mercoledì 27 aprile 2011

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (39 di N)

Quando c'hai un figlio l'asilo chiude per le vacanze pasquali e, se non sei un padre assente che in casa non fa niente, uno di quegli uomini che gli basta portare dei soldi a casa e nessuno gli dice mai niente, anzi, gli fanno grandi sorrisi e gli preparano il caffè, all'inferno quotidiano dell'uomo moderno che prende solo calci nei denti si deve aggiungere il bonus figlio in vacanza. Il padre assente e tradizionale di cui sopra non ha la più pallida idea della fatica che comporta seguire un figlio in età prescolare, senza aiuto, giorno e notte, per l'intera durata delle vacanze pasquali. La prova per capire se siete stati bravi è il pianto da rientro: se dopo le vacanze, alla riapertura dell'asilo, il bambino piange e dice 'ti voglio bene, voglio stare con te', allora il test del papà è superato. Se vi congeda come farebbe con un attacchè forse è il caso di rielaborare la strategia parentale. Un altro segnale è il fatto che anche tu debba ritrovare l'abitudine a non avere intorno tuo figlio. Il senso di colpa che si prova stando davanti al computer, con la barba lunga, rimandando la doccia, con tutto il tempo che si vuole per bersi un caffè, senza tuo figlio a richiedere il tuo aiuto o semplicemente la tua attenzione. Quando c'hai un figlio una delle cose che cambiano è che la tua attenzione viene monopolizzata con le stesse facilità e naturalezza che un figlio utilizza per stringere nel pugno il cuore del padre fin dal primo giorno di vita.

Per venire incontro agli uomini che vivono il matrimonio nei panni di un riverito ambasciatore del libero stato di maschio nell'impero di gineceo, posso offrire la mia esperienza pluriennale nel campo della paternità con puro spirito di liberalità. Gita al museo naturale di Bergamo alta, ingresso gratuito, aperto anche i festivi, con divertenti proposte congegnate pensando ai bambini. Gita al parco naturale in valbrembo. Tutte attività che non siano il solito andare a fare la spesa, cucinare, pulire, passeggiate in bicicletta, visite alle maltenute e deprimenti zone giochi dei parchi pubblici, per la piscina è ancora presto e un po' di attività con colla vinilica ci sta sempre. Il consiglio più classico che c'è: quando tuo figlio è stanco e si addormenta approfittane per dormire un po' anche tu, non pensare che a te serve meno riposo perché sei adulto, che potrai concederti di dormire in un altro momento perché hai più autonomia di un bambino; il momento per dormire è questo, se non dormi adesso scoprirai presto e a tue spese i problemi che vengono innescati da una carenza di sonno prolungata. A meno che tu non sia un padre a tempo pieno, in tal caso ringrazia il tuo dio e la moglie la mamma i suoceri e l'eventuale servitù, ma anche no, ad esempio io non scambierei la tua comodità e serenità, la tua cattività inconsapevole, col mio essere padre 24/24 7/7 365/365.

Alcune cose che sono successe in questi giorni. Elia che grida “Ho imparato!” dopo che è stato in equilibrio sulla bici per due secondi, due di numero, attimi di esaltazione durante i quali ho staccato le mani rischiando di vederlo rovinare a terra. Abbiamo tolto le rotelle, abbiamo indossato le protezioni, siamo andati al campo di marte per usare il vialetto di terra battuta al posto dell'asfalto. A un certo punto non sapevo se preoccuparmi seriamente per il suo futuro o se continuare a ridere della totale assenza di padronanza tecnica sul mezzo. La schiena dolorante, un dito ferito per salvarlo al volo da una caduta rocambolesca dalle conseguenze dolorose, e lui che grida “Ho imparato! Hai visto, papa? So andare senza rotelle!”. Rido, mi fa ridere, ridiamo insieme dalla mattina alla sera, se non ci fosse che motivi avrei per ridere? Nessuno, a mente fredda non me ne viene neanche mezzo. Come alla Rocca di Bergamo alta, dopo che mi chiede se non sia meglio fare una salita in discesa che una discesa in salita, dopo che abbiamo evitato di incrociare lo sguardo dei terrificanti mimi di strada, altrimenti chiamati i finti mininimi, gli umanoidi scarichi, i fantocci bloccati, i mimiminimi, dicesi quando un mimo è al minimo, e si rivolge a un turista dicendo 'Lo sai che questi cannoni sono tutti senza palle?', e al conducente della funicolare gli fa i compliemnti, gli dice 'Bravo signor conducente' dopo che a me per tutto il tragitto ha detto 'Vedrai, ora si ferma e ci butta di sotto', e nell'orecchio, bisbigliando, per non spargere il panico 'Ce l'abbiamo noi due il paracadute?'.

Il leone di marmo, di fianco al battistero fitto di santi e putti barocchi, afferma di essere un bravo bambino e che il leone non gli morderà la mano perché io gli ho fatto credere che i bambini cattivi, oh, se fossi un bambino cattivo la mano non ce la metterei, girano voci su questo leone, per nulla rassicuranti, e lui ce la infila, e quando faccio finta che invece a me la morda mi dice non ti preoccupare, papa, il leone è guasto, si è sbagliato, tu non sei cattivo. Al museo abbiamo disegnato il nostro vecchio amico allusauro, 'Ciao allosauro, è un po' che non ci vediamo', gli abbiamo messo un radar in testa, azzurro, e un razzo sulla schiena, viola, e una bocca che si capisce subito quanto è felice l'allosauro di spiccare il volo. Nel bagno del museo non ha tenuto giù il pisellino e ha pisciato dappertutto, con me che mi sforzavo di rimproverarlo, a beneficio di eventuali testimoni, di chiedergli con voce severa come mai non lo avesse tenuto giù, il pistolino, e lui a dirmi scusami, è stato un incidente, mi sono distratto, adesso come facciamo a pulire?, mentre diventa sempre più difficile impedire alla mia bocca di scoppiare a ridere forte, non invidiarlo e sollevarlo in gloria per aver compiuto anche in mio nome una delle moltissime cose che a me non è più concesso fare, neanche per sbaglio.

Fermarsi a guardarsi intorno, sono cose che non si fanno più da grandi, si tende a guardare per terra, a guardare le facce di sbieco, le vetrine, i cartelli, quando ci sono torri a fare a gara fra i tetti, una di esse innalzata per avvicinare il proprio santo al cielo più di quanto lo sia il santo della chiesa nel quartiere adiacente. E cercare lo scompartimento delle batterie nel carrarmato utilizzato in abissinia e messo a riposare nell'erba, perché i bambini ci si arrampichino sopra fingendo che sia il robot giocattolo con le batterie scariche caduto dalla tasca di un titano. Sentire profumo di pane e dire 'Sento profumo di pane?', di carne alla griglia e dire 'Sento odore di cibo che brucia?' Osservare le statue, battere la mani al musicista di strada, ipotizzare il significato degli stemmi, indicare le lancette sui campanili e tapparsi le orecchie quando partono le campane. Quando viene sera guardare insieme i cartoni animati, giocare col lego, con le biglie, con i mostri, risolvere casi di enigmistica, leggere libri o fumetti tirando fuori le voci e gli accenti. L'uomo ragno con l'accento russo, cinese, tedesco, spagnolo, e con tono infantile o senile, con strascichi dialettali, con tono isterico, ipnotico, etilico, con la cantilena del rapper.

Che quando tocca a lui non sa ancora leggere e si inventa i dialoghi, ascolto come se un angelo mi stesse portando messaggi in codice associabili a modi diversi di rivelare lo stesso segreto. "Stavo mandando una cartolina ai cattivi. Gli ho scritto: Un giorno vi ucciderò", "Io non faccio parte del tuo destino, capito? Sono Silver Surfer, quindi non lamentarti", ‎"Voi siete pazzi: è partita la bomba della distruzione. No, noi siamo fatti così, distruggiamo i pianeti", "Visto che tu hai il fumo nella pancia, entrerai a far parte della mia collezione; anche se sei ancora vivo non ho voglia di spazzarti via."

‎"Mi dici chi sono?"
"Tu sei quello che ha ammazzato i supereroi."
"Lo so, ma non mi sento bene."

venerdì 15 aprile 2011

Alla scuola dei preti (6*N)

Alla scuola dei preti è capitato di andare in laboratorio. Mi ricordo di esserci stato un paio di volte, lo ricordo come in sogno. La scuola dei preti aveva dei laboratori, non solo quelli, aveva anche una specie di museo con qualche animale spelacchiato, dentro a bacheche polverose o a quei bellissimi armadi con le pareti trasparenti. I pezzi più belli di quel museo consistevano nell'arredamento, tutti mobili di legno massiccio, odorosi di cera e di nafta preistorica. Gli esemplari di volpe e furetto impagliati con ciuffi di pelo mangiati dalle tarme, con un occhio diverso dall'altro o del tutto assente, il gufo e l'airone imbalsamati in posizioni innaturali, a suggerire contrazioni spastiche dovute al lungo periodo trascorso nella solitudine alienante della cattività, quella manciata di animali, compresi quelli immersi in formalina ingiallita o dai riflessi verdastri, l'intera collezione dava l'idea di giustificare il mobilio, di decorare usando ninnoli sciccosi alcuni pezzi importanti che meritano una posizione di rilievo, che vanno a occupare da soli le pareti più illuminate per fare colpo sugli ospiti. Ti veniva voglia di accarezzare gli spigoli scartavetrati da generazioni di mani più o meno callose e riuscivi a far finta che l'espressione da ictus della faina non si sarebbe ripresentata negli incubi.

Poi c'erano i laboratori. Mi ricordo il professore che dice 'Questo è un becco bunsen', lo accende, regola la fiamma, lo usa per accendere una sigaretta collegata a una serie di tubi e ampolle in un sistema meccanico studiato per succhiare la sigaretta in maniera del tutto artificiale, col professore che con la sinistra teneva il bunsen e con la destra azionava una pompetta manuale per far passare il fumo attraverso un batuffolo di cotone. Poi ha spento tutto, ha spinto con le mani verso le finestre spalancate un filo di fumo superstite, ha preso un paio di pinzette e ha estratto il cotone, con lo sguardo vittorioso di chi ha dimostrato qualcosa in maniera inequivocabile, ci ha mostrato il cotone sporcato dal fumo e a ognuno di noi ha ripetuto 'Questi sono i polmoni di chi fuma', quindi ha chiuso le finestre, le tende, ha spento le luci e ha mostrato le diapositive schematiche sul degrado di funzionamento del tappeto di pelucchi che abbiamo nella trachea e nei bronchi, dicendo 'Col tempo smettono di funzionare e lo sporco non esce più dai polmoni, rimane dentro ai polmoni del fumatore', e ogni cinque minuti ripeteva ragazzi non toccate niente, mi raccomando, altrimenti finisco nei guai, ho piena fiducia in voi e so che non romperete niente, al punto che molti di noi si sono ficcati le mani in tasca e tutti quanti non vedevamo l'ora di uscire dal laboratorio per non tornarci mai più.

Ma il più strano dei professori fu un supplente di storia, un toscano, che quando lo racconto non mi crede nessuno. Entrava e faceva una sola domanda, tipo una data specifica, lo chiedeva a uno studente dopo l'altro fino a quando otteneva la risposta giusta o finiva gli studenti a disposizione. Chi non sapeva rispondere o sbagliava si prendeva come voto un bello zero, a volte due, sul registro. Chi faceva in tempo a trovare di nascosto nel libro la risposta prendeva otto, a volte dieci. Così interrogava. Spiegare invece significava parlare a ruota libera, fare associazioni degne di una critica metodologica comparata, e ci metteva aneddoti e ricordi personali, fino al momento i cui suonava la campana e stop, smetteva di parlare e dava per spiegati un po' di capitoli. A volte invece si limitava a entrare, ordinare a qualcuno di aprire il libro e leggere a voce alta, quindi addormentarsi, con le mani in grembo, seduto in cattedra, che a volte attaccava a russare così forte che l'incaricato smetteva di leggere, noi si chiacchierava, e ogni volta che smetteva di russare l'incaricato riprendeva da una pagina a caso. C'era chi diceva che fosse matto, altri che la colpa era del grasso, dell'obesità che gli stava occludendo le arterie impedendo un corretto afflusso di sangue al cervello, altri dicevano che era colpa delle pillole, delle misteriose pilloline bianche che periodicamente mandava giù senz'acqua. Se si svegliava di cattivo umore per via del troppo baccano in classe chiamava un presunto colpevole, sempre a caso, e gli dava dei colpi con righello, a volte di piatto a volte di taglio, sulla schiena o sulle gambe ma anche sulla testa, e gli diceva di mettere per terra dei pezzi di gesso e di inginocchiarsi sui gessi, che a lui da giovane usavano i ceci e i ceci sono peggio dei gessi. Era un supplente, è durato poco, forse ancora meno del previsto quando i genitori sono venuti a sapere un po' di cosette. A me piaceva, diceva micciaccio, diceva grullone, lo trovavo spassosissimo.

Non aveva il senso dell'umorismo del saggio S., che quando finiva prima o decideva di premiare noi o se stesso con una parentesi aggiuntiva di ricreazione, eccolo aprire il quotidiano e mettersi a leggere tranquillamente. In classe avevamo una copia gratuita de L'Avvenire a disposizione, ma lui leggeva La Repubblica, se la portava da casa, e io leggevo il Corriere e mai, dico mai, abbiamo discusso di politica in termini meno che amichevoli, anzi, sempre con una sana dose di leggerezza e menefreghismo. Ancora adesso nel campo delle opinioni tendo a dare patenti di intelligenza e stupidità dal grado di protervia col quale una persona difende le proprie idee o attacca quella altrui. Per darvi un'idea più precisa del saggio S. è il tipo di persona che il giorno in cui ci mettemmo a fare versi di animali, di nascosto, galline, cani, cavalli, mucche, lui alzò la testa con la faccia di uno che sta facendo colazione e ti chiede lo zucchero, disse 'Lo sentite anche voi? Sembra di essere in una fattoria', per tornare subito a immergersi nelle pagine del giornale. E la volta che arrivò una collega a rimproverarlo per il rumore proveniente dalla nostra classe, così forte da impedire l'attività nella aule vicine, il saggio S. si è scusato con la collega, si è assunto tutta la colpa ma non ci ha detto si smettere, ottenendo un rispetto che si connette a una fattispecie di autorità molto particolare. Non facemmo più tanto rumore da metterlo in imbarazzo, a parte la fattoria, ogni tanto.

mercoledì 13 aprile 2011

Due date.

Il titolo originale è 'Due date', che significa data di scadenza o data di consegna, un titolo che ha inerenza col film, dal momento che la storia si regge su un appuntamento imprescindibile com'è quello di una gravidanza giunta a termine. E in Italia come lo abbiamo tradotto? 'Parto col folle', ecco come, per l'ennesima volta, qualcuno si diverte a farci fare la solita figura di merda, a ricordarci che siamo italiani e ci comportiamo in osservanza di stereotipi e cliché che ci hanno, a questo punto giustamente, con cognizione di causa, appiccicato addosso nei secoli. Perché traduciamo i titoli? Perché li traduciamo orecchiando bisogni di marketing, previsioni di gradimento, senza alcun rispetto per l'opera né per chi ci ha lavorato? Qualcuno ha il potere di prendere un titolo e di stravolgerlo, cosa che, se non si è capita, mi fa venire i nervi. Vorrei sapere chi cazzo è che ha deciso che due date si doveva vendere in Italia come parto col folle. Così, lo vorrei sapere per curiosità, per vedere che faccia ha, se ha l'aria di uno intelligente o la faccia da pirla. Eppoi perché non posso scegliere di guardarlo in lingua originale coi sottotitoli? È un film inglese, non parlano mica turco o cinese. No, me lo devo sorbire doppiato, con afroamericani che parlano con l'accento barese magari, o con vecchi toraci da rauca voce baritonale che parlano con voci da ragazzino atletico. Lasciamo perdere, qui da noi siamo abituati a lasciare perdere, a subire di tutto, e allora passiamo ci sopra e andiamo avanti, un bel respiro e via, ecco, è passato, va meglio, chiudiamo la parentesi e torniamo a sorridere. Poi mi chiedono perché sono asociale, misantropo, perché preferisco stare zitto e spegnere il cervello. Per legittima difesa, ecco perché, per non sentirmi troppo alieno, straniero a casa mia.

Veniamo al film, che tanto polemizzare è tempo perso, ti ridono in faccia. Il film è una commedia che parla dell'amicizia come sentimento molto simile all'amore, una situazione in cui ci si trova senza volerlo e senza aver modo di uscirne. L'amicizia si presta a valutazioni razionali molto più dell'amore perché non ipotizza progettualità finalizzate o adesioni istituzionali come l'azienda famiglia (l'istituzione famiglia è una azienda e una società di mutuo soccorso, non lo dico io, lo dice il codice civile), per cui il film tratta un argomento per certi versi nuovo, sviluppato in termini nobili dalla problematica dei sentimenti omosessuali con tutte le problematiche giuridiche che ne derivano. In effetti uno dei due protagonisti potrebbe essere gay, non so se la sceneggiatura prevede un atteggiamento promiscuo o se è una scelta interpretativa dell'attore, in ogni caso è uno degli elementi di genialità che rendono una commedia leggera come questa degna di una visione intellettualmente partecipata. Alla fine del film si scopre, volenti o nolenti, che il confine tra amicizia e amore è alquanto sottile e che i sentimenti umani sono qualcosa che va al di là di manifestazioni affettive legate alla sessualità. L'amore alto, l'amore cristiano fatto di alterità e sacrificio e compassione, l'amore che si esprime fra persone che a livello razionale si detestano ma che non riescono a ignorare il legame potente delle affinità spirituali, delle reciprocità e delle specularità. Una sceneggiatura che merita rispetto e stima, soprattutto tenendo conto del fatto che nasconde temi profondi nella leggerezza e nelle pieghe a tratti demenziali di una commedia brillante.

I protagonisti sono un attore comico di origini greche che non mi ricordo abbia ottenuto parti di grande spessore finora ma che comunque possiede notevoli doti comunicative, le prove di questa bravure sono sparse un po' in tutto il film ma basta anche, per esempio, guardare i pochi secondi in cui fa il brando del padrino, l'ho visto fare a molti eppure lui riesce a farlo in modo completamente suo, diverso da ogni altro, impresa non così facile come può sembrare, provateci voi e poi ne riparliamo. C'è anche il giornalista di assassini nati (il titolo l'han tradotto abbastanza bene, bisogna ammetterlo, in originale era natural born killers, anche se potevano lasciarlo in inglese, c'è forse una legge che ci obbliga a tradurre i titoli? c'è qualcuno che non sa cosa vuol dire natural o killer?), anche quello un film che bisogna vedere almeno una volta nella vita. Il film lo fanno loro due, gli altri sono nomi famosi ma potrebbero essere anche figuranti presi a caso dal marciapiede, non aggiungono niente alla storia. Storia che è una tipica on the road americana, dove si passa molto tempo insieme dentro a una macchina e si è costretti ad approfondire la conoscenza reciproca. Sorprendente e memorabile la scena in cui il giovane senza cervello diretto alla pentola d'oro che c'è alla fine dell'insegna di hollywood reagisce sghignazzando di fronte all'elaborazione freudiana del lutto eseguita del compassato e laureato professionista in un momento di fiducia, apertura e vulnerabilità.

Con procedere della storia si aprono e si chiudono conti in sospeso fra i due amici a loro insaputa e contro la loro stessa volontà, si creano debiti di riconoscenza, crediti di stima, esperienze condivise che vanno in un fondo comune che diventa giorno dopo giorno sempre più prezioso. Il colpo di scena finale che c'è e non c'è, prima della chiusura del cerchio che inserisce un tocco magico alla narrazione. Insomma un lavoro che non vincerà mai dei premi, che non verrà mai sostenuto dai puzzalnaso e dagli scarpelustre, ma che esprime con molto più vigore e passione la risposta a un'autentica chiamata artistica, obbligandoci a riflettere sulla nostra posizione ideologica nei confronti di schemi mentali che pensiamo di dominare ma che dai quali spesso veniamo dominati. Un film che è un invito alla resa e che necessita e sfrutta la forma commedia proprio per ricordarci che nella vita esistono cose che non sono gestibili e che queste cose si possono paragonare a un pianto ma anche, perché no, a una risata. E chi pensa che far ridere sia più facile, che a ridere son capaci anche gli stupidi, questo film dimostra che no, che ridere a volte è la parte più difficile, soprattutto se non ti diverti facilmente come si diverte anche uno stupido, se quando tutti gli stupidi ridono tu ti accorgi che non ti diverte, e quando tutti gli stupidi piangono tu devi trattenere la risata. E ti chiedi a quel punto chi sia più stupido, se ha ancora senso fare questa e altre più gravi distinzioni.

[fuori campo]: "Mio padre non l'avrebbe mai fatto, mi voleva bene."

lunedì 11 aprile 2011

Sunday morning.

La domenica mattina non è come nelle canzoni, nei film, nei libri. Quando l'attore sopravvive alla sparatoria, punisce il cattivo, salva gli ostaggi, recupera i preziosi, butta per terra le armi, s'incammina in direzione dell'alba. È finita, eroe, puoi tornare nell'anonimato. Quando la batteria tiene un ritmo vivace e spensierato, la melodia è abbellita da una voce calda, per non dire cisposa, ragazzi e ragazze in piena salute che oggi non devono andare a scuola, si alzano tardi e trovano la colazione già pronta. Gli adulti non sono pressati da impegni e orari da rispettare, stanno controllando che la lama del tosaerba sia affilata, stanno riempiendo di carbonella la griglia nuova, comprata in offerta al supermercato, si preparano a chiacchierare evitando argomenti spinosi, opinioni troppo nette che potrebbero rovinare l'atmosfera, creare nervosismo. Per dirsi a vicenda adesso puoi staccare, eroe, hai fatto del tuo meglio. E tutti insieme ci si potrebbe vestire eleganti per andare in centro, per andare in chiesa, per andare alla partita, per andare in macchina a vedere il mare, a fare una passeggiata nei boschi, a visitare un museo o una mostra d'arte.

La domenica mattina non comincia niente di spettacolare e nemmeno si conclude in maniera commovente la storia di una lunga settimana. Ci si immagina che la domenica mattina l'agonia del moribondo si sia conclusa durante la notte e adesso si possa piangere e buttarsi tutto alle spalle. Andare avanti, così si dice. Avanti. Andare. Gli uccellini cantano più forte, il sole è più luminoso, l'aria ha dei profumi tutti da esplorare, e la gioia che deriva dal permettersi una birra a un'ora qualsiasi, senza preoccuparsi di niente che non sia il raggiungimento di un minimo di benessere, un permesso di libera uscita dal campo di concentramento dei doveri quotidiani. C'è un momento, tra quando ci si sveglia e quando ci si rende conto di che giorno sia, in cui si ricorda che c'è stata, molto tempo fa, la possibilità reale di vivere tutta la propria vita in un singolo giorno e di poterlo scegliere fra tanti, quel singolo giorno. Avanti. Andare. Quand'è stata l'ultima volta che ci ho creduto, ci si chiede, poi ci si butta tutto alle spalle, ci si alza e si va avanti.

La domenica mattina ci si aspetta di svegliarsi riposati, rinnovati. Si rimane delusi se qualcosa o qualcuno ci rovina la festa. Ci si sente sollevati a trovare qualcosa o qualcuno a cui dare la responsabilità di una festa rovinata. Non sono stato io, l'importante è quello, io non c'entro nulla, io stavo dalla vostra parte. Sarebbe potuta essere meravigliosa, un'avventura di estasi sublime, la felicità così come non l'avete mai sperimentata, signori e signori ecco a voi la giornata festiva, finalmente potete gioire, sentirvi nel posto giusto al momento giusto, confidare che tutto si sistemi, che tutto vada alla grande. Si fatica tutta la settimana per godersi il frutto del sudore della fronte, le ore passate chiusi dentro la macchina ad aspettare il semaforo, le riunioni durante le quali ci si trova a pensare ai capelli bianchi, a come è possibile che siano apparsi i capelli bianchi, dove sono stato tutto questo tempo, cosa ho fatto in tutti questi anni. Non sono stato io a rovinare la mia festa, si pensa, e si va in bagno a lavarsi le mani, a togliersi quella sporcizia della mente.

La domenica mattina ieri mi sembrava di essere nel deserto. Sono uscito la mattina presto e la città stava nascosta in silenzio come un animale che si accorge di aver mangiato un boccone avvelenato. In attesa dell'inevitabile. Sentivo una sveglia lanciare un trillo digitale, incessante, nessuno in casa a premere il bottone. Sentivo il profumo di camelie e glicini, a perdere petali che finivano in terra, andavano a formare mucchietti negli angoli, alcuni restavano appiccicati alle merde di cane, intere costellazioni di merde marroni chiare, marroni scure, più o meno formose, più o meno solide. E ancora sirene d'allarme che strillano di solitudine in case abbandonate per il week end in un posto più festoso, più eccitante. Qui ci sono muri crepati e muri scrostati, palazzi da legge fanfani con i muri piastrellati da decenni, balconi che somigliano a buchi squadrati per far uscire il buio che c'è dentro. Le campane rintoccano l'ora, l'inevitabile si avvicina. Una chiazza di vomito decorata a spaghetti emana ancora odore di vino. Le poche persone che incontro mi sembrano cespugli di salsola in fuga da se stesse.

venerdì 8 aprile 2011

e tante belle cose

ndo si mette in moto la centrifuga è vero che si resta affascinati si cerca di identificare i singoli oggetti che vorticano si mischiano lottano per farsi notare la centrifuga vibra la centrifuga emette un ronzio che va crescendo diventa la turbina di un aviogetto ti senti addosso la pressione di una velocità immaginaria e dimentichi di essere immobile a fissare la centrifuga non dico la centrifuga della lavatrice dico la centrifuga di quando metti in moto i ricordi e le immagini e i suoni li fai girare e ti siedi a guardare prendi tutto quello che trovi in giro e ficchi tutto dentro prendi i fili ne fai un gomitolo con tutto quello che ti fa provare e con tutto quello che ti fa pensare lo prendi e lo butti nella centrifuga e lo guardi girare e girare e girare che si allunga si ribalta si mescola in mezzo al casino generale dove tutti i colori diventano uno, diventano grigio e marrone e nero ci metti il dolore che potrebbe farti una vespa quando non ci credi che se la lasci stare la vespa ti assaggia e non ti fa niente ci metti lo sguardo di chi sa che rimarrai segnato e sta cercando di farti credere che si supera tutto col tempo si supera tutto ci metti le croste sulle ginocchia ci metti la voce di chi ti ha accusato ingiustamente e l'ha fatto con l'intenzione di punirti solo per farti capire cosa si prova a essere puniti a sentire dentro la rabbia e il dolore che marciscono piano piano in un silenzio malato di rassegnazione ci metti il bambino che sapeva tenere fra i denti un granchio vivo ci metti un po' di questo e un po' di quello come viene viene e lasci che la centrifuga faccia il resto perché la centrifuga sa cosa deve fare la centrifuga seleziona la centrifuga ha un cervello suo che le dice gira gira più forte gira gira più forte gira e spiraleggia veloce gira confondi rovista gira sbatacchia rimesta ci metti tutto quello che riesci a raggiungere scavando con le dita fino a quando non c'è più niente sei in un cerchio pulito non c'è niente che ti dia fastidio per terra qui intorno niente che cerchi di ottenere considerazione di strisciarti addosso piangendo per ottenere attenzione puoi rilassarti nel cerchio vuoto e ripulito puoi lasciare che la centrifuga giri e giri e stringa i nodi dei suoi tentacoli gravitazionali sei libero di osservare da lontano come girano le cose nella centrifuga e ti viene il dubbio che se smetterai di guardare la centrifuga si fermerà e verrai aggredito da una marea di oggetti di cui non riuscirai mai più a disfarti che ce n'è sempre di nuovi a sbucare dal nulla e più ne esorcizzi e più ne vengono evocati guarda eccone un altro nuovo di zecca che si fa piccolo nell'ombra della percezione cos'è uno schizzo e quelle sono forse unghie no mi sembra un disegno cos'è un grafico cos'è ha degli occhi o sono biglie di vetro cos'è ti viene voglia di indagare succede che le cose ti incuriosiscono ti succhiano energia ti fanno concentrare fino a quando non sei stravolto o ti confondono ti dicono chi è nella centrifuga tu o noi magari sei tu che giri e guardi fuori dall'oblò sei tu c

lunedì 4 aprile 2011

Intellighenzia organica.

La disamina delle fattispecie nell'ottica di uno storicismo adogmatico non porta a conclusioni univoche sulla natura dei cosiddetti zombie. Noi occidentali, forti di una struttura ideologica post-illuminista che ha visto personaggi indomitamente rivoluzionari come Fraonger e Stickenson siamo obbligati a tenere in considerazione le istanze legittime e democratiche da qualunque parte provengano, senza soffermarci su valutazioni acritiche di stampo nietzchiano e tzochtcevista, nello specifico la parte sviluppata postuma a partire dai frammenti appuntati dietro gli scontrini, il che ci riporta all'esigenza di un approccio poetico e sognatore che non si fermi al becero e squallido ricatto dell'economia sui valori fondanti della convivenza come anni di lotta ci hanno permesso di conquistare. Gli zombie infatti è vero che sono morti viventi, nessuno potrebbe negarlo, ma è altresì vero che rappresentano una fetta moralmente sana della popolazione di cui la politica non può certo fare a meno, specialmente in questi oscuri tempi di insopportabile dittatura nei panni di una comunicazione sorridente e plebiscitaria che si fonda su un colpevole populismo demagogico in grado solo di allontanarci dai nostri veri e genuini desideri di fratellanza, uguaglianza e libertà. Chi afferma che gli zombie sono cattivi, che si nutrono di carne umana non fa che ribadire concetti risaputi, già ampiamente analizzati e metabolizzati dal dibattito intellettuale degli ultimi due o tre secoli, e si configura come l'arma spuntata nella mani di chi si oppone al progresso e all'avanzata di una nuova classe politica in grado di sconvolgere gli attuali equilibri, frutto di stagnazione culturale e mancanza di slancio, tutto ciò che invece sentiamo chiedere nelle strade dai giovani disoccupati, dalle famiglie che fanno fatica, dai più deboli e sfortunati ai quali dobbiamo garantire il diritto alle stesse opportunità, prescindendo da valutazioni discriminatorie sullo status di zombie. E per finire un appunto sull'annosa diatriba che vuole creare ulteriori distinzioni fra zombie e morto vivente. È davvero avvilente constatare la mancanza di capacità di governo in coloro che hanno fatto della lotta agli zombie la loro bandiera ideologica, ipotizzando perfino, nelle pagine più oscure della nostra democrazia, il ricorso a misure drastiche che hanno provocato la violenta e spontanea reazione popolare che ben ricordiamo, con vittime innocenti e ingenti danni materiali. La mappa del futuro mostra che il cammino del genere umano non sarà mai davvero concluso fino a quando non avremo imparato i modi e i termini di una corretta gestione degli zombie, sia a livello di integrazione che soprattutto a livello emotivo e concettuale, insegnando ai nostri giovani a vincere la repulsione irrazionale per i non-morti, l'istinto che spinge a una cieca violenza indegna di un paese civile e ricco, pieno di storia e di cultura come quello in cui abbiamo avuto l'onore e il privilegio di nascere. Per questo invito tutti voi, cari amici, a sostenere il nostro movimento in difesa degli zombie, affinché un mondo migliore per i nostri figli sia possibile, perché il sacrificio dei nostri predecessori non sia vano. Dobbiamo lottare per impedire che i nostri diritti vengano calpestati, i nostri bisogni derisi, è la Giustizia che ce lo chiede, è la Verità che ce lo ordina, è la Storia che ce lo impone, e chi si opporrà alla nostra avanzata verrà travolto dai suoi stessi pregiudizi, dalla sua visione limitata e egoistica della realtà. Il cambiamento è possibile, il cambiamento è adesso!


(foto di Mario Giagnori)

Offerta speciale.

C'era una volta un laboratorio dove facevano nascere i bambini. È vero quello che raccontava la nonna: nascono sotto un cavolo, li compri al negozio dei bambini e aspetti che la cicogna te li porti a casa. Adesso però le cose sono un po' cambiate, è tutto più moderno, ci sono contenitori in materiale atossico, gestioni computerizzate, una vasta, che parola ha usato la guida robotica?, una vasta qualcosa che insomma controlla il tutto perché vada come deve andare. Quando ho visto il settore addestramento ho riconosciuto molte cose della mia infanzia e ho deciso che da grande farò quel lavoro lì, aspetta che leggo come si chiama, mi sono preso un appunto, esauditore di aspettative genitoriali.

Ai tempi della nonna la fabbrica dei bambini doveva essere un posto molto più grezzo e pericoloso anche se di sicuro più semplice e pittoresco. Mi immagino serre piene di cavoli puzzolenti, bancarelle con venditori che gridano bambine bionde, oggi bambine bionde scontate, approfittate dell'offerta solo per oggi le bambine bionde sono scontate. E le cicogne nel dipartimento spedizioni, quante ne avranno avute? Cosa mangiano le cicogne, la guida robotica che ci spiegava come funziona il laboratorio non ha saputo rispondermi. Ah, se la nonna potesse vedere che progressi sono stati fatti nel settore neonati, pensavo, resterebbe a bocca aperta guardando i favi nel reparto selezione, le migliaia di celle rese azzurrine per via dei microscopici cristalli di ghiaccio.

La nostra è la migliore industria di riproduzione che esista al mondo, ripeteva la guida robotica nelle pause tra una spiegazione e l'altra. Ci ha portato in una stanza piena di terminali e ci ha chiesto di simulare un'ordinazione. Al posto di mettermi a scegliere tutte e ogni singola caratteristica desiderata ho invece tirato fuori i miei documenti e ho provato a inserire direttamente un codice identico al mio per vedere cosa sarebbe accaduto. Pensavo sarebbe comparso un messaggio di errore, qualcosa come spiacenti il bambino richiesto è già stato prodotto e invece è apparsa la domanda maschio o femmina? Tempo fa non riuscivano a fare due bambini uguali, nonna diceva spesso che ognuno di noi è unico. Se volessi potrei comprare un me stesso e ricominciare come nei giochi che quando muori puoi usare un'altra vita e riprovarci.

La guida ha detto che c'è ancora chi preferisce portarsi a casa il prodotto grezzo e provare a completarlo da solo, ma che la maggior parte dei clienti ha capito l'importanza di un addestramento professionale. La selezione è inutile senza adeguata impostazione, c'era scritto sulla copertina dell'ennesimo opuscolo che ci hanno dato. È qui che ho deciso di essere un esauditore di aspettative genitoriali, ricordo ancora il giorno in cui il mio addestratore, si chiamavano così quando ero piccolo, mi consegnò alla mia famiglia. Avevo solo vent'anni, non si aspettavano di ricevermi prima dei trenta. La mamma lo abbracciò, il papà lo ringraziò moltissimo. Laureato, figlio mio sei laureato, ringrazia il tuo addestratore, disse la mamma con le lacrime agli occhi. E papà che spulciava la lista e chiedeva pianoforte? L'addestratore annuiva e sorrideva, fiero di me. Mamma chiedeva buone maniere? Erano così felici e io capii che non mi avrebbero mandato indietro come prodotto difettoso.

venerdì 1 aprile 2011

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (38 di N)

Quando c'hai un figlio gli chiedi “Ma noi ridiamo tutto il giorno?” e lui ti dice sì, ti dice saremo amici per sempre, e hai l'impressione che per la prima volta abbia capito il senso di una domanda retorica. Allora provi con l'ironia, a cena indichi la coscia di pollo gli dici “Perché non ti mangi anche le ossa tanto che ci sei?”, e lui ti risponde che le ossa non si mangiano. L'ironia magari più avanti, c'è da aspettare ancora un po' per l'ironia, almeno per quella iperbolica, a quanto pare. L'istinto gregario invece è in piena fioritura. Mi accusa di essermi dimenticato questo e quello, di non fare le cose come si deve, mi elenca col tono della maestrina – senza offesa per le maestre, è solo un abusato modo di dire – le varie fasi che devo eseguire per non sbagliare nulla. Il tutto per il mio bene, perché vuole che io sia perfettamente integrato, irreprensibile, inserito, inappuntabile. Proprio ieri mi ha detto “Papà, io voglio essere come tutti gli altri.”

Ora dice papà, non papa, soprattutto quando sta fertilizzando l'albero del conformismo, dell'accettazione sociale. C'è un armadietto dove si lasciano le giacche dei bambini e l'altro giorno i bambini sono usciti in cortile e mio figlio era l'unico senza giacca. Adesso tutte le mattine mi ricorda di lasciare la giacca nell'armadietto, accompagna il suo vecchio e inadeguato padre (che sono io) per sincerarsi che tutto ciò avvenga e lui non debba più sentirsi espulso dal branco per evidenti carenze di vestiario. Vuole essere come tutti gli altri, come biasimarlo? Chi non lo vorrebbe? Il conforto – il comfort – del gregge, del circolo, della mandria, del club. Ah, gli amici e le amiche, i sorrisi, le battute, le telefonate, le pacche sulle spalle. Dall'altra parte ci sono le prese in giro, gli sputi, gli scherzi di pessimo gusto, le maldicenze, le occhiate a volte pietose a volte maligne di chi sta invitando tutti alla festa tranne te. Voglio essere come tutti gli altri, mi dice, e io annuisco, sì, fai così, figliolo, se ci riesci, perché no?

Poi c'è chi non ci sta perché non vuole e chi non ci sta perché non ce la fa, gli costa troppa fatica rincorrere le mille necessità della mente collettiva che giudica, accetta e respinge, esalta e sminuisce, e parla per bocca dei santi e dei profeti della moda, dell'opinione buonista, dei comportamenti ritenuti più adeguati. Che tu voglia essere come tutti gli altri è un bene, significa che sei sano di mente, sei orientato al bene comune, nessuno sospetterà di te l'introversione e l'asocialità, o peggio l'egoismo e l'insensibilità. Meglio umano, troppo umano, che troppo poco. Sono contento se diventi come tutti gli altri e sei contento di esserlo, la vita diventa molto più semplice, più ricca di occasioni. Ah, l'integrazione, la fusione nel corpo sociale, la comunione con gli altri fedeli della stessa religione, una fede scritta nei geni delle specie animali che intendono sopravvivere e lasciare che si estinguano gli esemplari solitari e gli infelici, i privi di grazia e di empatia.

Anch'io ho sempre voluto essere come tutti gli altri, vorresti dire a tuo figlio tacendo sul rischio che finisca dalla parte delle vittime, a sentirsi dare del grasso se sarà grasso, del brutto se sarà brutto, dello stupido se sarà stupido. Come padre vorresti potergli dire che basta volerlo, che è una decisione personale alla quale il mondo non può far altro che adeguarsi: se vuoi essere come tutti gli altri non esistono altri che possano impedirtelo facendoti sentire diverso. E metti il caso che un giorno scopri di esserlo, diverso, che non sarai uguale a tutti gli altri nemmeno in mille anni di tentativi sprecati in continui adeguamenti, limature, rinunce, autocensure. L'albero potato, l'albero legato come quei bonsai che devono figurare aggrappati a una roccia, tutti piegati da un vento artificiale che esiste solo nelle intenzioni del giardiniere. E questo bambino che è tuo figlio è quell'albero, e chiede di venire aiutato a perdere rami, ad assumere posture che gli sono innaturali.

Alla fine stai zitto, non gli dici niente, gli lasci credere che essere come gli altri sia un'opzione alla portata di mano di chiunque, non è ancora il momento di tirare fuori i vecchi detti delle nonne, il pozzo del se tutti si buttano allora anche tu? Del vai con Lucignolo e diventi un somaro. Del meglio solo che male accompagnato. Essere come tutti, dissolvere il proprio io, tornare nel grembo dove non esisteva un io diviso dal tu, chi non vorrebbe continuare a delegare agli altri la responsabilità di se stessi? C'è chi lo fa, chi ci riesce, si annienta negli idoli di musica, sport, politica, si lascia condurre fidandosi ciecamente dell'autorità, si accontenta di poter accendere gli strumenti che lo identificano come parte del gruppo di riferimento. I gesti, i modi di dire e di fare, le convinzioni, le divise, le passioni. La paura ancestrale di ritrovarsi soli. Come non citare Pascal? “Tutta l'infelicità dell'uomo viene dal non saper stare da solo in una stanza.” e speri che abbia sempre tanti amici, che sia sempre felice, anche se questo significasse diventare uno come tutti gli altri, indistinguibile, cellula di un organo, rotella di un meccanismo, mano nella mano con amici per sempre – saremo amici per sempre, ti dice - , in un girotondo lungo tutta la vita.