mercoledì 15 giugno 2011

Al di lei servizio (1 di K)

Bestiacce, orride bestiacce artificiali. E lei che coraggio a chiedermi la digitazione, lei che sa quanto odio gli animali meccanici, ne approfitta per mettermi alla prova, come se non bastasse il fatto che ogni giorno, puntuale, spalanco i tendaggi, dischiudo le veneziane, isso gli stendardi e con essi abbandono il terrore di brutte sorprese, l'incubo ricorrente di entrare nella stanza e non sentirla russare, perché lei non lo sa che russa, un russare lieve e costante, un tremolio mucoso che assomiglia a un garrito vittorioso, almeno a me fa quell'effetto perché mi significa che è un giorno come ieri, come il precedente ancora, un suono rassicurante che posticipa la rivoluzione che ho progettato nei dettagli, ho scritto l'elenco delle persone da informare, ho preparato l'ultimo abito che lei indosserà, ho illustrato la disposizione che dovrà assumere la mobilia per l'esposizione, in modo che i candelabri non rischino di appiccare il fuoco ai veli ricamati. Entro e trovo lei sveglia che accarezza una specie di ermellino, una faina, un'orrida bestiaccia artificiale e lei dice Caro saresti così gentile da praticare la digitazione, lei mi chiede Non lo trovi intrigante?, dice proprio intrigante, e io che sto valutando la profondità del viola attorno ai di lei occhi rispondo che sì, lo trovo interessante, e lei è indispettita perché non lo trovo intrigante, e lei assottiglia le labbra che noto essere più bluastre del solito, e lei mi dice Caro ti dispiace occuparti della ricarica, temo di essere una frana in certe cose, e sorride, tira la pelle del volto in un sorriso, la luce della finestra riesce a passare attraverso la pelle di lei sottile, quasi trasparente, che mi sembra di vedere le di lei ossa del cranio.

Dev'essere un regalo del principe, non so come faccia a mantenere l'ascendente su di lei, dopo tutto il male che le ha fatto, dopo che è stato formalmente bandito dalla casa, scommetto che questa bestiaccia l'ha fatta entrare lui, l'ha programmata lui. È anche di scarsa qualità, penso, mentre avvicino una sedia al letto di lei e mi siedo a digitare nella pelliccia artificiale, movimenti coordinati, semicerchi, diagonali, mi viene la nausea nel percepire i fremiti che il mustelide posticcio fa correre nei cavi nascosti, nelle ruote dentate, nelle fragili sospensioni idrauliche. Lei dice Sei molto bravo, dove hai imparato? Dico Talento naturale e lei ride, il più delle volte non so perché ride ma non mi interessa, mi piacciono i suoi occhi quando ride e il suono che fa. Ripeto a voce più alta che è un talento naturale e mi lascio andare anch'io, dimentico il principe e l'ingegnere, dimentico che dovrei già essere per strada, dimentico i dottori e gli amministratori, gli agenti monomandatari che mi stanno certo aspettando al piano di sotto per elencarmi i punti salienti e tranquillizzarmi sulla natura transitoria delle clausole capestro. Ogni volta che mi arrendo all'impulso del riso poi mi sento triste, quando il sangue ha bruciato la sostanza esilarante, quando mi ricade addosso il mondo perché non c'è più la risata di lei a tenerlo sospeso, e ridere in quel momento mi appare così simile alla copula, solo più igienico e meno osceno, mi pento sempre di aver riso, di aver espulso dal mio corpo quel poco seme di buonumore che è già un miracolo per uno della mia età. E adesso guardo dalla finestra e il panorama è impolverato, la luce più stanca, il tempo rallenta per farmi il dispetto di un giorno lunghissimo.

L'interno della bestiaccia ha tintinnato, le batterie sono al massimo, lo consegno all'abbraccio di lei con il manierismo di chi sta biasimando in silenzio, mi inchino e dico con il tono di voce più freddo possibile che adesso se per lei va bene io mi congederei. Lei accarezza l'orrida testa pelosa, le palline vetrose gialle e nere che mi fissano, e mi dice Grazie, non so cosa farei senza di te. Faresti quello che stai facendo comunque: spegnerti dentro a quel letto, chiuderti nella camera padronale con la bella vista sul roseto e i campi terrazzati che portano giù fin dentro a piazza vecchia, ecco cosa faresti senza di me, staresti comunque in attesa delle campane di mezzodì per metterti in ginocchio e pregare il dio dell'appetito. Pensi che non lo sappia? Credi che non ti conosca? Mi inchino di nuovo alla di lei presenza, facendo attenzione a tenere basso lo sguardo, dico che è un piacere, che è un onore, e quando mi tende la mano sto bene attento che le mia labbra non entrino in contatto, che sia solo il mio alito a sfiorarla. Quindi esco, mi chiudo i battenti alle spalle come se fossero il coperchio di una bara, come se stessi chiudendo lei dentro e non me stesso fuori, e mi sento finalmente libero di concentrarmi su qualcosa che non sai lei, torno in possesso di un naso che odora, non c'era che odore di morte da odorare lì dentro, torno in possesso di una bocca che sbava, c'era un veleno nell'aria che seccava le fauci lì dentro, torno in possesso di orecchie che odono, c'era il fischio assordante della di lei presenza lì dentro, torno in possesso delle mani e dei piedi ansiosi di maneggiare e camminare, di un cervello per difendermi dall'inferno della gente, un cuore per tentare di sopravvivere. Scendo le scale di corsa e spingo via un avvocato che appena mi vede si stacca dal muro, getta la sigaretta e sventola le carte, dico non ora, non adesso, le consiglio vivamente di prendere in considerazione l'eventualità in cui e non finisco la frase scappo fuori e mi fermo a faccia in alto, rivolta al sole, temendo di esplodere.

Ci sono dei paletti infilati nel terreno, si sente il rumore di una mazza e la voce dell'ingegnere che non può fare a meno di urlare consigli e rimarcare ormai ben note disposizioni. Fai attenzione alla cuspide, è quello che dice al primo colpo di mazza, sarebbe meglio inclinare di altri quindici gradi, siamo proprio sicuri sicuri che sia rinforzato a dovere? Sono giorni che mi tocca subire la presenza dell'ingegnere entro i confini della proprietà. Sta realizzando un binario, una sedia a vapore, un circuito che, nelle promesse, dovrebbe contribuire alla di lei guarigione, per chi voglia assecondare le teorie di quelli che scommettono sulle cause psicologiche. L'ingegnere ha investito del suo, vuole dimostrare l'effetto terapeutico dell'accelerazione, dice che a una precisa velocità da lui stesso calcolata verranno spezzati certi legami emotivi, certe pulsioni inconsce, e per questo va sprecando paletti, alcuni grossi come tronchi, che sarebbero più utili altrove. L'ingegnere che per verificare le pendenze e dare consistenza a calcoli parabolici ruzzola nei prati e quando si rialza grida Tutto bene non mi sono fatto niente! come a prevenire chiunque si sentisse in dovere di chiederlo. Ignoro i suoi gesti di richiamo, non ho intenzione di ascoltare i suoi vaneggiamenti matematici sulla truffa del calcolo infinitesimale, non voglio essere inglobato nelle presunte cospirazioni degli intellettuali e nelle ripicche paranoiche da cattedra universitaria, mi interessa solo raggiungere il mercato, incontrare per caso il principe e quindi ucciderlo, controllare di persona che la vita gli scivoli fuori, spezzargli il collo o pugnalarlo, non ho ancora deciso i dettagli.

Mi lancio verso la dispensa tenendo alzato il dito indice, un minuto mi serve solo un minuto devo prima sbrigare una faccenda improrogabile, e invece raggiungo il portoncino di servizio e mi lancio fra i muretti a secco cercando di evitare le pozzanghere. L'ingegnere mi ha seguito e sta lanciando richiami, aggrappato al portone, con quella sua voce eternamente piccata, incapace di vincere il tabù del metter piede nel selvaggio territorio abitato da servi e contadini. Sto pensando alla testa del principe, a quanto è brutta e malfatta la testa del principe. Come ha osato mandare a lei un animale meccanico, come ha osato farlo di nascosto, per il gusto di oltraggiare l'onore della famiglia un'altra volta ancora. Gli sarei piombato addosso come una folgore, l'avrai schiacciato con una mano sola. Al mio passaggio si zittiscono le rane nei fossi, le cicale sotto i rami degli alberi di confine. Al mio passaggio si tolgono il cappello i fornitori e i parenti alla lontana, aprono i ventagli le dame e rispettive damigelle, rallentano i carri, i bambini nascondono la faccia, so dove trovare il principe, so dove va a ubriacarsi e a cercare compagnia. Infatti eccolo con il bicchiere in mano, il bastone appeso al braccio e la gamba piegata del folle impiccato a testa in giù, eccolo che sorride tenendo le spalle indifese come solo un principe le può tenere, colui che per nascita e rango non ha nulla da temere, ottima costituzione, ottimo umore, un principe di nome e di fatto, con la mascella uguale a quella del trisavolo in armatura che partecipò alle terza crociata, il cui volto sarà presto dipinto a olio e aggiunto alla collezione che riempie le scalinate del palazzo.

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