giovedì 29 aprile 2010

L'araldo di Postacqua (2+3 di n)

2

Il corpo, o quel che ne rimaneva dopo lo scempio causato dalla combustione, risultò appartenere a Erminio Cattelli, il giovane trasferitosi da poco con la moglie che aveva comprato l’ultima in fondo delle villette a schiera in Via dei Ciliegi, la casa meglio nota come ‘villa dell’aquila’ a causa dell’uccello artificiale, posizionato vicino al cancello d’ingresso, che cambiava colore a seconda del tempo: celeste in caso di pioggia, vermiglio se bel tempo.
La moglie di Erminio, Giacinta, era una donna minuta che, in vanto del suo nome, amava i fiori e tutta la loro fenomenologia. Indossava una veste di un viola scuro con piccole rose carminio a decorazione delle maniche quando vennero a prenderla per il riconoscimento del cadavere. Non che ce ne fosse bisogno; la grossa catena d’oro massiccio che l’uomo sfoggiava dall’apertura della camicia, su un petto a dir poco villoso, era più che sufficiente a togliere ogni dubbio sull’identità della vittima.
Romea, la vicina di casa e aspirante migliore amica di Giacinta si offrì di accompagnarla e insieme presero posto sulla vettura del vigile Enrichetto, una Fiat panda bianca col simbolo del Comune ben visibile sulle portiere. ‘Dal 1405 il miglior posto dove vivere’, recitava una scritta sotto il simbolo e, in piccolo, ‘Gemellato con Dampcross, Maine (USA)’.
Giacinta scuoteva il capo, incredula, e si era dimenticata di togliere i guanti da giardinaggio.
“Non può essere lui”, ripeteva a tutti quelli che incontrava.
“Non ti agitare, ci sono io qui con te”, le disse Romea tenendola sottobraccio. Le carezzava l’avambraccio intrappolato e le dava pacche leggere sulla mano calzata nel guanto sporco di terra. Cercava di tenerle occupata la mente parlandole in modo incessante. “Vedrai che passa tutto. Non sei sola. Qualsiasi cosa accada, non voglio vederti cadere in una crisi isterica. Prendi una di queste,” tornando ad allungarle una pasticca che Giacinta continuava a rifiutare, “è tutta roba naturale, ti farà altro che bene.”
“Chi guiderà il suo camion ora che se n’è andato?”
“Non è detto che sia lui, cara, non ti agitare.”
“Hanno parlato di una catena d’oro, chi altri può essere?”
“Calmati, non sei sola, prendi una di queste.”
Il camion di Erminio era rimasto posteggiato al cimitero, l’unico luogo di Postacqua con un parcheggio abbastanza capiente se si esclude il ristorante ‘Il porto vecchio’, giù verso la sponda destra del fiume, poco prima del ponte dei genieri. Erminio avrebbe preferito posteggiarlo al ristorante, più vicino alla villa dell’aquila, ma Filippo non gli aveva dato il permesso, anzi, lo aveva trattato in malo modo quando gli aveva esposto l’idea. Sarebbe stato disponibile anche a pagare qualcosa per il disturbo ma Filippo era stato irremovibile: “Il mio è un posto di lusso”, aveva dichiarato, “Niente camion nel mio parcheggio, grazie lo stesso.”
Così Erminio aveva dovuto accontentarsi del cimitero e, quando l’auto del vigile Enrico passò nei pressi, Giacinta emise un verso strozzato vedendo il camion fermo nel piazzale, col sole di sbieco a renderlo più grosso di quanto non fosse, effetto accresciuto dal fatto che i cipressi decorativi erano stati piantati solo l’anno prima e, alti non più di un paio di metri, contribuivano a ingigantire il mezzo.
“Aveva sempre desiderato comprarne uno più grosso”, disse Giacinta scuotendo la testa. Poi si accorse di aver parlato del marito al passato, come se una parte di sé fosse già convinta di averlo perso del sempre. Scoppiò in lacrime e finalmente accettò la pillola che Romea non smetteva di spingerle sotto il naso.
Erminio aveva dovuto accontentarsi di un autocarro adattato per la vendita della frutta. Stava accantonando una parte dei profitti, a dire il vero piuttosto scarsi, per comprare un camion degno di quel nome, una motrice imponente con la quale trasportare merci in giro per l’Europa.
“Aveva un sogno, il mio Erminio”, singhiozzò Giacinta, “Voleva aprire una ditta di trasporti transeuropea.”
“Non ti preoccupare, vedrai che si sistema tutto”, disse Romea.
“Ma come fai a dire una cosa del genere?”, sbottò a quel punto Giacinta, strappando via il braccio dalla stretta dell’amica, “Ti rendi conto? Cosa vuoi che si sistemi? Piantala di dire stupidaggini!”
Colpita dalla veemenza del tono, Romea si mostrò piccata e si voltò verso il finestrino, decisa a non replicare ma solo per rispetto della tragedia in atto che non per attitudine alla conciliazione. Ecco cosa si ottiene ad essere altruisti, avrebbe voluto rispondere. Invece aprì la borsa e prese una pillola anche per sé.

3


Nel frattempo la gente si era spostata dal sagrato e si era radunata sotto la veranda del bar in Piazza del Comune. Non c’era più nulla da vedere sul luogo dell’accaduto, a parte i segni del gesso tracciati dai periti e macchie di bruciato sui cubetti di porfido; un agente aveva scattato alcune fotografie, un altro agente aveva preso i nomi dei presenti chiedendo a ognuno se avesse visto qualcosa di utile per le indagini. Avevano coperto il cadavere con un lenzuolo e l’avevano in seguito caricato su un furgoncino scuro.
Il vociare della folla però era tutt’altro che scemato, limitandosi a passare da opinioni espresse ad alta voce a opinioni bisbigliate davanti a un campari o a un bicchiere di vino bianco, da sorseggiare ai tavolini sotto la pergola del bar. Era quasi mezzogiorno e molte persone erano rincasate per adempiere al rito del pranzo ma quasi tutti cercavano di restare il più possibile, fino all’ultimo istante disponibile, a discutere l’evento del giorno. Quelli che si vedevano costretti a ritirarsi promettevano di tornare di lì a poco, nel primo pomeriggio, e fissavano appuntamenti per continuare la conversazione lasciata in sospeso per cause di forza maggiore.
Essendo le scuole chiuse per vacanze estive c’erano ragazzini, in canottiera e calzoncini, armati di ghiaccioli, che si aggiravano fra i tavolini raccattando frasi che riportavano altrove per alimentare discussioni parallele altrimenti destinate ad affievolirsi. Uno di questi ragazzini prendeva il proprio compito con grande serietà e si sforzava di memorizzare ciò che udiva parola per parola al fine di essere in grado di riportare fedelmente a chicchessia quanto aveva udito dal compaesano di turno.
Piercarlo si aggirava sotto la pergola tenendo per mano Ezechiele e non facendo alcunché per dissimulare il suo profondo interesse. I suoi per così dire clienti sapevano benissimo che Piercarlo sarebbe andato a dire in giro quanto avrebbe sentito ma non se ne preoccupavano e non si sentivano traditi per almeno due motivi: Postacqua era un paese libero dove ognuno aveva diritto a pensarla a modo suo e, in seconda battuta, Piercarlo era il mezzo perfetto per diramare notizie senza che gli interessati dovessero gridarsele da un tavolino all’altro.
“Pare che il Cattelli fosse un poco di buono”, disse Roberto a Mario, sorseggiando il caffè freddo.
“Ho visto un film, una volta, saranno dieci anni fa, in cui c’erano dei mafiosi e questo tizio aveva fatto non ricordo cosa ma quando l’hanno scoperto sapete cosa gli hanno fatto?”, interloquì Giorgio, controllando l’orologio e voltandosi a cercare con lo sguardo dove si trovasse il figlio Ezechiele.
“A me invece sembrava una brava persona, un gran lavoratore”, disse Mario.
Giorgio chiamò Ezechiele e il bambino si voltò di scatto, salutò con la mano e strattonò Piercarlo al fine di venire accompagnato dal padre.
“Può darsi, ma c’era qualcosa nel suo modo di guardare che mi dava da pensare”, replicò Roberto osservandosi le unghie sporche e odorose di benzina, “Chissà da chi portava il camion per la manutenzione, da me no di certo, per cui non posso dire più di tanto.”
“Guarda chi arriva”, la voce di Curzio raggiunse tutti i presenti nonostante fosse in un angolo e si fosse allungato per bisbigliare nell’orecchio di Rino, il minore dei fratelli Bonimba.
Piercarlo corse incontro a Don Gaudenzio che si asciugava il sudore con un fazzoletto cercando di tenere il passo di Palmiro Camuni, Colonnello dei Bersaglieri in pensione. Sotto la pergola regnava il silenzio quando i due nuovi arrivati si fermarono e rimasero fermi a scambiarsi occhiate, in chiaro riferimento a chi fra di loro dovesse parlare per primo.
Ezechiele mollò la mano di Piercarlo e corse in braccio al padre. Bettina uscì da dietro il bancone con in mano un bicchiere e un panno per continuare ad asciugarlo sulla soglia, da dove avrebbe potuto vedere il motivo dell’improvviso tacere. Don Gaudenzio abbozzò un cenno del capo e fece un passo avanti, mise in tasca il fazzoletto e iniziò a parlare.
“Oggi pomeriggio alle sei in punto le campane suoneranno a morto e si terrà una messa speciale. Subito dopo la funzione ci sarà un intervento del sindaco dove i cittadini potranno rivolgere delle domande. Queste morti stanno sconvolgendo la vita della comunità ed è necessario restare uniti per far fronte alla disgrazia che sta colpendo il nostro paese. Spargete la voce, desidero che ci sia la massima partecipazione perché solo uniti tutti assieme possiamo superare le avversità.”
“Padre”, interruppe Giacomo, il maggiore dei Bonimba, spingendo via la mano di Rino che cercava di impedirgli di parlare, “forse è pericoloso.”
Don Gaudenzio si fece impettito e il suo sguardo mostrò appieno la sua contrarietà.
“La Chiesa non è pericolosa”, alzò la voce, “Stiamo parlando della casa di Dio.”
Il Colonnello Palmiro Camuni si fece avanti e si impadronì dell’attenzione degli astanti “Questo è vero: la mia povera e amata Giuliana, pace all’anima sua, si trovava alla fontana dietro la canonica e ora il povero Erminio è caduto proprio davanti al portone.”
“E con un dito puntato”, borbottò Curzio abbassando immediatamente lo sguardo quando il Colonnello si volse nella sua direzione..
“Le funzioni d’ora in poi si svolgeranno nella cappella di Nostra Signora delle Fonti”, non era una constatazione ma un vero e proprio ordine diretto a Don Gaudenzio. Detto questo il Colonnello fece una specie di dietro front e se ne andò a lunghi passi, subito imitato dagli altri che presero a salutarsi in modo frettoloso, ad accampare scuse, a stringere mani e darsi pacche sulle spalle per poi dirigersi con una certa urgenza lontano da Don Gaudenzio, il quale stette lì in piedi a osservare il leggero trambusto con le labbra serrate e i pugni stretti.

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