martedì 27 ottobre 2009

Apologia dello scrivere

Non capisco quelli che si lamentano quando devono scrivere. Scrivere è facile. È un po' come parlare, ma più facile. Parlare significa dover sostenere una conversazione, magari con qualcuno che non ci è simpatico, che non reputiamo all'altezza, che usa una lingua straniera. Scrivere è più facile anche per motivi pratici: non puoi interrompere una conversazione per andare a berti un caffè, non puoi cancellare quello che hai detto, non puoi decidere unilateralmente che la discussione è durata abbastanza.

Quelli a cui non piace scrivere preferiscono dirti a voce il perché e già questo implica la loro convinzione che chiunque ama scrivere ama anche parlare anche se non viceversa. Partono da una superiorità morale nei confronti di chi scrive, per loro tu sei uno che per autolesionismo, superbia o chissà quale oscura motivazione, si esprime con mezzi innaturali e trova addirittura soddisfacente un'attività di palese masochismo come permettere alle parole di ledere la tua stessa privacy.

Quando parli ti può giudicare scemo solo chi ti ascolta e solo in quel momento. Se dici una castroneria puoi dichiarare di essere stato frainteso e tutta la questione resta avvolta dal fumo di ricordi indimostrabili. Se scrivi ti esponi e per rimangiarti i pensieri devi distruggere fisicamente le prove. Anche questo è un buon motivo per preferire gli scritti alle conversazioni, la gente potrebbe imparare ad ammettere gli errori quando è impossibile negarli, prendere le distanze da se stessi dimostrando di crescere, di evolversi. Diventa più facile andare d'accordo quando viene eliminata la possibilità di barare. Questa è una difficoltà reale per chi dice che scrivere è difficile. Posso capirla.

Se hai un vocabolario limitato e sei confuso sulle regole di grammatica e sintassi puoi condurre una vita lunga e felice limitandoti a parlare. Di solito, quando parli, alla gente interessa solo sapere il motivo per cui stai causando tanto disturbo al prossimo. Scrivere è più facile anche perché non ti devi preoccupare di rompere le scatole a qualcuno; se ti legge ha deciso per conto suo di farsele rompere. Non devi salutare, presentarti, dare la mano, fare commenti sul tempo, complimentarti. Devi solo esprimere quello che ti preme comunicare. Ecco perché quando sento dire che scrivere è difficile ho la tendenza a iniziare a parlare e andare avanti per ore, senza permettere all'interlocutore di interrompermi o di andarsene.

Se non sei capace di maneggiare lo strumento ti giustifico pienamente. Io per esempio non ho mai voluto imparare uno sport, né praticarlo né impararne le regole o la storia o il nome dei campioni. Però non dico che è fare sport è difficile o che quelli che lo fanno sono dei perditempo e mi sembrano un po' matti – anche se in realtà lo penso. Se pratichi uno sport nessuno ti guarda come se fosse sbarcato un alieno, se scrivi invece devi avere per forza qualcosa che non va. Il pregiudizio è minore per altre attività che implicano fatica mentale – d'accordo lo ammetto, scrivere può essere molto faticoso. Se scrivi poesie, aspiri a ottenere fotografie suggestive, ti dedichi alla matematica, sei molto meno inquietante di chi scrive, così, solo per raccontare cose che nessuno leggerà mai – di solito chi trova difficile scrivere trova difficile anche leggere, ma non è la norma.

Alcuni mi fanno sapere che è del tutto inutile. Fatica sprecata. Senza contare che quei pochi che leggeranno potrebbero sentirsi in imbarazzo incontrandoti per strada, come se ti avessero spiato mentre facevi la doccia. Parlano con te e intanto pensano a quello che hai scritto e si vergognano al tuo posto, pensando a come arrossiresti se ti dicessero di aver letto ciò che hai scritto. Un altro motivo per affermare che scrivere è facile: quando scopri che gli unici a doversi preoccupare di ciò che scrivi sono quelli che leggono.

Certo, puoi sempre incontrare qualcuno che ci tiene a farti sapere che gli piace oppure no, ma nella maggior parte dei casi è gente che lo dice solo per vedere come reagisci. È sufficiente riconoscere il loro ruolo di presenti sul luogo del misfatto che vogliono salire sul banco dei testimoni. Quando parli nessuno ti dice se quello che stai dicendo gli piace oppure no, al massimo ti danno ragione o torto. Non mi è mai capitato di sentire qualcuno complimentarsi o dichiararsi infastidito per l'eloquenza, la retorica, la scelta dell'argomento, la capacità di sintesi, il moderato ricorso alle divagazioni, lo stile oratorio dell'interlocutore. Quando scrivi tutte queste cose sembrano improvvisamente assumere un'importanza cruciale. Ebbene, non è così. È solo un modo per certe persone di vendicarsi delle matite rossa e blu che usava la maestra quando erano piccoli. Se hai paura delle critiche è meglio che ti chiudi in casa, stacchi il telefono e non esci più.

Ma io non ho niente di dire, mi si obietta, ho il terrore della pagina bianca. Sì, quella è l'unica difficoltà dello scrivere. Bisogna trovare la forza di cliccare sull'icona del programma di videoscrittura e mettersi a parlare con nessuno e allo stesso tempo con tutti quelli che potrebbero leggere. La mamma, il collega, il/la fidanzatino/a del liceo, il medico, gli insegnanti dei tuoi figli. Prima o poi saranno tutti morti, te compreso, che te ne frega? Si inizia così, con uno pseudonimo, così puoi guardare senza essere visto, il che può titillare una propensione inconscia al voyeurismo (chi è senza peccato...), se ti va bene smetti prima che sia troppo tardi, sennò entri nel tunnel con la scimmia dello scrivere sulla spalla. A quel punto scrivere non è più difficile, diventa sempre più facile, smettere di scrivere piuttosto sembra assurdo.

Ecco perché c'è così tanta gente che scrive e così poca che legge. La stessa ragione per cui c'è così tanta gente che parla e così poca che ascolta. Se scrivi per essere letto sei come quello che parla per essere ascoltato. Se tutti quelli che parlano lo facessero solo perché hanno davvero qualcosa di importante da dire il mondo sarebbe molto silenzioso. Se ti chiedono di smettere di scrivere replica chiedendo che smettano di parlare.

Posso lasciarti una cosa nella posta?

Ho paura dei testimoni di Geova. Sono gentili, sono amichevoli, sono inoffensivi. Mi fanno paura perché hanno una sensibilità forgiata in lega di cromo vanadio, i proiettili delle tue opinioni rimbalzano sulla corazza di convinzioni indistruttibili.

Nessuno li può fermare, nessuno li fermerà mai, vanno via ma torneranno e torneranno e torneranno. Si sente già dal modo in cui ti salutano, suona come una minaccia vellutata. Ti senti accarezzato dal boia, preso di mira dall'orco. Tutta quella sicurezza, quella calma, quel senso di amore gratuito che dilaga, copre, seppellisce. I testimoni di Geova mi rubano l'aria, mi tolgono i denti dalla bocca, mi svuotano lo sguardo, mi mettono seduto a sbavare davanti alla finestra in attesa di restare solo.

I testimoni di Geova non mi fanno solo paura, mi terrorizzano. Quelli che vengono da me hanno anche una bella voce. Quando suona il citofono a volte spero che siano i testimoni di Geova e provo un brivido di aspettativa, come davanti al poliziotto che ti viene a dire che qualcuno a cui tieni ha avuto un incidente. Le facce non posso dire niente sulle facce perché il videocitofono produce immagini sfocate, in bianco e nero, e inquadra solo pezzi di testa a caso. A volte un profilo della fronte, con un ciuffo di lunghi capelli lisci che copre la tempia.

Ho visto la bocca, anzi le bocche, da me vengono in coppia. C'è questa bocca principale che parla vicino al microfono ed è molto grande, molto dettagliata, ogni movimento delle labbra corrisponde ai suoni che emette e questo lo trovo confortante. Mi concentro sulla bocca e a volte immagino che i movimenti non corrispondano, che mentre ascolto il testimone di Geova scopro la persona imprigionata dentro che mi chiede aiuto, che muove le labbra in appelli senza suono. Ma non succede mai.

L'altra bocca si vede di rado, più spesso si vede un braccio che regge libretti, riviste, volantini. L'altra bocca rimane chiusa e il corpo dell'altra bocca rimane fermo anch'esso. In attesa. Come un predatore stanco che risparmia le forze scrutando l'orizzonte, calcolando le distanze. Mi chiedo di che colore siano i vestiti che indossa. Tinte pastello? Smorti blu e verdi? Nel videocitofono sono grigi, come la mani, come la fronte, come le labbra dell'enorme bocca in primo piano. Gli occhi non si vedono mai ed è una fortuna, non so se potrei sopportarli.

Mi piace ascoltare i testimoni di Geova che parlano nel citofono. Più mi fanno paura e più mi piace ascoltarli. Vorrei che mi telefonassero ogni tanto, sono così calmi, sembrano sereni. Felici direi, felici di quella felicità tranquilla che ti prende sui titoli di coda di un film a lieto fine. Non cercano di venderti niente, non ti chiedono di dedicare loro più tempo di quanto sei disposto a sprecare, spesso iniziano scusandosi per il disturbo.

E poi ti dicono subito il loro nome di battesimo. Questa è una cosa che mi fa molto paura. È come se uno sconosciuto al posto di tendere la mano ti saltasse addosso abbracciandoti forte. È come se ti dicessero so che sei circondato da persone che in realtà non ti vogliono bene, anch'io ero come te prima di imparare a sparare addosso al prossimo il mio nome di battesimo. I testimoni di Geova vanno in giro nudi, penso, e subito dopo mi dico di no, non esattamente, sono vestiti di certezze. Le conosco quelle certezze perché leggo avidamente le loro pubblicazioni.

Non mi chiedono mai di entrare, se lo facessero probabilmente caccerei un grido angosciato. Mi chiedono se ho letto quello che m'hanno lasciato la volta scorsa. Io dico sì, spaventato all'idea che non riuscirei a mentire ai testimoni di Geova nemmeno se lo volessi. Se mentissi quella bocca grigia e enorme non andrebbe più in sincrono coi suoni che emette, comincerei a fare degli incubi in cui la voce mi chiede se li ho letti mentre le labbra invece mimano accuse con smorfie rabbiose.

Li leggo soprattutto perché ho paura dei testimoni di Geova. Non so cosa accadrebbe se a quella domanda rispondessi no, li ho buttati ridendo nell'immondizia. Forse vedrei una lacrima scorrere sulla guancia nel videocitofono e mi verrebbe un infarto. Così io leggo i loro libretti, li leggo tutti, per intero, anche le righe in piccolo con i dati della tipografia che li ha stampati.

Le riviste dei testimoni di Geova sono molto interessanti. Insegnano come piegare la ragione al sostegno di tesi assurde. Insegnano come mischiare dimostrazioni pseudo logiche di tesi assurde a articoli di buon senso su problemi comuni. Metodi di gestione della rabbia e subito dopo affermazioni sulle verità del creazionismo. Consigli sull'approccio corretto a problemi adolescenziali e subito dopo spiegazioni sui motivi per cui l'antico testamento contiene precetti ancora attuali. Spesso cerco frasi emblematiche come potrebbe essere “Cosa farebbe Gesù?” ma non ne trovo. Ci sono anche i quiz, i giochi per bambini, le storie vere che diventano parabole di grande impatto morale.

Mentre leggo provo l'eccitazione di chi maneggia materiale radioattivo, di chi mette sotto il microscopio il vetrino che potrebbe dare una svolta alla scienza del comportamento umano, il domatore che mette la testa nella fauci della belva. La Bibbia contiene tutte le risposte. Non c'è bisogno di nient'altro per vivere, Dio ci ha fornito il manuale delle istruzioni.

I testimoni di Geova mi chiedono cosa ne penso, io sto sul vago. Faccio quello che non ha opinioni sue, che è affetto da una grave forma di lobotomia volontaria. Non voglio che se vadano, non voglio che smettano di tornare. Mi piace che una voce gentile venga periodicamente a dirmi il suo nome, come se gli importasse di me. Pensa se un giorno chiedesse il tuo di nome, mi dico, quella bocca enorme e grigia, quella voce così calda, e tremo, mi chiudo nelle spalle. Pensa se ti aspettasse fuori dal portone, sotto casa, e ti rincorresse mentre corri a perdifiato nel traffico, in preda al panico. Io ho paura dei testimoni di Geova.

martedì 20 ottobre 2009

Il bambino senza nome.

C'era una volta un bambino che non aveva un nome.

I suoi genitori non erano troppo poveri per potergliene comprare uno, anzi, volendo avrebbero potuto comprarne uno molto lungo, come ad esempio Asdrubale De Gianpatrizio o magari anche uno esotico come Michael-kevin-joshua.

Mamma e papà non erano nemmeno troppo pigri per sceglierlo, anzi, facevano sempre qualcosa di molto importante, dal momento in cui si svegliavano a quando andavano a dormire. Tante cose di impegnativo lavoro, discussioni infinite su complicati argomenti. Erano così indaffarati da non aver mai tempo sufficiente per fare tutto quello che volevano. “Com'è tardi”, dicevano spesso. Oppure: “Adesso proprio non posso, devo prima finire qua.”

Il fatto che non avesse un nome non era neanche una punizione per qualcosa che aveva o non aveva fatto. Il bambino senza nome era un bravo bambino, obbediente, gentile, non faceva i capricci, si comportava come si deve. E allora perché non aveva un nome, ti starai chiedendo. Io se non avessi un nome vorrei sapere il perché, tu no? Ma devi sapere che il bambino senza nome si era abituato a non avere un nome.

All'inizio era stato difficile capire se qualcuno lo stava chiamando perché senza un nome devi girarti ogni volta che senti dire “Ehi tu”, o magari solo “Bimbo!” o a belle parole come 'caro?', 'amore?', 'tesorino?'. Col tempo imparò a riconoscere le voci delle persone che conosceva e riusciva a evitare di girarsi quando a parlare era uno sconosciuto.

In fondo, pensava il bambino senza nome, non è così importante. Teneva un quaderno nel quale scriveva tutti i nomi che gli piacevano così che un giorno avrebbe potuto sceglierne uno per conto suo. E se si fosse stufato di quello avrebbe anche potuto cambiarlo. Ma come faceva, mi chiederai, quando qualcuno gli chiedeva come ti chiami? Non puoi certo rispondere che non hai un nome o che a te non l'hanno dato, giusto?

Il bambino senza nome aveva riflettuto molto su questo problema e aveva trovato una soluzione. Quando qualcuno glielo chiedeva lui rispondeva “A te come piacerebbe chiamarmi?” e scriveva su un altro quaderno il nome di chi glielo aveva chiesto di fianco al nome che quella persona aveva scelto. Così ora sapeva che la maestra preferiva chiamarlo Leonardo, la nonna Giuliano, il suo migliore amico Claudio invece aveva scelto X18. Anch'io ho scelto un nome per lui, lo chiamo Ulisse, ma tu sentiti pure libero di chiamarlo come vuoi.

Un giorno, era domenica, il bambino senza nome, per me Ulisse, era andato in gita con mamma e papà al museo naturale. La domenica era l'unico giorno della settimana in cui i suoi genitori avevano tempo per fare qualcosa e lo portavano con loro al cinema, al parco, in piscina, allo zoo. Gli chiedevano tante cose, hai fame, hai sete, hai caldo, hai freddo, ti diverti, non si poteva proprio dire che lo ignorassero. Si sedevano da qualche parte a parlare fra di loro e gli lanciavano dei sorrisi, “Vai a giocare, caro”, dicevano e stavano lì ad aspettarlo anche per ore.

Quella volta il museo era pieno di gente perché era arrivato un nuovo dinosauro che tutti volevano vedere. Mentre attraversavano la sala del paleozoico l'attenzione di Ulisse venne attirata da una bacheca piena di trilobiti. Era una vasca piena d'acqua con luci azzurre e bolle e ologrammi di trilobiti dalla lucida corazza che nuotavano muovendo le lunghe antenne, agitando le tante zampette, con i loro occhi di cristallo che lampeggiavano di rosso. Rimase affascinato a guardarli per diverso tempo e quando si ritenne soddisfatto si voltò e scoprì che mamma e papà non c'erano più.

C'era una foresta di gambe di adulti, un gran rumore di chiacchiere da adulti, tanto che dovette spingere un po' e ripetere “permesso”, “mi scusi”, “posso passare?” prima di raggiungere un uomo in divisa. Se ti perdi la prima cosa che devi fare è cercare una persona in divisa, gli aveva detto la maestra, e Ulisse tirò la giacca della guardia del museo.

“Non ti preoccupare”, gli disse la guardia, “Adesso diciamo il tuo nome nell'altoparlante e i tuoi genitori verranno subito a prenderti. Come ti chiami?”

Ulisse si rese conto che non aveva mai chiesto a mamma e papà. Non sapeva cosa dire. Tutti gli altri nomi non avrebbero significato niente per mamma e papà. Tirò fuori il quaderno e controllò la lista per sicurezza. No, c'erano decine di nomi ma non quello che serviva a farsi trovare da mamma e papà.

“Allora?”, disse la guardia, “Che succede, non te lo ricordi più per caso?”

Ricordare. Forse aveva ragione la guardia. Forse in passato c'era stato un momento in cui quel nome era stato usato. Ulisse chiuse gli occhi, si concentrò, andò all'indietro con la memoria, sfogliando i ricordi. Ecco, il giorno in cui siamo andati allo spettacolo delle marionette. No, lì il nome non c'era. Il primo giorno di scuola. Niente nome nemmeno lì. Ulisse diventò sempre più piccolo nella sua mente, e finalmente eccolo! Era un bambino molto piccolo, stava giocando con dei cubi colorati, mamma e papà erano seduti accanto e lui e lo chiamavano per nome!

“Aldo!” strillò, felice, “Mi chiamo Aldo!” Ulisse cominciò a saltare di gioia, si rivolgeva a chiunque lì intorno gridando “Aldo! Il mio nome è Aldo!”

Non è vero che non aveva un nome, si era solo dimenticato di averlo! Non lo sentiva dire da così tanto tempo che se l'era scordato!

Quando arrivarono mamma e papà furono così contenti di averlo ritrovato. Lo stavano cercando dappertutto, erano stati così preoccupati. Che sollievo vederlo lì sano e salvo. Lo abbracciarono forte.

“Aldo, ti voglio bene”, disse la mamma.

“Aldo, ti voglio bene”, disse il papà.

“Anch'io vi voglio bene”, rispose Aldo, “Però ho un favore da chiedervi.”

“Tutte queste cose che facciamo sono molto belle e interessanti”, disse Aldo, “So che il tempo è sempre poco ma possiamo ogni tanto semplicemente sederci insieme a giocare?”

“Ma è importante per un bambino fare esperienze nuove”, dissero in coro i suoi genitori, “Non possiamo tenerti sotto una campana di vetro.”

“Ah, va bene”, disse Aldo, “Allora è meglio che mi segni sul quaderno come mi chiamate, altrimenti la prossima volta potrebbe non venirmi in mente.”

Mamma e papà si guardarono per un po', con ara confusa, e finalmente capirono. Quello che era importante per loro non coincideva con quello che era importante per Aldo. Da quel giorno mamma e papà sacrificarono un po' di cose che erano importanti per gli adulti e trovarono il tempo di dedicarsi a cose da bambini.

Aldo gettò nella spazzatura i quaderni e non dimenticò mai più il suo nome.

lunedì 19 ottobre 2009

Nessuno è perfetto.

C'era una volta un papà ragno che si chiamava Mygalomorphae Ctenizidae ma siccome nessuno riusciva a pronunciare il suo nome tutti lo chiamavano Aracno.

Aracno aveva mille e duecento e trentotto figli e lavorava tantissimo per realizzare il suo sogno, costruire un robot.

“Papà”, gli chiedeva spesso qualcuno dei suoi figli, “A che ti serve un robot?”

Aracno sorrideva e rispondeva soltanto: “Lo vedrai!”

La moglie di Aracno, una bellissima fenicottera dalle piume rosa lucide e profumate, era molto preoccupata per la sua salute. “Caro”, gli diceva, “Hai la tua bella tana con la tua bella porta blindata dalla quale puoi entrare e uscire tutte le volte che vuoi, perché ti ostini a costruire un robot?”

Aracno sorrideva e rispondeva soltanto: “Lo vedrai!”

I giorni passavano e Aracno era sempre chiuso nella sua tana, tutto il giorno, a lavorare al suo robot. Nessuno aveva il permesso di entrare e da dietro la porta blindata si sentivano rumori di martelli, esplosioni, tuoni e fulmini. A volte Aracno tornava a casa la sera per cena tutto scarmigliato, con le sopracciglia bruciacchiate, la camicia piena di macchie d'olio. Però era contento, anche se si addormentava dimenticandosi di dare la buonanotte a qualcuno dei suoi mille e duecento e trentotto figli.

Un bel giorno Patrizia, la seicento e quattresima figlia di Aracno, stava aggiungendo bava di lumaca alla sua bella criniera di zebra quando vide arrivare suo padre.

“Buon-giorno, si-gno-rina.”

“Papà che ti succede, parli strano.”

Da dietro l'angolo spuntò il vero Aracno, tutto felice, e gridò: “Sorpresa! Ti presento il mio robot!”

Aracno andò a sedersi nella sua poltrona preferita, aprì il giornale e a chiunque andasse a cercarlo diceva “Andate a chiederlo al mio robot”. E così pian piano nessuno andò più a disturbarlo. Il robot faceva tutto e non sbagliava mai niente, non aveva nemmeno bisogno di dormire. All'inizio qualcuno dei suoi mille e duecento e trentotto figli era un po' spaventato ma col tempo tutti si abituarono e, anzi, scoprirono di essere molto contenti di avere un robot come padre.

Aracno finì di leggere il giornale, schiacciò un pisolino, fece una passeggiata e quando si sentì finalmente riposato andò a cercare sua moglie ma lei stava parlando col robot ricordandogli di prendere anche qualche bullone di riserva mentre andava a fare la spesa. Allora Aracno andò a cercare qualcuno dei suoi figli ma quando faceva qualche domanda i suoi bambini gli rispondevano di chiedere al robot, che sapeva rispondere a qualunque cosa.

“Che bello il tuo robot, papà”, dicevano tutti, “Sei stato molto bravo a costruirlo, è capace perfino di dire il tuo nome vero, quello complicato, ora siamo davvero felici.”

Per qualche giorno Aracno si godette la pace, la tranquillità. Ogni tanto chiamava il robot e gli chiedeva di pronunciare il suo nome complicato e quello lo faceva, senza sbagliare neanche una volta. Aracno era molto soddisfatto.

Ma la terza sera, Francesca, la sua figlia più piccola, si presentò col suo grillo pupazzo alla poltrona del padre e gli disse “Papà. Il tuo robot è molto bravo, ma scusa te lo devo proprio dire, c'è una cosa che non sa fare.”

Aracno si accigliò, “Impossibile! L'ho progettato alla perfezione!”

Francesca fece no con la testa, “C'è una cosa che proprio non sa fare, papà”

Aracno si arrabbiò. “Ah sì? E cosa sarebbe questa cosa? Avanti, sentiamo.”

Francesca si impaurì e disse “Niente, papà, hai ragione, è perfetto.”

Proprio in quel momento entrò il robot mulinando le braccia, molto agitato “È così tar-di, biso-gna anda-re a dor-mire.”

“Va bene”, rispose Francesca, “Ma adesso posso avere un abbraccio?”

Il robot girò su se stesso, gli lampeggiarono della lampadine, emise dei cigolii mentre saltellava sul posto. “Abbrac-cio, ab-braccio, cer-to, è molto tar-di, anda-re, dormi-re.”

Francesca guardò il suo vero papà con uno sguardo furbetto come a dirgli “Ecco! Visto?”

Aracno si alzò e diede un grande abbraccio affettuoso a Francesca, quindi premette il bottone che spegneva il robot e lo spinse nello sgabuzzino.

Quella notte Aracno non riuscì a dormire bene, continuava a pensare al robot. Domani quando vedranno che l'ho spento mi chiederanno di riaccenderlo. È molto più bravo di me, nessuno vorrà riavere il vecchio Aracno.

Così quando si alzò e andò in cucina per fare colazione era già pronto a obbedire nel caso gli avessero chiesto di riaccendere il robot. Ma quando mise zampa in cucina vide palloncini colorati, una grande torta sul tavolo e tutta la sua famiglia gridò: “Bentornato!”

Passò più di un'ora prima che tagliassero la torta perché Aracno dovette dare mille e duecento e trentotto abbracci prima di colazione.

martedì 13 ottobre 2009

Qui, anzi qui.

Ricordo ogni dettaglio del giorno in cui gli chiesero dove prendesse ispirazione. Ricordo le ombre proiettate dal sole, righe parallele sulle piastrelle vaniglia, righe scure che uscivano dalle gambe delle sedie. Ricordo il profumo dei fiori nei vasi sui davanzali, fiori dei quali il nome mi rimane ignoto. Ricordo il profilo del maestro, colpito dalla domanda, e il mare sullo sfondo. Ricordo una formica che ebbe il tempo di zampettare dal bordo del tavolo fino al portacenere. Il maestro stava immobile, il volto privo di espressione, la pipa nella mano sospesa, il gomito appoggiato sul bracciolo della sedia, le gambe accavallate. Ricordo la punta della penna dell'intervistatore sul taccuino, l'ombra della penna, un tremolio di inchiostro a schizzare ghirigori involontari. Trattenevo il fiato, avevo la netta sensazione che questo sarebbe diventato un ricordo, un senso di ineluttabilità, puoi anche chiudere gli occhi, pensai, ormai è troppo tardi. Quella sensazione familiare di resa, come in sogno, quando non puoi far nulla per impedire che accada e non c'è modo di svegliarsi. La terrazza, l'ombrellone a spicchi bianchi e rossi, la schiena curva della cameriera impegnata a raccogliere i resti della colazione a un tavolo d'angolo. Non c'era silenzio, no, anche se l'unico suono importante per me era l'eco immaginaria di quella semplice domanda. Ende ispirazione? Spirazione? Zione? One? Lo scampanio della basilica, il vociare dal mercato del pesce, gli striduli richiami delle rondini. Niente, non sentivo nient'altro che il perpetuarsi di quella domanda. Le zampe della formica mi rimbalzavano le sillabe, do-ve-pren-de-is-pi-ra-zio-ne. Avrei voluto alzarmi e andare a urlare contro la cameriera, chiedendole come potesse continuare a fare qualsiasi cosa, a urlarle in faccia come riuscisse anche solo a muoversi quando io non riuscivo nemmeno più a tirare un fiato. Il maestro si volse al sole e strizzò gli occhi, e potrei giurare che provasse dolore, quindi fece volteggiare una mano, roteava sul polso mentre il braccio copriva in arco l'intero paesaggio. “Qui”, disse. La penna scrisse 'qui' sul taccuino. “No, no, aspetti, ho sbagliato.”, il maestro picchiò il dito sul tavolo e “Qui”, disse. Le penna scivolò dalle dita, rotolò sul tavolo, cadde a terra. La cameriera si voltò, attirata dal tintinnio della penna che cadeva sulle piastrelle della terrazza, fermandosi in una riga d'ombra. “Non capisco”, disse il giovane, facendo un gesto alla cameriera che sopraggiungeva a rendersi utile, “Ci penso io, non stia a disturbarsi.” E senza interrompersi aggiunse “Una musa, qualcosa che assomigli a una spiegazione, non chiedo altro”, mentre si chinava a raccogliere la penna. Anch'io, anch'io, gridavo in silenzio, anch'io lo voglio sapere, e mi facevo piccolo piccolo, quasi in preghiera. Il maestro annuì, accese di nuovo la pipa, sbuffò sospirò, estrasse la pistola, se la portò alla tempia e premette il grilletto. Il giovane si buttò a terra con le mani sulla faccia, la cameriera strillò, io ricordai mio nonno che mi faceva ballare sulle ginocchia e rideva, con quella sua barba grigia e ispida e le vene in risalto sul dorso della mani callose. Non ci fu alcuno sparo, il maestro si alzò e se ne andò, senza nemmeno salutare.

lunedì 12 ottobre 2009

Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (15 di N)

Quando c'hai un figlio devi mettere in conto di fare cose che non facevi da una vita. Una di queste è il circo. Ricordo di esserci andato una sola volta al circo, da piccolo, e di aver pianto di paura quando il clown si è avvicinato troppo e mi ha guardato negli occhi. Dicono che bisogna affrontare le proprie paure: ieri ho preso per mano mio figlio e, confortato dalla sua presenza, ho preso il coraggio a due mani e ci sono tornato.

Al circo vai sotto un tendone e guardi cosa succede senza uno straccio di vetro che ti protegga da quello che vedi. Sei in balia degli eventi. È la televisione del futuro, dove non solo vedi lo spettacolo ma ti sembra proprio di essere lì fisicamente.

L'esperimento consisteva nello stabilire quanto di genetico c'è nelle nostre fobie. Per questo continuavo a osservare le reazioni di mio figlio. Per non influenzare il risultato ho dissimulato con tutte le mie forze la mia pulsione a fuggire urlando dal quel luogo infestato dallo spettro di un divertimento morto e sepolto da decenni.

Lui si divertiva, rideva, rispondeva agli inviti a cantare, urlare, applaudire. Intanto io scansavo gli attacchi di empatia, cercando di non immedesimarmi, di non indossare i panni dell'equilibrista in bicicletta sul filo, del trasformista messicano, del domatore di cani, della giocoliera che fa ruotare tappetini sulla punta degli alluci. Ma andiamo per gradi.

All'ingresso ci sono animali di plastica scolorita. Alla tigre manca un occhio. Il ghepardo ha l'espressione di chi sta pisciando fuori un calcolo. Il gorilla sembra aspettare il verde al semaforo. L'elefante, oh, l'elefante, “il rullo compressore della giungla!” definirà in seguito il domatore facendo entrare in pista quello vero, di elefante, che andrà a sedersi su uno sgabello per ricevere una zolletta premio, l'elefante, non l'ho visto bene, ero concentrato sui bulloni e le cinghie che tenevano fissate al carrello le zampe scheggiate, le unghie enormi dipinte di rosa.

“Compriamo gli animali finti papa!”, esclama, “Io prendo il leopardo.”

“Sì, buona idea, magari più tardi.”

“Adoro il leopardo.”

“Il ghepardo, è un ghepardo.”

“No papa, è un leopardo”, dice no anche con il dito indice, “Il leopardo è bello, mangia l'erbetta.”

“È vegetariano.”

“Vegetano, sì papa, come preferisci, tu prendi l'elefante invece, eh? Ti va bene?”

I biglietti che costano meno, 25 euro, si chiamano poltrona e sono una seggiolina di plastica che era blu e col tempo è diventata celeste. Poi c'è la poltronissima ed è una seggiolina gialla che però è al centro dell'emicerchio, di fronte alla pista. Infine c'è il palco reale, seggiole di plastica a ridosso della pista, come unica protezione un foglio di compensato. Non fanno firmare una liberatoria che li solleva da ogni responsabilità, mi chiedo se non serva perché è sicuro o se non serva perché il loro legale fa il clown di secondo lavoro. Forse sono clausole scritte in piccolo, che stupido a non averci pensato, ma quando guardo meglio sul biglietto non c'è scritto niente, non c'è scritto neanche circo, c'è scritto “motor show” e ho la sensazione che questo spieghi tutto.

Se non ci fosse un figlio in questo posto tu non ci metteresti piede neanche se ti puntassero un fucile alla schiena. Se, se, se, scordati i se, quando c'hai un figlio indagare i se è autolesionismo. Elia è felice, un po' spaesato all'inizio, un po' preoccupato anche, ma poi arriva il clown e quanto ride, quanto si diverte. Il clown inciampa, il clown capisce tutto al contrario, il clown possiede una capacità inesauribile di ripetere gli stessi errori ancora e ancora, fino a quando non vieni sopraffatto dalle risate, devi tenerti la pancia e ti schizzano lacrime dagli occhi. Anch'io rido, non riesco a immaginare niente di più terribile che fare il clown davanti a qualcuno che non ride, e quindi mi sforzo di ridere quando mi sembra che stia guardando dalla mia parte.

Elia canta, ride, applaude, si stupisce, si entusiasma. Non con tutto però, evidentemente anche per i bambini c'è un limite. Alcune performance meriterebbero un libro intero e ancora non si potrebbe descriverle a fondo. Le finte majorettes col cilindro in testa che non sanno roteare il bastone, servono solo a riempire un paio di minuti di tempo morto. Gli acrobati che fingono di litigare fra di loro. A un certo punto entra uno struzzo col farfallino al collo e mi sento così straniato da temere un'esperienza extracorporea.

Approfitto della pausa tra il primo e il secondo tempo per uscire. “Da questa parte potete rinfrescarvi al bar con bibite e pop corn, alla mia sinistra invece, due euro per tutti, potete visitare il più grande zoo itinerante del mondo, con la rarissima tigre bianca!”

“Sei contento? Ti è piaciuto il circo?”

“Siiiiiiiiiiiiiiì!”

“Cosa ti è piaciuto di più?”

“Gli animali finti.”

“Non erano finti, hai visto lo struzzo?”

“L'ostruzzo? Sì, anche il cammello”, si ferma, mi guarda, “Il cammello ha due gobbe, il dromedario una sola, lo sapevi papa?”

“Se non lo sapevo ora grazie a te lo so.”

“Va bene, prego, non c'è di che. È finito il circo?”

“Non ancora, ma direi che potremmo andarcene adesso.”

“D'accordo, ma prima compriamo gli animali finti. Tu prendi l'elefante e io il leopardo.”

Non sono stati soldi buttati, penso, il circo, penso, ne valeva la pena, penso, mentre Elia mi trascina verso l'uscita, impaziente di lasciarsi tutto alle spalle.

domenica 11 ottobre 2009

Basta che funzioni.

Boris, il protagonista, si reputa un uomo dalle larghe vedute e si compiace di regalare al mondo briciole di saggezza. Anziano, zoppo, un matrimonio e un suicidio falliti alle spalle, un premio Nobel per la fisica mai ottenuto, ipocondriaco, narcisista, schizoide, ansioso, cinico, depresso e chi più ne ha più ne metta.

Woody Allen ambienta la storia, anche stavolta, a New York. La città diventa metafora dell'Eden in negativo: una metropoli che rende libero chi vi entra grazie alla particolarità che qua, a differenza delle piccole realtà sociali di provincia, nessuno fa caso alle devianze, alle diversità, all'anticonformismo. Anzi, vengono apprezzate, riconosciute del diritto ad esistere, incoraggiate.

Viene ribaltato il classico richiamo ai valori forti del film americano di genere. In questo film niente ha importanza; famiglia, educazione, credenze, non c'è tabù in grado di sopravvivere come tale nella grande mela di Boris. Se arrivi da qualche altra città sei bigotto, fascista, ignorante, razzista, antiabortista, fanatico delle armi, baciapile, “zombie” coatto o “vermetto” stupido dalla mentalità ristretta.

Arriva proprio da un paesino del Mississippi la co-protagonista, una ragazza che incarna alla perfezione lo stereotipo del provinciale buzzurro. E con lei arrivano, in seguito, sua madre e suo padre.

Ci vengono in mente tanti film ambientati nella provincia americana e non sappiamo più a chi credere: è davvero New York un'isola circondata da mentecatti o è il punto di vista di un newyorkese nostalgico della (mancata?) rivoluzione culturale degli anni sessanta a cui piace crederlo? Probabilmente né una né l'altra, piuttosto una via di mezzo che viene estremizzata per dare più spessore al desiderio della sceneggiatura di distinguersi da quello che può ben dirsi un canone narrativo, e di creare almeno quel minimo di scandalo che spesso un artista richiede a se stesso.

A parte questa considerazione estemporanea, il film analizza l'impatto di Boris su questa famiglia del profondo sud. La ragazza lo sposa per poter dire di aver sposato un genio e lo lascia per un attorucolo che sostiene la validità dell'amore eterno al primo sguardo. La madre della ragazza si trasforma in una artista della fotografia e dà sfogo a tendenze ninfomani. Il padre può finalmente abbracciare la sua troppo a lungo repressa carriera di omosessuale.

Boris ottiene tutto questo senza sforzo, gli basta insultare senza riguardo, focalizzarsi sulle proprie esigenze, esprimere disprezzo, elaborare teorie sul perché l'universo sia violento, assurdo e permeato di indifferenza, dimostrare che qualsiasi persona, presa per il verso giusto, rivela la sua vera natura di animale inerme e annichilito dal terrore.

La sua filosofia si riassume nella frase “Basta che funzioni”, ovvero non c'è modo di far andare bene le cose, è già tanto che funzionino. Almeno per un po', dato che in ogni caso smetteranno di funzionare ben presto. Il motto della rassegnazione, di un senso di fallimento per tutto ciò che non va secondo i nostri desideri, di un prendersi la responsabilità del mancato realizzarsi dei nostri sogni, che si esprimono in un secondo tentativo di suicidio del protagonista.

Un film che, in un modo o nell'altro, riesce a far riflettere. Da una parte abbiamo la critica verso tutti i valori tradizionali, dipinti più come una moda provinciale che uno stile di vita, una forzatura al conformismo che impedisce l'innocua espressione della devianze. Dall'altra parte abbiamo un uomo che non vuole avere più niente da perdere e suo malgrado si ritrova ad avere ancora e sempre qualcosa di nuovo da perdere, in un circolo vizioso che rende superfluo dare importanza ai sentimenti, ai progetti, alla vita stessa.

Nel film si rompe tutto e si riaggiusta in modi fin troppo originali, al limite dell'assurdo, come a dire che a furia di cercare aggiustamenti a ciò che non sembra funzionare si approda in una collocazione sempre più marginale, eccentrica, “vermetti” che solo nella Big Apple possono trovare accettazione.

Basta che funzioni? Ma chi può veramente dire con certezza se funziona oppure no? A volte funziona anche quando sembra rotto, a volte siamo noi a non funzionare a dovere, a volte non ha nemmeno senso interrogarsi a riguardo. Forse quello che Boris intende dire è che non si deve insistere sempre perché funzioni meglio di così. La vita è tropo breve, non c'è abbastanza tempo per ottenere perfezioni di sorta. Mi sembra un buon consiglio.

Dormire, forse sognare. [1]

A un certo punto sono seduto in questo aereo che però non vola ma viene tirato su tramite un cavo come un'ovovia. Non c'è il sole, si vede una timida nebbiolina sul verde dei prati quando la voce dalla hostess dice "Se guardate dagli oblò di sinistra potete vedere Jerry Scotti vicino a una vasca di marmo rosa". Tutti si girano, sbircio fra le teste ed effettivamente lo vedo. E' in piedi, davanti a un abbeveratoio che, come ha detto la hostess, deve essere di marmo. Ha una parrucca di capelli grigi sparati all'infuori e mostra la lingua, come la famosa foto di Einstein, ma è proprio Gerry Scotti. Fa andare la mano aperta in un saluto e mi sembra tutto finto, sembra un saluto meccanico. Ciononostante ricambio il saluto e smetto solo quando mi accorgo di essere l'unico a farlo. Mi alzo e vado via, non sopporto più la vista di Gerry, mi mette angoscia, così vado al bar. Sì, è un sogno, c'è un bar su questo aereo funicolare. Mi siedo e saluto i presenti che vanno avanti a chiacchierare fra loro come se non fossi presente. Sento qualcosa che mi sfiora il ginocchio, infilo una mano sotto il tavolo e trovo una banconota da 20 euro. La tengo alta con due dita, sorridendo, mentre un vento fantasma la fa garrire come una bandiera. I presenti mi guardano con sufficienza, "C'è pieno di quella roba, lì sotto" mi dice una donna che beve e fuma, fuma e beve, come se non avesse altro da fare nella vita. Allora io alzo la tovaglia e scopro che è vero, c'è una gabbia per uccelli piena di banconote svolazzanti sotto il tavolo. Arriva la cameriera e punta il dito sulla mia banconota e dice "Non può tenerla, è mia". I presenti protestano, mi difendono, "L'ha trovata lui" dicono, "Può tenersela". La cameriera mi guarda con astio così io le porgo la banconota e dico "Ha ragione, la prenda lei, mi tenga su almeno un caffè". Lei dice che non si può e io mi alzo e scappo, corro via, mi arrampico sulla ragnatela di tubi che impedisce il crollo dell'intera struttura, sfreccio fra i tubi con mani e piedi e mi sento felice come solo una scimmia felice può sentirsi.

lunedì 5 ottobre 2009

Inserire qui un titolo a caso.

Una storia dappoco. Di quelle che vanno bene per riempire i tempi morti. Una storia da sala d'aspetto, quando si osservano i presenti guardandosi intorno come per caso. Guarda il termostato digitale, ma in realtà valuta la persona lì vicino, senza fissarla apertamente. Potrebbe anche farlo dal momento che la donna sembra immersa nella lettura di una pubblicità mimetizzata da opuscolo informativo. È la terza volta che se lo rigira tra le mani, quasi cercasse di mandarlo a memoria per recitarlo davanti ai parenti, magari la vigilia di Natale, perché no? Scrosci di applausi, jingle di campane, riflessi di multicolori lampadine intermittenti. La donna non sorride, nemmeno sotto i baffi, nemmeno sotto le occhiaie. Rimane seduta composta mentre alcuni, come lui, sono attratti dal termostato sul muro, una spanna sopra la tinta piega e permanente della finta bionda in tailleur.

Andrebbe bene qui, una storia dappoco come questa. Non nel salotto buono, non sotto la luce fioca dell'abat-jour. È uno strumento per evitare di incrociare lo sguardo degli sconosciuti. È una sala d'aspetto, non puoi guardare dal finestrino e pretenderti assorto dal paesaggio agreste o metropolitano che sia. Ci vorrebbe anche un'immagine, un bambino che ride, un cane che corre, qualcosa di non troppo impegnativo. Siccome è una storia dappoco dobbiamo accontentarci di immaginare, ripararci in qualche modo dalla pressione fisica di queste presenze del tutto orfane di storie proprie, ignari personaggi di storie altrui. Se la donna alzasse di colpo la testa alcuni di essi smetterebbero di fissare il termostato, altri continuerebbero a farlo. Già questo è un indizio.

Lui ad esempio continuerebbe a fissarlo. Poi tornerebbe in sé, come svegliandosi, e mostrerebbe disagio, simulando una mancanza involontaria. La parte più importante in una storia dappoco, quando succede qualcosa che cambia tutto e d'ora in poi niente sarà più come prima. Potrebbe suonare un telefono e la suoneria, la suoneria, chissà che suoni o rumori, che volume assordante in quest'ambiente chiuso! No, è una suoneria standard, un semplice trillo digitale, gentile, educato, proprio come ci si aspetterebbe in una storia dappoco come questa. Oppure potrebbe aprirsi la porta e tutti si volterebbero per vedere chi entra, chi esce. Un vero colpo di scena.

C'è un vecchio col bastone, ci tiene sopra entrambe le mani, ha l'aria di chi sta pensando quello che pensano i vecchi, i pantaloni tenuti su con le bretelle. C'è un ragazzino che non riesce a tenere fermi i piedi, ha messo su un'espressione molto seria, di quelle che possono riassumere anni di ingiustizie. C'è un uomo calvo, inforca occhiali dalla montatura fucsia, guarda l'orologio, scavalla le gambe, guarda la porta, le riaccavalla. C'è la donna che tiene l'opuscolo tra le mani e lo sgrana come un rosario, recitando fra sé preghiere di marketing. E c'è anche lui, non potrebbe mancare in una storia dappoco, una presenza evanescente che non riflette la luce.

Il bello di una storia come questa è che il finale è sempre deludente, quando c'è. La situazione drammatica non si conclude, l'eroe non vince, non c'è climax né anti-climax, nessun mistero viene svelato, nemmeno una squallida catarsi. Possiamo solo sfumare in nero, inserendo nel montaggio un primo piano, un dettaglio che aspira ad essere rivelatore. Se non fosse una storia dappoco sapremmo tutto della vita dei presenti, verremmo a conoscenza della circostanze che li hanno portati qui, ci verrebbe detto cosa stanno aspettando, forse uno di loro, l'uomo calvo?, il vecchio?, verrebbe colto da infarto. Potremmo arrivare alla fine con la sensazione di essere più ricchi, di aver imparato qualcosa. Non è così che funziona, questa storia al massimo riempie un tempo morto, ed è già tanto, tantissimo, potete credermi.

giovedì 1 ottobre 2009

La verità vi farà liberi (Giovanni 8,32).

Alcune religioni ci mettono in guardia, alla fine dei tempi la verità sarà svelata. Tutto quello che abbiamo nascosto, i modo volontario o meno, verrà trovato ed esposto. Inquietante, vero? In teoria dovremmo condurre una vita limpida almeno nei confronti degli altri, dal momento che nei confronti di noi stessi è fisicamente impossibile essere onesti. Il nostro cervello è fatto in modo da proteggerci dalla verità su noi stessi. La nostra esistenza si basa su una menzogna, non potremmo vivere se sapessimo in ogni istante la verità su noi stessi. Quello che siamo veramente è molto diverso da come pensiamo di essere.

Pensa se un giorno sparissero le maschere. Un virus che impedisse alla gente di porre in atto finzioni. Bello, si potrebbe pensare, sarebbe il trionfo della verità. Incontri qualcuno che puzza? Glielo dici. Qualcuno esprime un parere che non ti trova d'accordo? Glielo dici. Sei molto più egoista di quanto credevi? Lo scopri. Hai ingannato te stesso quando hai imputato a onestà quell'azione dettata dall'orgoglio? Salta fuori.

Ora sto lavorando alla trama di una storia che parla di illusione. I due protagonisti finiscono in un paesino e interagiscono con la popolazione locale. Ogni personaggio offre al lettore la sua personale visione della realtà. Una rete di verità soggettive che solo alla fine si sciolgono in una verità oggettiva accessibile solo al lettore, laddove i protagonisti rimangono imprigionati nei loro mondi paralleli.

La verità ci renderà liberi, forse, un giorno, ma nel frattempo ci tiene prigionieri, ognuno vincolato alla propria. E allora viene da domandarsi: esiste la verità? Facciamo un esempio banale. Se uno si addormenta apposta per poter dire il giorno dopo di essersi addormentato la scusa addotta l'indomani sarà vera. Non dice una bugia ma la verità è più complessa, si è addormentato per evitare un impegno sgradito. Per ogni verità esiste un livello superiore di complessità per cui cessa di essere tale.

Esistono diversi aggettivi per la verità. Sottile, evanescente, granitica, sfumata... A volte non si può dire si o no, (“Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no” Matteo 5,37). La verità diventa una probabilità. Plausibile, ammissibile, credibile, ma non assolutamente vera.

Allora tutto è convinzione, atto di fede. Che importanza ha cercare la verità, illudersi di avere la capacità di conoscere il vero? La verità ti renderà libero, sì, va bene, ho capito, ma da cosa? Forse quello che serve è solo credere che esista, da qualche parte, la verità. Trovarla, anche ipotizzando che sia possibile farlo, cambia solo il tuo stato di prigionia, da quello del dubbio a quello della certezza. Ma è davvero auspicabile una vita in cui sia impossibile sfuggire alla verità? Una vita inscatolata, senza fantasia, in cui vedi ogni cosa per quello che è, compreso te stesso.

Verità e libertà. Forse non possiamo essere liberati. Forse nemmeno lo vogliamo. Ci basta la capacità di credere in una verità assoluta, aggrappandoci a qualcosa in un mondo dove anche il solo esistere è un atto di fede. Siamo giocatori di poker che bluffano anche con se stessi per vincere una posta che non ha alcun valore.