lunedì 19 marzo 2012

Ricordi sparsi di mio padre

Le vene sul dorso delle mani. Gli prendevo la mano e gli chiedevo ragione delle sporgenze, corde bluastre e mollicce. Mi piaceva la sensazione gommosa sotto il polpastrello dell'indice quando premevo, interrompevo l'afflusso di sangue e la vena si accasciava, si appiattiva, svaniva per poi esplodere di liberata turgidezza sanguigna che a fissarla dopo un po' mi convincevo di cogliere il battito cardiaco, di avere sotto gli occhi una lontana estremità del cuore di mio padre. Lui mi lasciava fare come si permette a un cane di sporcarti i pantaloni, vergognandosi di un gesto da malato mentale, chiedendosi come mai la mia follia non si rivelasse appieno, così da rendere tutti meno afflitti dai forse e dai casomai, non fosse manifesta la mia una pazzia piuttosto che strisciante, maligna, incastonata in gesti maniacali che non lordano chi li compie ma chi li subisce, come le violenze compiute dagli angeli, gli stupri nel mondo animale. Ritirava la mano e mi guardava con l'intensità di chi si sente preso in giro, di chi è sconvolto da sospetti infondati, e mi diceva quando avrai la mia età succederà anche a te di avere le mani così. Oggi schiaccio le mie, di vene, sul dorso della mia, di mano, ma non è la stessa cosa.

La camicia aperta sul collo e pantaloni lunghi rimboccati, gli occhiali con la montatura d'oro e le lenti verdi, a goccia, la catenella, il braccialetto, l'orologio. La sigaretta che il fumo usciva dalla bocca e gli circondava la testa che i suoi capelli mi sembravano fiamme scolpite nel fil di ferro. Era l'unico completamente vestito in riva al mare. Coi piedi all'inizio della battigia, dove le onde arrivano solo ogni tanto, con grande sforzo. E sorrideva. Stava fermo a guardare il mare e avresti detto che stesse nuotando, nella sua testa stava nuotando, stava lottando per restare a galla, si stava stancando fisicamente di guardare il mare, con le sue attrattive nascoste, onde come gambe accavallate, escludendolo, profondità bagnate dove affogare con gratitudine, sfidandolo, riflessi sconfinati di superba compiacenza. Lo vedevo, mio padre, bluffare con il mare, rilanciare, fingersi sicuro di un giro sfortunato. Lo guardavo aspettandomi che dicesse qualcosa di importante, ma niente, non la metteva nero su bianco, mi faceva un gesto o un fischio, soddisfatto, e se ne tornava all'ombra, si sedeva a un tavolo e ordinava da bere per togliere il sale rimasto sui pensieri. Gli portavo le carte da ramino e stavo seduto più serio di lui, volevo che mi guardasse come un avversario impossibile, che mi scambiasse per il mare.

Mio padre a letto con la febbre e le labbra viola quando lancia contro il muro il cubo di rubik e mi grida addosso parole che non ricordo più, dopo che ho insistito per farglielo risolvere, dopo che ho acceso la filodiffusione e mi sono messo a cantare pelle di serpente con quanta voce possibile. Mio padre che mi giro e non mi sta più tenendo la sella, e allora cado, gli faccio vedere cosa succede a mollarmi la sella di nascosto, succede che mi faccio male e la colpa è tua, papà, cado dalla bicicletta e mi sento colmo di gioioso furore nei tuoi confronti perché mi sono voltato e tu non c'eri più, mi avevi abbandonato, adesso portò accusarti e odiarti e fartela pagare per non avermi amato completamente, per aver mancato la perfezione, per non essere il dio che mi aspettavo da te. Papà tu mi hai deluso, tu non puoi leggermi nel pensiero, non puoi darmi la felicità, tu non puoi farmi scudo dal mondo né proteggermi da me stesso, tu non sei utile quanto vorrei e la colpa è tua, che non sia volare, non sia sparare raggi laser dagli occhi, non ti piacciono i cartoni animati e sei così intelligente, papà, sei così lontano, papà, sei così grande che io non sarà mai all'altezza e quindi ti abbatto, ti distruggo, ti tolgo il potere di essermi amico: da oggi non sei più il mio migliore amico.

L'anello all'anulare tanto largo da vibrare, la mano appoggiata sopra al volante. Mi insegnava alla domenica mattina, quando lo accompagnavo a prendere il giornale e a offrire l'aperitivo ai suoi amici rimasti tali da quando era giovane. Gli amici di mio padre, lui aveva amici ovunque e io nessuno a parte lui. Io che fingevo di averne, e tanti, anche se li odiavo tutti, sentendomi in colpa e una brutta persona. Gli amici e le ragazze, mio padre voleva che io fossi una persona normale e io gli dicevo ho tanti amici, c'è una ragazza che mi piace molto. Erano momenti in cui lo vedevo sereno, orgoglioso, soddisfatto, momenti in cui lo rendevo felice. Allora si apriva e mi diceva quando guidi più vai veloce e più devi guardare lontano. Mi diceva la ruota gira, la fortuna cambia. Mi allungava spiccioli di sapere e saggezza e questo secondo me era amore, in macchina, nel tragitto tra casa e parcheggio in centro, e a me bastava per giorni, dopo potevo sopportare meglio le sue battute spiritose e la mia vita silenziosa, i suoi amici che sembravano veri quanto i miei falsi. Lo guardavo stappare una bottiglia e stavo sulle spine perché non potevi mai sapere se avrebbe approvato o storto il naso. Lo guardavo assaggiare le pietanze con ansia, pronto a imitarlo o dissociarmi, a seconda dell'umore del giorno, a prescindere dalle reali qualità della cucina. Oggi ti voglio bene oppure non te ne voglio, papà, ma non c'è un criterio, c'è solo la tua faccia e la mia reazione quando ti guardo da troppo lontano o da troppo vicino. 




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