giovedì 3 dicembre 2009

Grand Canyon




Scritto e diretto da Lawrence Kasdan, il regista de “Il grande freddo”, Grand Canyon racconta la difficoltà di scegliere il bene quando tutti intorno a te scelgono il male. E in fondo nemmeno lo scelgono, è come nuotare nell'oceano e incontrare un squalo, lui non ti odia, non ha niente di personale contro di te, così spiega la deriva presa dalla società uno dei protagonisti, il meccanico Simon, interpretato da Danny Glover.

Uno di questi squali è un produttore di film violenti al quale il destino offre l'opportunità di redimersi consegnandogli “una busta calibro 38”. Uno spostato gli spara nella gamba per rubargli l'orologio, la pallottola gli frantuma il femore, lasciandolo zoppo. L'evento lo spinge a interrogarsi su se stesso e quello che fa, spingendolo a pensare che sia sbagliato girare film violenti, che sarebbe meglio parlare della vita, divulgare un messaggio positivo.

Kevin Kline è Mack, un avvocato al quale hanno salvato la vita due volte. La prima quando una perfetta sconosciuta lo ha strattonato per la collottola, riportandolo sul marciapiede ed evitando che venisse travolto da un autobus. Quella volta non ha potuto esprimere riconoscenza quanto avrebbe voluto perché la donna, dopo averlo salvato, se n'è andata come se niente fosse. Mack è arrivato a ipotizzare che non fosse umana ma un essere soprannaturale inviato da una potenza trascendente. Per questo la seconda volta non ha permesso al suo salvatore, il meccanico Simon, di uscire subito dalla sua vita. Simon è intervenuto convincendo delinquenti di strada a desistere dall'esercitare quotidiana e per loro ormai banale violenza su Mack.

La storia parla del rapporto che nasce e si sviluppa fra questi due uomini, uno bianco e uno nero, nella cornice priva di valori di una moderna e decadente metropoli, nella perdurante e difficoltosa ricerca di una qualsiasi salvezza da parte di chi squalo rifiuta di diventare. La moglie di Mack, ad esempio, che trova una neonata buttata fra i cespugli come fosse spazzatura, che se ne innamora e vuole tenerla. “È una scelta razionale?”, chiede il produttore zoppo, “Nel senso che tu e Mack potete realizzarla insieme?” Il produttore che è tornato a produrre violenza, incapace di sfuggire alla sua natura fatta di cinismo, disprezzo e finzione. “Se è razionale mi chiedi? Sai cosa? Me ne frego.”

Infatti Mack capisce la propria pulsione a fare il bene nei confronti di Simon ma non quella di sua moglie nei confronti di una bambina abbandonata. Solo suo figlio, cresciuto in un ambiente sano e protetto, inconsapevole della realtà meschina e spietata che domina per le strade, riesce ad aprire uno spiraglio. “Immagina che tu volessi fare una cosa a cui tieni tantissimo, che non potrai mai più fare nella vita se non adesso, e la mamma ti dicesse che non puoi farla, come ti sentiresti?”

Simon, grazie a Mack, risolve molti problemi. Se fai del bene, quel bene ti ritorna moltiplicato, sembra essere la morale. Il difficile è mantenersi integri quando tutto intorno va in pezzi, senza la minima logica, il minimo senso. Simon ha una spiegazione, gli viene dal padre. “Aveva una faccia come una vecchia valigia gonfia, rugosa, macchiata, sembrava che ci avesse camminato sopra per ottant'anni. Ha perso due mogli e tra figli, e io mi sono sempre chiesto cosa lo spingesse a tenere duro, perché semplicemente non si sdraiasse da qualche parte dichiarandosi sconfitto. Così un giorno gli l'ho chiesto.” Anche Mack vuole conoscere la risposta. “Per abitudine.” Il bene come un abito che si indossa tutti i giorni, che diventa comodo man mano che il tempo passa, al punto che non lo si cambierebbe con qualcos'altro, anche se ci dicono che è molto meglio di quello che portiamo.

Nel finale andiamo via, usciamo dalla città, scopriamo che esistono altri posti, diversi da quello che ci sembrava un oceano pieni di squali. È solo una pozzanghera di sanguisughe di fronte al panorama che ci offre il gran canyon. “Mi sento come una zanzara sul culo di una vacca che rumina al bordo di una strada dove tutti corrono a 70 miglia orarie.” Il gran canyon come firma incisa nella terra dalla mano divina, lì a ricordarci che in fondo ci preoccupiamo troppo, scordando troppo spesso che siamo esseri insignificanti a paragone dell'immensità del tutto.

Nessun commento: