bambini lasciati nel recinto attrezzato e custodito, i bambini seduti dentro al seggiolino incorporato nel carrello, i bambini che dondolano su altalene meccanizzate che funzionano a moneta. K mi dice che potremmo partire dal punto di vista della ragazza, a colpi di flashback, e inserirci spezzoni del colpevole rovinato dalla demenza senile. Gli dico Non ti ho raccontato delle macchine? Quali macchine? Gli indico l'utilitaria esposta in mezzo al corridoio del centro commerciale, con il prezzo disegnato sul parabrezza, il marchio di fabbrica e il nome del rivenditore attaccato su portiere cofano e baule. Hai notato il numero di telefono, gli dico, con quelle cifre puoi formare sei numeri primi. K dice Chissenefrega, ascoltami, la ragazza ora è impiegata di una grossa ditta, una moglie e madre fissata con la pettinatura e la cellulite, capisci? Non è più la ragazza di allora, ha raggiunto una stabilità economica, caratteriale, emotiva, ha sposato un uomo approvato da mamma e papà. Quando sculetta al mare o le capita di lanciare occhiate maliziose non è più come una volta, non c'è più quel brivido di esaltazione, la luce negli occhi e nel sorriso si è offuscata, si sente triste, ha la sensazione di essere la buffa imitazione di una diva del cinema, mi segui? Gli dico No, ti ho già detto di non insistere, non voglio più giocare, non voglio sapere niente di esorcismi e storie improbabili. Non improbabili, mi corregge, tenute volutamente nell'irrealtà, è una scelta che facciamo, ci asteniamo dallo scriverle, è diverso. Guarda quella macchina, K, dimmi cosa vedi. È una macchina, una volta ci sono salito, ne ho guidata una. K mi racconta di come si guida una macchina, di come si debba decidere molto in fretta sulla dimensione di un tronco. Ti hanno detto che a una certa velocità un frontale non dà scampo, ma sarà vero? Ti chiedi se i dispositivi di sicurezza ti salverebbero in caso di. Quando deve essere grosso un tronco per essere sicuri. Un palo, un muro, un ponte. È difficile scommettere sulla morte di chi guida, mi dice K, ci si sente al sicuro lì dentro, indica la macchina, si viene ostacolati e distolti dall'intento suicida, oppure falsamente rassicurati sull'uscirne indenni. Dipende dai punti di vista, e mi racconta di uno che conosce, uno che lavora sulle ambulanze e ne ha viste di. Ti cade la sigaretta, ti metti a smanopolare e sbottonare sul cruscotto, ti distrai a guardare fuori. È un attimo, dice K, potremmo inserirlo nella storia che non scriveremo, i sopravvissuti esercitano un fascino particolare sul lettore. Gli dico Hai usato davvero le parole: esercitano un fascino particolare? Sì, perché, è vietato?

Ci sono dei modi per proteggersi. Musica in cuffia, occhiali scuri, felpe col cappuccio, mani in tasca sguardo a terra. Isolarsi per non ritrovarsi a dire esercitano un fascino particolare. Sono parole che ci mettono in bocca i custodi a forza di scosse nei fianchi, sedute analitiche, filmati educativi ripetuti all'ossessione. Sto fissando un cartello di quelli con segnate le vie di fuga, i punti di incontro, tu sei qui, estintori uscite di emergenza. Sto immaginando fumo, fiamme, sangue, grida, e l'esistenza ignorata del cartello come dell'elefante stesso, il cartello riproduce lo scheletro dell'elefante o il suo sistema digestivo? Quale rapporto funzionale lega l'elefante alle sue innumerevoli rappresentazioni possibili? Non riesco più a pensare all'elefante senza che mi manchi il respiro, non riesco a sollevarne nemmeno l'idea, a maneggiarlo senza restare schiacciato. Per contrasto mi viene in mente la cosa più leggera del mondo. Mio padre. I suoi trenta chili di agonia, il fantoccio robotico che emetteva schiuma di sangue dalla bocca, riempiva interi bicchieri di liquido denso e puzzolente amaranto. Mio padre moriva un poco ogni giorno, trovando chissà dove la forza di sorridermi, svuotavo nel lavandino quei bicchieri con la voglia di prendermi a pugni quando il mio corpo reagiva con i conati a qualcosa che avrei dovuto amare, riconoscente per l'occasione di partecipare alle celebrazioni di una morte speciale, la prima e unica morte di mio padre. Mio padre che mi chiama mi allunga il bicchiere senza dire niente, io che lo prendo senza dire niente e aspetto di essere in bagno prima di sentirmi libero di mostrare disgusto e fare dei conati silenziosi, che non si sentano, come lacrime dentro a un cuscino, in piena notte. K mi sta raccontando del vecchio padre della ragazza ormai donna, del suo farneticare all'ospizio di lusso con vista sul lago, che urla contro il dottore accusandolo di avergli tirato il pacco in autostrada. K imita la voce di un vecchio e gracchia 'Un mattone' così forte che alcuni bambini interrompono i giochi e si mettono a ridere, e hanno qualcosa di sacrilego, qui, nella pancia dell'elefante ancora calda di antiche memorie. K dice che non sa più cosa è vero e cosa no, che a quel punto non ha più senso parlare di colpe e di perdono, ha buttato l'olio usato nello scarico come han fatto in tanti, ha ucciso a fin di bene come han fatto in tanti, perché dovremmo punire lui solo, farne un esempio per cosa? Gli dico Forse è quella la sua punizione. K dice L'inferno della malattia. No, dico, intendo l'aver dimenticato. K rimane zitto. Il centro commerciale va riempiendosi di traffico, guardo chi esce e mi chiedo se ha mai fatto qualcosa di bene per meritarsi di scampare alla strage, guardo chi entra e mi chiedo se ha mai fatto davvero qualcosa di male per meritarsi di finire ammazzato per caso.


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