martedì 13 ottobre 2009

Qui, anzi qui.

Ricordo ogni dettaglio del giorno in cui gli chiesero dove prendesse ispirazione. Ricordo le ombre proiettate dal sole, righe parallele sulle piastrelle vaniglia, righe scure che uscivano dalle gambe delle sedie. Ricordo il profumo dei fiori nei vasi sui davanzali, fiori dei quali il nome mi rimane ignoto. Ricordo il profilo del maestro, colpito dalla domanda, e il mare sullo sfondo. Ricordo una formica che ebbe il tempo di zampettare dal bordo del tavolo fino al portacenere. Il maestro stava immobile, il volto privo di espressione, la pipa nella mano sospesa, il gomito appoggiato sul bracciolo della sedia, le gambe accavallate. Ricordo la punta della penna dell'intervistatore sul taccuino, l'ombra della penna, un tremolio di inchiostro a schizzare ghirigori involontari. Trattenevo il fiato, avevo la netta sensazione che questo sarebbe diventato un ricordo, un senso di ineluttabilità, puoi anche chiudere gli occhi, pensai, ormai è troppo tardi. Quella sensazione familiare di resa, come in sogno, quando non puoi far nulla per impedire che accada e non c'è modo di svegliarsi. La terrazza, l'ombrellone a spicchi bianchi e rossi, la schiena curva della cameriera impegnata a raccogliere i resti della colazione a un tavolo d'angolo. Non c'era silenzio, no, anche se l'unico suono importante per me era l'eco immaginaria di quella semplice domanda. Ende ispirazione? Spirazione? Zione? One? Lo scampanio della basilica, il vociare dal mercato del pesce, gli striduli richiami delle rondini. Niente, non sentivo nient'altro che il perpetuarsi di quella domanda. Le zampe della formica mi rimbalzavano le sillabe, do-ve-pren-de-is-pi-ra-zio-ne. Avrei voluto alzarmi e andare a urlare contro la cameriera, chiedendole come potesse continuare a fare qualsiasi cosa, a urlarle in faccia come riuscisse anche solo a muoversi quando io non riuscivo nemmeno più a tirare un fiato. Il maestro si volse al sole e strizzò gli occhi, e potrei giurare che provasse dolore, quindi fece volteggiare una mano, roteava sul polso mentre il braccio copriva in arco l'intero paesaggio. “Qui”, disse. La penna scrisse 'qui' sul taccuino. “No, no, aspetti, ho sbagliato.”, il maestro picchiò il dito sul tavolo e “Qui”, disse. Le penna scivolò dalle dita, rotolò sul tavolo, cadde a terra. La cameriera si voltò, attirata dal tintinnio della penna che cadeva sulle piastrelle della terrazza, fermandosi in una riga d'ombra. “Non capisco”, disse il giovane, facendo un gesto alla cameriera che sopraggiungeva a rendersi utile, “Ci penso io, non stia a disturbarsi.” E senza interrompersi aggiunse “Una musa, qualcosa che assomigli a una spiegazione, non chiedo altro”, mentre si chinava a raccogliere la penna. Anch'io, anch'io, gridavo in silenzio, anch'io lo voglio sapere, e mi facevo piccolo piccolo, quasi in preghiera. Il maestro annuì, accese di nuovo la pipa, sbuffò sospirò, estrasse la pistola, se la portò alla tempia e premette il grilletto. Il giovane si buttò a terra con le mani sulla faccia, la cameriera strillò, io ricordai mio nonno che mi faceva ballare sulle ginocchia e rideva, con quella sua barba grigia e ispida e le vene in risalto sul dorso della mani callose. Non ci fu alcuno sparo, il maestro si alzò e se ne andò, senza nemmeno salutare.

Nessun commento: