venerdì 15 aprile 2011

Alla scuola dei preti (6*N)

Alla scuola dei preti è capitato di andare in laboratorio. Mi ricordo di esserci stato un paio di volte, lo ricordo come in sogno. La scuola dei preti aveva dei laboratori, non solo quelli, aveva anche una specie di museo con qualche animale spelacchiato, dentro a bacheche polverose o a quei bellissimi armadi con le pareti trasparenti. I pezzi più belli di quel museo consistevano nell'arredamento, tutti mobili di legno massiccio, odorosi di cera e di nafta preistorica. Gli esemplari di volpe e furetto impagliati con ciuffi di pelo mangiati dalle tarme, con un occhio diverso dall'altro o del tutto assente, il gufo e l'airone imbalsamati in posizioni innaturali, a suggerire contrazioni spastiche dovute al lungo periodo trascorso nella solitudine alienante della cattività, quella manciata di animali, compresi quelli immersi in formalina ingiallita o dai riflessi verdastri, l'intera collezione dava l'idea di giustificare il mobilio, di decorare usando ninnoli sciccosi alcuni pezzi importanti che meritano una posizione di rilievo, che vanno a occupare da soli le pareti più illuminate per fare colpo sugli ospiti. Ti veniva voglia di accarezzare gli spigoli scartavetrati da generazioni di mani più o meno callose e riuscivi a far finta che l'espressione da ictus della faina non si sarebbe ripresentata negli incubi.

Poi c'erano i laboratori. Mi ricordo il professore che dice 'Questo è un becco bunsen', lo accende, regola la fiamma, lo usa per accendere una sigaretta collegata a una serie di tubi e ampolle in un sistema meccanico studiato per succhiare la sigaretta in maniera del tutto artificiale, col professore che con la sinistra teneva il bunsen e con la destra azionava una pompetta manuale per far passare il fumo attraverso un batuffolo di cotone. Poi ha spento tutto, ha spinto con le mani verso le finestre spalancate un filo di fumo superstite, ha preso un paio di pinzette e ha estratto il cotone, con lo sguardo vittorioso di chi ha dimostrato qualcosa in maniera inequivocabile, ci ha mostrato il cotone sporcato dal fumo e a ognuno di noi ha ripetuto 'Questi sono i polmoni di chi fuma', quindi ha chiuso le finestre, le tende, ha spento le luci e ha mostrato le diapositive schematiche sul degrado di funzionamento del tappeto di pelucchi che abbiamo nella trachea e nei bronchi, dicendo 'Col tempo smettono di funzionare e lo sporco non esce più dai polmoni, rimane dentro ai polmoni del fumatore', e ogni cinque minuti ripeteva ragazzi non toccate niente, mi raccomando, altrimenti finisco nei guai, ho piena fiducia in voi e so che non romperete niente, al punto che molti di noi si sono ficcati le mani in tasca e tutti quanti non vedevamo l'ora di uscire dal laboratorio per non tornarci mai più.

Ma il più strano dei professori fu un supplente di storia, un toscano, che quando lo racconto non mi crede nessuno. Entrava e faceva una sola domanda, tipo una data specifica, lo chiedeva a uno studente dopo l'altro fino a quando otteneva la risposta giusta o finiva gli studenti a disposizione. Chi non sapeva rispondere o sbagliava si prendeva come voto un bello zero, a volte due, sul registro. Chi faceva in tempo a trovare di nascosto nel libro la risposta prendeva otto, a volte dieci. Così interrogava. Spiegare invece significava parlare a ruota libera, fare associazioni degne di una critica metodologica comparata, e ci metteva aneddoti e ricordi personali, fino al momento i cui suonava la campana e stop, smetteva di parlare e dava per spiegati un po' di capitoli. A volte invece si limitava a entrare, ordinare a qualcuno di aprire il libro e leggere a voce alta, quindi addormentarsi, con le mani in grembo, seduto in cattedra, che a volte attaccava a russare così forte che l'incaricato smetteva di leggere, noi si chiacchierava, e ogni volta che smetteva di russare l'incaricato riprendeva da una pagina a caso. C'era chi diceva che fosse matto, altri che la colpa era del grasso, dell'obesità che gli stava occludendo le arterie impedendo un corretto afflusso di sangue al cervello, altri dicevano che era colpa delle pillole, delle misteriose pilloline bianche che periodicamente mandava giù senz'acqua. Se si svegliava di cattivo umore per via del troppo baccano in classe chiamava un presunto colpevole, sempre a caso, e gli dava dei colpi con righello, a volte di piatto a volte di taglio, sulla schiena o sulle gambe ma anche sulla testa, e gli diceva di mettere per terra dei pezzi di gesso e di inginocchiarsi sui gessi, che a lui da giovane usavano i ceci e i ceci sono peggio dei gessi. Era un supplente, è durato poco, forse ancora meno del previsto quando i genitori sono venuti a sapere un po' di cosette. A me piaceva, diceva micciaccio, diceva grullone, lo trovavo spassosissimo.

Non aveva il senso dell'umorismo del saggio S., che quando finiva prima o decideva di premiare noi o se stesso con una parentesi aggiuntiva di ricreazione, eccolo aprire il quotidiano e mettersi a leggere tranquillamente. In classe avevamo una copia gratuita de L'Avvenire a disposizione, ma lui leggeva La Repubblica, se la portava da casa, e io leggevo il Corriere e mai, dico mai, abbiamo discusso di politica in termini meno che amichevoli, anzi, sempre con una sana dose di leggerezza e menefreghismo. Ancora adesso nel campo delle opinioni tendo a dare patenti di intelligenza e stupidità dal grado di protervia col quale una persona difende le proprie idee o attacca quella altrui. Per darvi un'idea più precisa del saggio S. è il tipo di persona che il giorno in cui ci mettemmo a fare versi di animali, di nascosto, galline, cani, cavalli, mucche, lui alzò la testa con la faccia di uno che sta facendo colazione e ti chiede lo zucchero, disse 'Lo sentite anche voi? Sembra di essere in una fattoria', per tornare subito a immergersi nelle pagine del giornale. E la volta che arrivò una collega a rimproverarlo per il rumore proveniente dalla nostra classe, così forte da impedire l'attività nella aule vicine, il saggio S. si è scusato con la collega, si è assunto tutta la colpa ma non ci ha detto si smettere, ottenendo un rispetto che si connette a una fattispecie di autorità molto particolare. Non facemmo più tanto rumore da metterlo in imbarazzo, a parte la fattoria, ogni tanto.

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