martedì 12 gennaio 2010

Strange world

Era come avere ucciso qualcuno. D'impulso, si direbbe, ma un impulso maturato nel tempo, esploso come un bubbone. Un senso di liberazione ma anche di dannazione. Qualcosa di essenziale che era andato perduto senza lasciare niente a prenderne il posto, almeno non ancora, questa era la speranza mentre, seduto al tavolino di un caffè, scarabocchiava su tovagliolini di carta. Buttava giù un riassunto, costellato di riflessioni, per non lasciarsi andare, per non perdere di vista i due capi di un filo ormai spezzato. Impossibile riannodarli.

La speranza che bastasse attendere, avere pazienza, far emergere quel qualcosa dal nulla, invitarlo a farsi avanti dal futuro, riempiendo di scrittura fitta i tovagliolini, sotto lo sguardo perplesso del cameriere. Sette volte si presentò il cameriere, sette volte ordinò una tazzina di caffè per restare lì seduto, all'aperto, al buio, a infischiarsene dei passanti, delle macchine, delle luci, delle voci. Ingobbito su un mazzo di tovagliolini di carta sottile, con sopra il marchio di una ditta di caffè, pieni di parole che avevano senso mentre le scriveva, per perderlo subito dopo, quando rileggeva, quando aveva perso il filo, quando non sapeva più di cosa stesse parlando.

Le dita facevano male. Le dita della mano destra, quella con cui stringeva la penna che aveva chiesto al cameriere col primo caffè. Cos'era successo in fondo? Niente di che, aveva aperto una parentesi. Aveva parcheggiato, era sceso come se avesse avuto una ragione per farlo quando invece aveva solo aperto una parentesi. Si era guardato intorno con gli occhi di chi è appena arrivato da un posto lontano, diverso, sentendosi spaesato, interrogandosi su tutto e niente in particolare. Pensò di avere avuto un incidente, che qualcosa dentro di lui fosse caduto, fosse scappato chiudendo la porta dietro di sé, piano, di soppiatto.

Cosa faccio adesso? Si era chiesto. Come faccio adesso? Sentiva di essere colpevole, di avere tutta la colpa, tutta quanta, senza scuse, senza poterla addossare a nessuno. L'avrebbe scagliata lontano se avesse potuto, nel mare, nel cielo, sui muri delle case, sul cameriere che lo fissava appoggiato allo stipite della porta del bar. Certo, sono sceso per bere un caffè. È una forma di amnesia, si era detto nel tentativo di risolvere il guaio, basterà far finta che sia tutto a posto e aspettare che passi. Tentava di sorridere andando a sedersi al tavolino, estraendo un tovagliolino dal raccoglitore, chiedendo un caffè e, se possibile, una penna.

Cos'ho fatto, cosa mi hanno fatto, aveva chiesto a voce alta senza rendersene conto. Il cameriere non rispose, si accorse che non stava davvero chiedendolo a lui, si limitò a guardarlo con sospetto e tornare con la spalla sullo stipite, a guardare da lontano. Il caffè aveva un sapore orribile ma non se ne curava, era solo qualcosa di caldo e amaro sulla lingua, non aveva nessuna importanza. L'importante era capire, era dare la possibilità alle parole di mostrargli la soluzione. La penna avrebbe fornito le risposte, la carta gliele avrebbe messe sotto il naso, bisognava solo stare calmi, non farsi prendere dal panico, tutto si sarebbe sistemato.

Malgrado tutti quei caffè gli si chiudevano gli occhi, si sentiva così stanco. Per le strade non c'era quasi più nessuno. Riusciva persino a sentire il rumore della risacca, da qualche parte nel buio. La penna sospesa in aria, rimase a osservare due donne intente a bere del vino, i bicchieri colmi di riflessi affilati, pungenti. Alzò lo sguardo, una nuvola nel cielo, bianca di raggi lunari, galleggiava adagio, spinta da venti spettrali. Quanti anni ho, si chiese, quanto sono vecchio? Tirò una linea orizzontale sul tovagliolino e sotto scrisse “Totale: sorrisi”, quindi cancellò e scrisse “Risate, da bambino”.

Sui fogli successivi parlò di corse nei prati, del sapore dei fiori di cicoria matta, di come si appoggia il piede un po' per volta, sul ramo, per indovinare quanto peso potrebbe sostenere. Non riesco a contenermi, pensava rievocando le emozioni, perdendosi in quel nuovo, strano mondo, in cui era stato catapultato da forze ignote. Si sentiva come se stesse piangendo ma ciò che provava non era tristezza, era sollievo. In seguito avrebbe ricordato di aver gridato, di aver singhiozzato, di aver riso forte, ma in realtà tutto avvenne in silenzio, nell'immobilità spezzata solo dal rumore della carta sotto i segni della penna.

Era tutto così chiaro nella sua mente in quel momento, non era possibile che niente fosse rimasto impresso sui tovagliolini in grado di descriverlo. Eppure si accorse che stava scrivendo solo di sogni, non c'erano collegamenti alla realtà, solo immagini sconnesse e sfocate. Disegni infantili, un cuoricino di inchiostro blu, fili d'erba o forse peli a incorniciare la parola “verde”, e l'ultima frase diceva solo “Non c'è un perché”. Avrebbe voluto stracciare tutto, riprovarci, stavolta ci sarebbe riuscito, ma era tardi, impossibile rivivere, ormai la parentesi era stata chiusa. Quel qualcosa che aspettava era arrivato, non c'era più tempo di indugiare.

Nessun commento: