sabato 26 giugno 2010

La giraffa è l'unico animale vertebrato che non sbadiglia, non si sa il perché.

giovedì 24 giugno 2010

Questo è 4553737.

Il primo numero non può essere 2, siamo uniti, mio fratello non esiste, è questo che non riusciamo a farti capire. Non siamo gemelli, non siamo nemmeno fratelli, siamo lo stesso numero con segno opposto, e il segno non ha alcuna importanza se consideri il modulo, ciò che rimane è il numero e quel numero è 1. Potrei usare i suoi occhi, potrei essere lui, e in effetti ci scambiamo di posto, siamo intercambiabili, niente ci distingue, non siamo speculari, non siamo fatti a immagine, siamo copie, siamo duplicati, due esemplari dello stesso numero.

Ci hanno fatto esibire, ci hanno mandato in televisione. Sappiamo quando cade il giorno di Pasqua nell'arco di 80 mila anni ma non cosa sia una pasqua. Sappiamo il giorno della settimana di qualsiasi data tu possa proporci ma non possiamo fare somme o sottrazioni. Sappiamo fornirti un numero primo di 12 cifre ma non la definizione di numero primo. La gente rideva, la gente applaudiva, per noi non aveva senso, anche la gente è un numero. Il numero di quella gente è 4733.

Siamo nati così. Se fossi solo direbbero che sono malato ma mio fratello gemello è come me e questo ci rende invisibili, si smette di vedere quello che non si riesce a spiegare. Ma noi non siamo un due, siamo due uno, siamo l'unità, perché ci percepite come distinti? Il dottore è 821. Cerca di dirci qualcosa ma non lo capiamo, usa cose diverse dai numeri, suoni che per noi sono come cinguettii d'uccello, uccello è 1697, come tonalità del vento che fischia, vento è aria è 677, vento è movimento è 1013, vento è 685801, suono è 1511, suono del vento è 687312. È molto semplice, è naturale, come si può anche solo immaginare che esista un modo di comunicare differente? Tutto è numero, eppure nessuno a parte noi sembra accorgersene. Cosa vedono i vostri occhi, noi vediamo i numeri, voi cosa?

Ci fanno molte domande, ci fanno dei test. La nostra intelligenza è risultata molto scarsa. I concetti, ci dicono, avete il concetto di questo e di quello? Diciamo 47051 o 99809 e il dottore scuote la testa, deluso. Ci chiedono cosa provate? Non abbiamo idea di cosa stiano parlando. Noi ci sforziamo di capire il loro linguaggio ma loro si rifiutano di imparare il nostro. Sappiamo dire cos'è successo in qualsiasi giorno a vostra scelta dal compimento del nostro quarto compleanno. Il 5 10 1976 abbiamo mangiato 3 fette di pane tostato, siamo usciti di casa alle 7 e 53, il bambino che si girava quando sentiva la parola Mike ci ha spintonato e ci ha dato un calcio alla sedia, il giornale con la parola Post sporgeva dall'espositore dell'edicola e in prima pagina c'era il numero 15 e la parola morti. Non calcoliamo, non ricordiamo, tutto è sotto i nostri occhi quando guardiamo dentro di noi.

Abbiamo capito che si può vivere in un mondo senza numeri, un mondo dove i numeri rappresentano solo la qualità di qualcos'altro. Assurdo, tutto è una qualità dei numeri, questo è palese, è lampante, lo sentiamo sulla pelle, nelle ossa, non è qualcosa che possiamo scegliere. Voi venite da un altro universo, 112241, da un'altra realtà. Che ci facciamo qui, tra di voi, perché non siete come noi, che fine hanno fatto tutti i nostri simili? Il nostro 1 dovrebbe essere molto più numeroso di 2. A volte penso come sarebbe senza mio fratello e mi spavento, sarei completamente solo su un pianeta alieno. Questo sentimento è 4637684, un numero dal sapore disgustoso. 7794509 invece è morbido e ha un buon profumo, potrei accarezzarlo per ore.

Il dottore vuole il numero delle cose, vuole entrare in sintonia, scambiare dei numeri con noi. Non ci riesce, non è neppure capace di vedere il numero dei piselli che ha nel piatto. Noi vediamo 253, 11 e 23, acqua e calore, e diciamo 253 ma non è il numero dei piselli. Piselli è 53051. I piselli nel piatto ci stanno dicendo 253, acqua tiepida, è un numero piacevole. Il dottore ne toglie una manciata, toglie 16, un numero pericoloso, e adesso i piselli dicono 237, e noi diciamo al dottore 237, e lui è contento, noi non lo saremmo se qualcuno ci dicesse 237.

(Ispirato al caso dei gemelli John e Michael, pazienti del neurologo Oliver Sacks)


giovedì 17 giugno 2010

Famiglia

C'era una volta un paese come tutti gli altri, normalissimo. C'erano botteghe, scuole, uffici, era un paese di gente molto laboriosa. Le persone di questo paese erano così contente di lavorare che tutto il resto gli sembrava una perdita di tempo. Non si lavavano, mangiavano cose già pronte direttamente dalla scatola di plastica, non parlavano fra di loro se non di cose riguardanti ognuno il proprio lavoro. Lavoravano anche senza essere pagati, tanto gli piaceva avere un lavoro. A chi diceva loro “Buongiorno, come stai?” Rispondevano “Bene, lavoro moltissimo.”

Stavano svegli anche di notte a lavorare. Quando erano obbligati a smettere di lavorare per qualche giorno a causa di tosse e raffreddore, stavano più male per il fatto di non poter lavorare che per la febbre. Per farsi i complimenti non si dicevano cose come 'sei molto gentile', 'sei molto intelligente', dicevano 'il tuo lavoro è bellissimo' o 'sei bravo a fare il tuo lavoro'. Tutto quello che obbligava gli abitanti del villaggio a smettere per un poco di lavorare era vissuto con tristezza, con dolore. Perché devo giocare quando potrei lavorare? Perché devo andare a fare una passeggiata quando potrei lavorare?

In quel villaggio erano tutti famosi, anche se solo tra di loro. Il grandissimo pasticciere Frank, nessuno sa fare torte come le fa lui. Il fenomenale comico John, le sue barzellette sono opere d'arte. Si scambiavano autografi, si davano gran pacche sulle spalle, tutti erano felici di essere invidiati da tutti e di invidiare tutti. Erano tutti esperti e molto competenti nel loro lavoro, ma erano poveri perché a loro non importavano i soldi. Il problema dei soldi era il lavoro del capo del villaggio, che pagava tutti i conti e procurava alla gente tutto quello di cui aveva bisogno per sopravvivere e lavorare. A un certo punto cominciarono a diventare molto magri o molto grassi. Quelli che facevano lavori faticosi non mangiavano abbastanza e quelli che facevano lavori sedentari non si muovevano abbastanza.

Lo so cosa state pensando. E i bambini, c'erano i bambini? Cosa facevano i bambini? I bambini passavano tutta la loro infanzia con persone che si occupavano dei bambini perché questo era il loro lavoro. Da grandi potevano scegliere di innamorarsi del lavoro come tutti gli altri o scappare via dal villaggio. Un bel giorno uno dei figli del capo disse che non era giusto, che c'era qualcosa che non andava. Il capo rise, disse “Diventerai un politico di professione, o un giornalista, hai deciso che lavoro farai da grande?” Il bambino rispose “Sì, metterò su famiglia.” Il capo rise ancora, “Erano secoli che non sentivo quella parola, diventerai un professore di storia.” Il bambino rimase zitto, ma dentro di sé aveva già progettato la fuga perché aveva sentito dire che oltre il bosco, oltre i confini del villaggio, c'erano posti dove la famiglia non era una curiosità storica.

La domenica successiva gli abitanti del villaggio si alzarono per andare al lavoro. Lavoravano anche la domenica, lavoravano sempre, non erano previsti giorni di riposo. Si alzarono e scoprirono che non c'era più neanche un bambino nel villaggio. I più disperati furono coloro che per lavoro si occupavano dei bambini, gli altri rimasero un po' stupiti ma si sbrigarono a prepararsi per non far tardi al lavoro. Alcuni pensarono 'Beh, se poi spariscono tanto vale che non ne nascano altri', erano così presi dal lavoro che si erano scordati di essere stati anche loro bambini una volta. Così nel villaggio non nacquero più bambini, quelli che c'erano erano scappati tutti e il villaggio scomparve.

Sono rimaste solo delle rovine e i bambini che scapparono dal villaggio hanno messo su famiglia e portano in quel luogo i loro figli per mostrargli cosa succede quando dimentichi di esser stato bambino e ti lasci incantare dalla magia che è stata capace di distruggere un intero villaggio senza bisogno di usare la forza, premendo semplicemente bottoni nascosti nel cuore e nella testa delle persone. “Se non fai il bravo ti mando a vivere in un villaggio come questo”, dicono i genitori ai loro figli e non c'è neanche un bambino che non venga percorso dai brividi, che abbia il coraggio di rispondere “Ci andrei volentieri.”

martedì 15 giugno 2010

Alla scuola dei preti (4*N)

Alla scuola dei preti ci si confessava, si partecipava alla messa. Ho smesso di confessarmi nella scuola dei preti quando non ho ricevuto l'assoluzione. Il prete era pelato, stava seduto ingobbito, aveva la fronte lucida di sudore, aveva gli occhiali così sporchi da far pensare alla cataratta, dalla sua bocca usciva un forte odore di vino. Aveva il naso grosso e rosso e gonfio come se qualcuno non avesse fatto altro che svegliarlo con un pugno sul naso ogni benedetta mattina della sua vita. E aveva l'espressione di uno preso a pugni sul naso da una vita intera. Gli dissi che non vedevo più Gesù. Gli dissi padre, mi perdoni, non vedo più Gesù. Lui parve rianimarsi, cercare di vedere bene al di là di quelle lenti luride. Finalmente ho trovato qualcuno così marcio da avere il coraggio di prendermi in giro, non lo disse ma erano le parole nel fumetto della sua espressione.

La colpa è di due professori, il saggio S e la sensuale C, sono loro che mi hanno introdotto al vizio della lettura e della scrittura. Il saggio S con la sua mania per il jazz mi ha passato dei libri. Mi ha passato i nomi dei jazzisti. Me li ha passati come si lasciano cadere gli spiccioli nel bicchiere di carta di un mendicante, mi ha fatto sentire come un parassita senza il pizzico di orgoglio che basta a rifiutare aiuti gratuiti. E io che pensavo fosse un gesto cortese, una proposta di armistizio, perfino un attestato di simpatia. Era elemosina, era pietà. Meno di zero, il primo, me ne consigliò la lettura, non era così sicuro che la mia fosse solo finzione, che facessi finta di essere cieco e storpio, ubriaco e disteso sul marciapiede fra escrementi di cane. Lo comprai e lo lessi. Imitai lo stile per scrivere a penna, su un quaderno, 'C'è un verme nella mia mela'. Lo diedi da leggere alla sensuale C, nonostante fosse pieno di parolacce, di scene erotiche, di droga e cinismo e profonda disperazione. Me lo restituì senza dire niente a parte “C'è qualcosa di vero qua dentro?” col tono di chi se lo chiede sul serio, di chi è turbato all'idea di essersi nutrito di plastica.

Non lo vedo più da nessuna parte, se n'è andato. Il prete ha cominciato uno stupido interrogatorio sul come, sul dove, sul perché. Gesù, fottuto di un prete mezzo sordo, mi ascolti quando parlo? Non ho detto fottuto al prete, ho detto padre, Gesù che cammina per le strade, Gesù che mi parla, Gesù che fa parte del mio mondo sia dentro che fuori, non c'è più, capisce padre, non lo vedo più, se n'è andato. E lui a chiedermi se intendo vederlo davvero, con gli occhi, a chiedermi esattamente dov'è che lo vedevo. Quella orribile puzza di vino che mi provocava la nausea, il fastidio alle ginocchia che diventava pian piano dolore. Ma soprattutto gli occhiali, non riuscivo a sopportare le ditate di unto, i frammenti polverosi. Padre, anni fa, da bambino, percepivo Gesù come una presenza, ero pieno di entusiasmo per Gesù, lo vedevo in ogni cosa, in ogni persona, in ogni frangente, mi faceva compagnia l'idea che ci fosse Gesù in giro. Adesso non lo vedo più, padre, riesce a capire di cosa sto parlando? Lui che dondola un po', si ritrae - grazie, allontana insieme a te il fetore che ti esce dalle fauci – e dice esci. Lo dice schifato, lo dice inorridito, lo dice impaurito. Esci, ripete, esci, a voce sempre più alta e più decisa.

Il saggio S inizia a passarmi libri sottobanco, di nascosto. Mi passa un libro che parla di un musicista ubriacone che va a morire in Messico. Mi passa un libro che parla di una newyorkese ricca che vive in un bell'appartamento con vista sull'Hudson e alla fine si scopre che è un fantasma. Poi non mi passa più niente, forse è una cosa sbagliata, forse ha messo a rischio la sua reputazione stringendo un legame con un alunno al di fuori dei suoi doveri prettamente scolastici. Ormai ero assuefatto, non avrei mai pensato che la lettura può causare crisi di astinenza, addirittura overdose se non si fa attenzione agli eccessi. Ho reincontrato il saggio S sul tram, a Milano, mi ha chiesto cosa fai e io ho sbagliato risposta, al posto di dire frequento l'università, la Bocconi, qui dietro, ho risposto scrivo delle cose. Non ha fatto tanto d'occhi, è rimasto indifferente, ha detto anch'io scrivo, cose per la scolastica, in questo momento un testo di geografia, e tu su cosa stai lavorando? Su niente, avrei dovuto rispondere, perché non scrivevo più, avevo smesso come si smette di fumare, con il senso di colpa della voglia di accendersi la sigaretta sapendo che è sbagliato, che fa male. Ho detto su una cosa, e lui ha capito che mentivo, ho cambiato argomento perché avevo l'impressione che entrambi stessimo per scoppiare in lacrime silenziose. Ha scritto il suo numero di telefono su un biglietto del tram usato, ha detto magari qualche volta ci vediamo, ho detto ma certo, sicuro, e il biglietto l'ho perso quasi subito o l'ho buttato, non ricordo.

Non capivo se faceva sul serio, mi veniva da ridere e questo lo fece arrabbiare di più. Esci, esci di qua, subito! Niente assoluzione, niente penitenza? No, vai da un altro prete, io non posso dartela. L'ho guardato ben bene prima di alzarmi e uscire. Ho guardato i peli che gli uscivano dalle orecchie, ho guardato i segni di acne sulle guance, gli ho guardato la punta degli incisivi nella fessura dischiusa delle labbra sottili, ho guardato il tentativo di riporto sulla pelle sottile e tirata del cranio, ho guardato le lenti cercando di scorgere gli occhi, di trovare un indizio di follia dentro quell'uomo. L'ho visto diventare trasparente, l'ho visto diventare piccolo, l'ho visto andare via là dove è andato il Gesù che una volta incontravo dappertutto. Ho detto va bene. Sono andato da un altro prete e ho ricevuto l'assoluzione. Ho confessato cose come parolacce, bugie, cazzate insomma. Mi ha chiesto se mi masturbavo e ho detto no, son cose private, fatti i cazzi tuoi. Ok, non l'ho detto, ma ho recitato molte preghiere in più per penitenza quindi siamo pari.

mercoledì 9 giugno 2010

Kong è il nome che mi avete dato.

Da qui posso vedere lontano. È una delle tante cose che ci divide, il bisogno di salire in alto per guardare lontano. È il fattore più importante, la causa di tutta l'incomprensione, la fonte di quello che mi piace chiamare destino, una serie di scelte obbligate. Impossibile per me ignorare, schivare l'impulso, sarebbe come rinunciare a bere fingendo che la sete sia solo frutto di immaginazione. Non riesco a ingannare me stesso, non posso, non sono come voi, non mi è data la capacità di rifiutare per calcolo, anche se questo significa agire contro il mio interesse, andare incontro alla fine.

Voi avete paura di me, io di voi neanche un po'. I vostri proiettili, le vostre punte, i vostri aggeggi meccanici che si tengono a distanza, nell'attesa che sgorghi il panico nel mio sguardo per trovare il coraggio di attaccare. O la ferocia di un ringhio di sfida per pensare che me lo merito, che sono troppo feroce, pericoloso, incontrollabile. Volete che mi batta i pugni sul petto e io vi accontento. Sono solo stanco, di una stanchezza che affonda le radici in luoghi dell'anima che non potete raggiungere. Non provate il bisogno di guardare lontano, di stare semplicemente seduti a guardare, senza fare niente.

È così che stavo col branco il giorno in cui notammo dei puntini nel mare e quei puntini eravate voi. Nessuno poteva supporre in quel momento che esseri così piccoli stavano arrivando a distruggere, uccidere. Senza motivo se non la paura, la necessità di eliminare tutto ciò che potrebbe rappresentare potenzialmente un problema. Eventuali problemi futuri, ecco come ragionate, è l'unico modo che avete di guardare lontano. Ecco perché sono salito quassù, non perché sono spaventato, non perché cerco di fuggire. Sono qui perché so quando giunge il momento giusto per chiudere, quando continuare sarebbe solo sopravvivere, vendere se stessi in cambio di un'esistenza vuota e miserabile.

Non vi limitate a vendere la vostra vita, vendete anche tutto il resto, il mondo intero. Volete angoli dove trovate curve, spianate ogni sporgenza, riempite tutte le buche. Vi spaventano le spirali, le ramificazioni. Ogni cosa dev'essere pulita, liscia, resa misurabile dai grezzi strumenti che adoperate per far entrare l'universo nell'angusto spazio del vostro raziocinio. Dite che sono io quello a cui manca qualcosa, l'umanità, quando siete voi i mutilati, che avete strappato dalla vostra mente, dal nucleo delle vostre essenze, stelle e pianeti di consapevolezza fondamentali. La chiamate umanità e la vedete come un traguardo, per me è strapparsi un occhio e vantarsi di aver perso la percezione visiva della profondità.

Siete arrivati e subito avete iniziato a tagliare, modellare, accumulare. Il puzzo dei vostri fuochi sempre accesi era qualcosa a cui non eravamo abituati e mai ci saremmo abituati. Anche qui, adesso, la puzza di fumo è insopportabile. Ho raggiunto il punto più alto della vostra città e ancora non basta. Volerei via, se potessi. Vorrei impadronirmi delle vostre conoscenze solo per un istante, il tempo che mi serve per usare uno dei vostri aerei e fuggire lontano. Non è paura la mia, è totale rifiuto, è orrore. Forza, azionate le vostre armi e facciamola finita, vi sto aspettando, non posso suicidarmi buttandomi di sotto, è un'altra conseguenza del non essere come voi, del non voler accettare i compromessi dell'umanità. Non diventerò mai umano, quello che vi sembra di vedere in me, nell'espressione, nell'umidità dei miei occhi, non è un briciolo di umanità immatura. Siete voi che avete una frazione di ciò che sono io in totale e lo chiamate umanità scambiandolo per un intero.

Quanto ci avete messo a distruggere il branco? Un mese, forse due. Uscivate in fila dalla vostra fortezza e la caccia aveva inizio, giorno dopo giorno. Molti di noi sono stati uccisi nel sonno. Avvelenati, catturati e massacrati lentamente. Voi ci mangiavate. Usavate parti del nostro corpo come ornamento. Sono nauseato dall'odore del sangue e mi avete costretto a immergerci le mani, a sentirne il sapore. Lo ammetto, vi odio. Devo ringraziare questo sentimento se sono ancora vivo. Tutti gli altri non hanno mai imparato a odiarvi, pensavano che a guidarvi fosse una legge naturale, che non foste malvagi. Ecco cosa siete riusciti a insegnarmi: l'odio. Ecco dove mi ha portato imparare qualcosa da voi, in cima a un grattacielo per abbracciare con sollievo la sconfitta. Perché alla fine dovete sempre vincere voi, ci ho messo tutta la vita a capirlo. Avrei dovuto lasciarmi uccidere insieme al resto del branco, almeno le mie ossa riposerebbero con le loro. Mi mangerete come avete fatto con gli altri? Dove butterete le mie ossa dopo avermi mangiato?

Anch'io volevo insegnarvi qualcosa. I vostri sacrifici per placare la mia rabbia mi avevano indotto a credere che avevate capito, che avreste smesso, che sareste cambiati. Trovare uno di voi legato fuori dal villaggio ogni plenilunio era un conforto per me. Fino a quando avessi trovato la vittima designata sarei stato al sicuro, non dovevo più temervi. Pensavo avessimo patteggiato una tregua perenne, un armistizio senza fine. Non riesco a spiegarmi cosa mi abbia sempre trattenuto dall'irrompere nel villaggio per eliminarvi tutti, fino all'ultimo. Anzi, lo so. Sarei rimasto solo, circondato dalle ossa di quello che era il mio branco. Non avrei più avuto modo di scaricare il dolore nel tentativo di restituirvelo. Non avrei mai più avuto voglia di salire in alto e guardare lontano.

La ragazza ha di nuovo perso i sensi. Non fa che gridare quando è sveglia. È terrorizzata più da me, che non le ho fatto alcun male, che dai vostri proiettili. Avete di nuovo iniziato a sparare, vorrei che fosse più veloce, voglio che finisca prima di sentirmi spinto a scendere da qui e farvi a pezzi, voi e le vostre cose. Fate presto, almeno questo favore concedetemelo. La ragazza non ha idea di quello che provo per lei. L'ho riempita di significato, la guardo e mi convinco che lei è il branco che mi faceva sentire parte di qualcosa, che lei è ciò che provo guardando lontano in compagnia di qualcuno identico a me. So che è illusione, ma voglio morire accanto a qualcosa che mi fa sentire bene, faccio finta che non sia solo umana ma qualcosa di più. Preferisco quando è svenuta, sentirla gridare mi impedisce la concentrazione, mi innervosisce.

Sono pronto. Avanti, metteteci più impegno. Cosa devo fare per convincervi? Prendere al volo uno dei vostri giocattoli e scagliarlo lontano? Così va meglio? Vi sentite più motivati adesso? La ragazza l'ho messa giù, non rischiate di colpirla. Non sento più dolore, non sento più niente. Ho solo voglia di ritrovarmi seduto col mio branco, al tramonto, con la certezza che non mi accadrà mai la disgrazia di incontrarvi. La mia colpa non è quella di non essere diventato umano, ma di esserlo diventato troppo. Contagiato dal vostro esempio ho portato all'estremo la vostra natura per mostrarvi un paesaggio lontano. La mia colpa è di non essere riuscito a contagiarvi a mia volta, di aver continuato a credere in qualcosa che avete perduto in modo totale e definitivo. La mia colpa è la speranza di aiutarvi a ritrovare voi stessi quando in realtà cerco solo di non perdere me stesso.

Ora l'ho capito, non ho più voglia di combattere, non ho più scopo. Mi aggrappo per morire qui dove sono, in alto, dove posso guardare lontano. Non sopporto l'idea di cadere ancora vivo, di morire in terra, laggiù, dove voi siete a vostro agio tra spigoli e fumo. La mia paura è che la caduta mi dia l'opportunità di darvi ragione, di scoprire d'aver lasciato in cima al grattacielo tutto ciò che non mi rende umano. Sento di essere arrivato a un passo dal dimenticare il significato delle cose. Mi avete tolto le forze poco a poco, facendomi restare solo, strappandomi dalla mia terra, tenendomi soggiogato mediante il per me sempre traumatico e incomprensibile sacrificio dei vostri simili. Mi avete cambiato e questa è l'ultima opportunità che mi rimane per abbracciare la verità della mia vita. Continuate a sparare, per favore, non fermatevi adesso.

venerdì 4 giugno 2010

E i cammelli, c'erano i cammelli?

tta sotterranea e per uscire bisogna scendere lasciarsi travolgere dai flutti dal torrente dall'acqua luminosa d'azzurro ci sono dei faretti come nelle piscine è possibile siamo sottoterra non importa ci si butta si rischia di affogare una grotta dopo l'altra sempre più giù bagnati stanchi la certezza che sia fatica sprecata perché stiamo andando sempre più giù e tornare indietro è impossibile l'ansia non ce n'è di ansia è finita l'abbiamo usata tutta nelle prima cascate ci fanno male i muscoli anche le ossa può darsi che abbiamo dei graffi dei tagli da qualche parte c'è pieno di rocce e andiamo avanti non c'è altro da fare che andare avanti la paura anche la paura è finita non ci serve a niente ce ne siamo liberati per sentirci più leggeri la prudenza no quella c'è ancora dobbiamo arrivare vivi nella prossima grotta non possiamo arrenderci proprio adesso che potrebbe essere l'ultimo sforzo e infatti ci sono dei pesci adesso nell'acqua vorrà pur dire qualcosa ci sono altre forme di vita e c'è anche Ernesto che quando ero piccolo mi raccontava della legione straniera in realtà diceva solo sì ci sono stato in realtà non voleva parlarne non mi ha mai detto niente della legione straniera e io pensavo che facesse parte della cosa che quando entri nella legione straniera poi quando hai finito fai un giuramento per il quale non ne parlerai mai Ernesto c'era andato per una delusione amorosa Ernesto quando è tornato dalla legione straniera si è messo a fare il benzinaio si è sposato e ha fatto un figlio che aveva barattoli pieni di biglie li teneva in cantina aveva centinaia di biglie e siccome era ormai troppo grande per giocarci me ne ha regalato un barattolo pieno e mi ha anche insegnato a costruire un aeroplano di carta in grado di fare il giro della morte il tutto nei soli due giorni in cui ci siamo frequentati il primo giorno l'aeroplano e il secondo un barattolo pieno di biglie un vero tesoro alcune erano di marmo alcune erano biglioni alla fine del secondo giorno mi ha detto qualche volta andiamo a Bresso a guardare gli aerei veri ma non l'ho più visto non l'ho più sentito è sparito e ho pensato che anche lui era entrato nella legione straniera perché aveva l'aria triste aveva la faccia di uno che stava per scappare nella legione straniera Ernesto mangiava frutti di mare crudi a volte ci metteva una goccia di limone e faceva un rumore di risucchio goduto per convincermi a provare ma a me piaceva solo guardarlo mangiare frutti di mare crudi mi sembrava una cosa da legione straniera molto eroica molto esotica un giorno gli ho detto non è vero l'ho sfidato non è vero che sei stato nella legione straniera e lui è diventato molto serio e ha detto una frase in francese restando immobile a fissarmi fino a quando una macchina ha suonato il clacson e ha dovuto andare a farle il pieno e ne ho approfittato per scappare ho temuto per la mia vita non avevo idea della punizione prevista dal codice della legione straniera per chi mette in dubbio la tua parola Ernesto un giorno sono arrivati dei rapinatori e l'hanno chiuso nello sgabuzzino e lui c'è rimasto molto male perché avrebbe voluto reagire non lo so quando l'hanno liberato da quel giorno non riusciva più a guardarmi fisso non mangiava più i frutti di mare crudi era come un po' chinato in avanti come se gli facesse male la pancia come se qualcosa di rotto gli desse fastidio dentro un prurito dietro gli occhi o dietro il cuore che non puoi grattare e non vuoi che si sappia ma Ernesto nella grotta del mio sogno era tornato quello di una volta aveva trovato un riscatto era riuscito a grattarsi e se ne stava seduto a succhiare frutti di mare con addosso la divisa della legione straniera con tante biglie attorno e aerei di carta a fare giri della morte al posto dei pipistrelli mi sono tolto l'acqua dagli occhi col dorso delle mani e ho detto ma tu non eri morto non ti era venuto il crepacuore poco dopo aver seppellito tua moglie e lui ha riso ha detto certo che no sono tornato nella legione straniera e ha iniziato a raccontarmi cose segrete della legione straniera che erano proprio come me le ero sempre immaginate da piccolo ogni tanto mi allungava una patella un'ostrica una vongola un cannolicchio e mi diceva prova e io scuotevo la testa preferisco guardare te Ernesto che lo fai Ernesto sei proprio tu pensavo che eri morto spiegami meglio come funziona la legione straniera è vero che quando arriva una tempesta di sabbia ci si deve m

giovedì 3 giugno 2010

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (27 di N)

Quando c'hai un figlio servono tanti soldi. Non credere a chi ti dice che non è vero, mente. Se fai tanti figli e poi non hai abbastanza soldi non c'è una legge che i soldi che ti servono li stampano apposta per i tuoi figli. In altri tempi o altri luoghi forse è diverso, fai i figli e poi quello che sarà sarà, ma qui e ora se fai un figlio e non hai i soldi potrebbero sorgere grossi problemi. In teoria una persona responsabile e intelligente non dovrebbe avere figli se è povera, ma questo significa offendere mezzo mondo perché il paradosso è che i ricchi hanno pochi figli e i poveri tanti. Non è nemmeno vero che i ricchi sono tali perché intelligenti e responsabili. Forse i poveri hanno più tempo libero o sono più sentimentali, chi lo sa. Non c'è una logica, è futile cercarla. Le prove che è inutile credere a un mondo razionale sono infinite, ma niente e nessuno vieta di sperare nel futuro, per cui evitiamo di indossare un buffo cappello e uscire a ballare per le strade arrendendoci alla follia imperante.

Ad ogni modo il primo impatto col concetto di iterazione infinita per un bambino è traumatico. Specialmente quando è legato alla necessità di soldi. Ieri stavo andando in centro con mio figlio Elia, 5 anni a Luglio, e ho detto che dovevo prelevare dei soldi. Lui ha inchiodato i freni della bici, è sceso, si è tolto il casco e ha iniziato a frugarsi nelle tasche.

“Papa, hai detto che prendi dei soldi?”
“Prelevo, dal bancomat, sono in bolletta.”
“Ti servono dei soldi?”
“Come ci andiamo in piscina oggi senza soldi, paghi tu?”
“Sì! Io ho i soldi!”

Dalle tasche esce solo un fazzoletto di carta e un pupazzetto di Iron Man.

“Dove sono i tuoi soldi, non li vedo.”
“Forse mi sono dimenticato di comprarli.”
“Ah sì? E con cosa li compri i soldi?”

Silenzio. Occhi sbarrati. Garda il fazzoletto, guarda me, guarda il pupazzetto, guarda me.

“Con questi?”
“Fammi capire, vuoi comprare dei soldi pagandoli con un fazzolettino, usato per giunta?”
“Va beh, per stavolta allora usiamo i tuoi.”
“Anche perché tu di soldi non ne hai.”

Ci avviamo a piedi, la bici a spinta.

“Papa, dove li prendo i soldi?”
“Eh, non si prendono, si guadagnano.”
“Gadagna no?”
“Fai una cosa per prendere soldi. Si chiama lavoro, anche se in teoria la definizione a mio parere non è corretta o esaustiva né completa.”
“Eh? Cosa dici! Non capisco.”
“Lavoro, devi lavorare.”
“Bene, io voglio lavorare.”
“Non puoi, sei troppo piccolo.”
“Non sono troppo piccolo! Voglio lavorare!”

Sta gridando, alcune persone hanno sentito e mi stanno lanciando occhiatacce. Sfruttamento minorile, dicono le loro facce, biasimo e rimprovero e condanna per me. Sospiro.

“Va bene, vedrò cosa posso fare ma è un momentaccio, c'è la crisi.”
“Siamo d'accordo allora, io lavoro e tu mi dai i soldi.”
“No, al massimo posso insegnarti i fondamenti del trading. Ti apro un fido di dieci euro virtuali e vediamo quanto riesci a farli fruttare in un programma di simulazione.”
“Quindi posso avere adesso i miei soldi?”
“Quanto vuoi di anticipo per chiudere l'argomento e stare zitto per un po', ti bastano queste monete?”
“Mi danno il giornale dei power rangers con questi soldi?”
“Sì.”
“Mi piace lavorare. Quanto tempo manca alla piscina?”

martedì 1 giugno 2010

Icone moderne 002

Forse non tutti sanno che il campione più amato di tutti tempi ha cantato nel coro delle voci bianche di San Eustachia da Belfonte negli anni degli esordi. La sua capacità di tenere in equilibrio il pallone sul pene intonando alla perfezione un La bemolle gli ha garantito l'attenzione di cacciatori di teste e talent scout di fama mondiale, anzi di più, internazionale. Le prodezze che lo hanno reso celebre come nuova promessa del calcio, orgoglio nazionale, astro nascente della sfera di cuoio, definizioni che a stento riescono a contenere la grandezza del personaggio, proiettano questo giovane aitante, con quello sguardo da rincoglionito che fa impazzire le donne di tutte le età, un gladiatore moderno che sfoggia quadricipiti da copertina, testimonial di creme rilassanti per il pube e contrattori muscolari a voltaggio ridotto per le orecchie, l'esempio poliedrico di un successo più che meritato. Chi non conosce il nome di Guido Contromano deve vivere su un altro pianeta, non c'è altra spiegazione dal momento che è impossibile non notare le meravigliose gigantografie della sua nuca tatuata che decorano gli altrimenti depressi viali delle nostre flaccide cittadine piene di gente comune che non avrà mai occasione di andare in televisione nemmeno come comparsa. Sono montagne le lettere di ringraziamento e le proposte di matrimonio che ogni giorno vengono depositate all'ingresso della sua villa monumentale costruita come riproduzione dettagliata di una caverna paleolitica sudanese, l'aumento di cubatura è rientrato nel condono edilizio e coi soldi risparmiati grazie alla residenza monegasca e all'apertura di una ditta fittizia alle caiman, il nostro Guido può ora finalmente concedersi tutto quel che merita la maestosità della suo talento straordinario. Le fortunate ragazzine che ogni mattina vengono scelte personalmente da Guido per un approfondimento di conoscenza reciproco escono tutte col sorriso sul volto, spettinate, con la pupilla dilatata e il naso che cola, alcune volte con piccoli lividi dovuti alla foga descrittiva dei passaggi più delicati durante l'esposizione di una complessa materia calcistica, e un piccolo omaggio in gioielli e denaro per la cortese attenzione nei riguardi nel nostro acclamato campione. Il fatto che si circondi di pluripregiudicati non fa che confermare il suo animo nobile e altruista, sempre alla ricerca del modo di dare buon esempio a chi necessita di una guida spirituale per emergere dal pantano dell'anonimato. Chi meglio di Guido può fare da guida? Spregiudicato, anima inquieta, baluardo di saggezza per chi brama la scoperta del segreto di superiore umanità, la ricetta di una libera vocazione all'eccesso, non si può negare che Guido sappia assumersi le sue responsabilità di uomo e di padre di famiglia, o meglio di famiglie da quando il tribunale gli ha imposto il riconoscimento del quarto figlio naturale che ha voluto donare a noi tutti per mezzo di ragazze alla ricerca di un facile assegno di mantenimento. Come quando ha risarcito in contanti il ciclista investito dalla sua Lamborghini carta da zucchero, aggiungendo come mancia il modello di sedia a rotelle più costoso che ci sia sul mercato. Uomini come Guido sono pezzi unici, esemplari che nella storia non ce ne sono stati ne mai ce ne saranno di uguali. Con la firma del contratto di ieri, lo sponsor ridotto a migliori consigli e reso consapevole che non si può avere Guido per due soldi, potremo goderci tutta una nuova serie di spot che lo vedono protagonista di molteplici innovative campagne umanitarie, nonché di eventi il cui ricavato andrà, al netto di spese, compensi, diritti, tasse, mance, sottrazioni indebite, a favore della costruzione di nuovi canili per cani di razza maltrattati. Forza Guido, sei tutti noi, continua così, tieni alto il nostro nome.