mercoledì 26 gennaio 2011

Attendere in linea

Camminavamo guardando il cielo, in attesa, perduti come granelli di polvere nel vento, sconvolti come formiche in allarme. Chi poteva camminare camminava, chi non era più in grado aspettava seduto per terra, o sdraiato. C'era chi non si muoveva più e non capivi se teneva gli occhi chiusi, se dormiva, o se stava diventando rigido. La puzza era un animale nervoso, chiuso nella gabbia insieme a tutti quanti noi, anche l'erba ne era contaminata, qualsiasi cosa aveva scambiato il proprio odore con uno specifico miscuglio di aromi che era la puzza e tutti la sapevamo fuoriuscire dai comignoli. Ma chi la sentiva ancora? Non dava fastidio a nessuno, era solo un ricordo da associare al fumo, al fuoco, ai forni. Ero fra quelli che potevano camminare e camminavo, oh se camminavo, camminavo con grande convinzione, muovendo le dita dei piedi, con la speranza di non smarrire mai la percezione, neppure per un momento. La consapevolezza del cielo mi veniva dallo spostarmi continuamente, inventare traiettorie prive di ogni descrizione matematica era la salvezza, il mio grido per sovrastare la puzza e non dichiararmi vinto. Il cielo era grigio, vuoto, lontano, e guardarlo mi faceva lacrimare gli occhi.

Non ho mai pensato di dover salutare qualcuno come se fosse per entrambi l'ultima possibilità di farlo. Come potrei far capire di avere una brutta sensazione evitando di passare per un carattere troppo sensibile, una personalità troppo emotiva. Mi sono figurato in seguito diverse angolazioni e prospettive, mi sono reso ridicolo dicendo frasi dal sapore tragico basate sul nulla, sulla percezione del nulla. Mi ricordo la leggerezza di quel corpo, mi aspettavo sempre che pesasse di più, restavo ogni volta sorpreso che un corpo potesse arrivare a pesare così poco, quasi volesse farsi leggero per renderti più facile il compito di aiutarlo a muoversi, in un gesto estremo di altruismo, un senso di colpa testardo che non accetta compromessi. Si rideva di noi, si diceva forza, è ora di andare a letto, e anche lui si sforzava di sorridere e alzava le braccia per essere preso e non ho mai potuto chiedergli se quel gesto lo facesse tornare bambino, lo facesse tornare a sentirsi bambino.

Guardiamo il cielo perché il rumore si sente dopo, è come con gli spari, quando senti il rumore è già successo tutto. Il primo indizio è un puntino lontano, passa qua sopra e sgancia il carico sulla perpendicolare. Mi immagino il panorama negli occhi dal pilota, con noi qua sotto sparpagliati nel prato che restiamo fermi a guardare in alto verso di lui e, quando apre il portellone, i nostri occhi lo abbandonano per seguire le casse di legno appese ai paracadute. I miei occhi rimangono sul pilota, lo osservo compiere la manovra che riporterà l'aereo da dove è venuto, un posto al di là dei cancelli, dei fossati, delle reti, dei fili spinati. Prima arrivavano i treni, poi i treni hanno smesso di venire. Per un periodo arrivavano i camion, poi i camion hanno smesso di venire. Adesso arrivano gli aerei, e le guardie sono sempre più nervose e reagiscono in modi diversi, alcune diventano più gentili, altre più crudeli. Non suonano più le sirene di notte. Non abbaiano più così spesso i cani. C'è chi dice che torneremo al mondo, come se adesso ne fossimo al di fuori.

L'ultimo saluto in effetti ce lo diamo di nascosto, molto tempo prima che ce ne sia davvero bisogno. In seguito ci rendiamo conto che il nostro corpo, la nostra mente, ha preso congedo di nascosto, quando il futuro era ancora un'ipotesi. Almeno così succede nel mio caso. Il giorno che si supera la cima della collina e si vede il paesaggio che ci attendeva dall'altra parte. Ci aspettavamo distese di prati fioriti, un comodo declivio da gambe stanche, e invece niente, solo sassi appuntiti e nebbia. Il giorno in cui si arrabbiò, tentò di colpirmi, non riusciva a parlare per la rabbia che aveva in corpo, non riusciva a piangere per la delusione che aveva nell'anima. Schivai il primo pugno e gli chiesi perché, cosa succede papà. Lo guardai negli occhi e vidi tutto il dolore che si può sostenere moltiplicato oltre il limite della sopportazione, il tormento che ti danno come risarcimento quando ti portano via la speranza. Poi gli passò e tutto rientrò nella normalità, dissero che era stato un effetto collaterale dei farmaci. Entrambi fingemmo di crederci.

Quando atterrano le casse arrivano di corsa le guardie, ci urlano di stare fermi, di non toccarle. Succede tutte le volte, gridano contro di noi anche se non ce n'è uno che si avvicini a una cosa qualunque perché quando le casse atterrano, col fracasso del legno che colpisce il terreno gelido, un rumore di ossa e di peccato, tonfi che assomigliano all'ultimo battito di un cuore sfinito, l'arrivo delle casse implica una parentesi di catatonia generale, non c'è più un evento da attendere, un cielo da scrutare, un motivo per vivere. Le guardie si piazzano a gambe aperte e fucile spianato vicino alle casse e avvisano che chi si avvicina è un uomo morto ma non hanno di che preoccuparsi, nessuno è interessato alle casse, nessuno è così vivo da temere un colpo di fucile. Le guardie pensano che siamo bravi attori, che ci piace recitare, che aspettiamo l'occasione di sopraffarli e scappare, per questo continuano a farci paura, a tenere alta la tensione. Non ti avvicinare, mi intima, quando faccio un altro passo la guardia spara in alto, poi mi chiede se sono pazzo, dice te lo ripeto per l'ultima volta. Faccio un altro passo, sorrido, non mi volterò indietro a salutare chi rimane.

Nessun commento: