Stamattina mia moglie mi racconta cosa è successo ieri.
“Mamma, il mio pesciolino è morto.”
“Lo so.”
“Perché è morto? È stato lo stress?”
“Fa parte della vita, succede a tutte le creature viventi.”
“Tutte?” (sopreso)
“Sì.”
“Anche le persone?” (dubbioso)
“Sì.”
“Anche tu?” (serio)
“Beh, in futuro, quando tu sarai diventato molto molto grande.”
“E diventerai piccola?”
“No, già non sono una stangona, ci mancherebbe.”
“Ah, capisco.”
“Perché dovrei diventare più piccola?”
“Come facciamo a buttarti nel water?”
mercoledì 17 marzo 2010
Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (23 di N)-bis
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martedì 16 marzo 2010
Divertissment (sempre i soliti esseri fatati)
Interno, giorno, Camera di Josh.
Josh, adolescente, appassionato di scienze, difficoltà di socializzazione.
Josh si sveglia, si alza si stiracchia, rabbrividisce, e inizia a vestirsi. Alle sue spalle un folletto in equilibrio sulla testiera del letto lo imita in ogni gesto. Josh lo vede nello specchio.
JOSH: Smettila, non sei divertente.
Il folletto salta sul comò con un'acrobazia.
FOLLETTO: Strano, mi è sembrato di sentire una voce ma non vedo nessuno.
Josh continua a vestirsi, da un calzino sbuca una fatina che prende il volo. Il folletto prende una moneta dal mucchietto sul comò e cerca di colpire la fatina. La moneta colpisce Josh in fronte.
JOSH (molla i vestiti e si porta le mani alla fronte): Adesso basta! Che male. Questa cosa deve finire!
Brenda, la madre di Josh, donna in carriera, precisa e autoritaria.
BRENDA (dalla cucina): Che succede? Sbrigati che si fredda.
JOSH (bisbigliando): Trovatevi qualcun altro, io qua, nel mondo reale, ho una vita da portare avanti.
FOLLETTO (falsetto): Io ho una vita, gringo, fatti da parte.
La fatina atterra sulla testa di Josh e si aggrappa ai capelli, fa una linguaccia al folletto. Si pare la porta della camera e sporge all'interno la testa di Brenda.
BRENDA: Allora? Pensi di farcela entro Natale?
FOLLETTO: Come fai a sopportarla?
JOSH: Arrivo, ho mai fatto tardi?
FOLLETTO: Vattene via, vecchia balorda!
BRENDA: Se fosse per te faresti sempre tardi, caro.
JOSH: Ti ho già detto che arrivo, posso vestirmi senza testimoni?
Brenda si offende, sbatte la porta.
JOSH (bisbiglia): Non ti rivolgere a mia madre in quei termini, non è vecchia né balorda.
FOLLETTO: Se lo dici tu?
Josh continua a vestirsi. La fatina vola davanti allo specchio e si sistema i capelli.
JOSH: Ve ne andrete mai?
FOLLETTO e FATINA: No.
FOLLETTO (imitazione del padrino): Lo sai come funziona, mano lava mano, ci sono delle regole, tu non stai valutando con la dovuta attenzione i termini dell'accordo.
JOSH: Non c'è nessun accordo!
BRENDA: Parli anche da solo, ti sento!
FOLLETTO: Se non c'è è perché ci sarà presto.
Josh ride, scuotendo la testa.
FATINA (in ginocchio, sospesa in volo): Ci serve il tuo aiuto. Ti prego ti prego ti prego?
Jish esce dalla camera.
Interno, giorno, cucina di Brenda.
Josh si va a sedere davanti al piatto colmo di cibo. Uova, pancetta, frittelle, pane tostato, caraffa di succo d'arancia. Trevor, il padre di Josh, insegnante di letteratura, vestiti sempre stropicciati e stazzonati, un ciuffo di capelli sempre fuori posto, sta spiluccando senza appettito.
TREVOR: Josh?
JOSH (a bocca piena): Ciao papà.
TREVOR: Tua madre vuole sapere se ti droghi.
JOSH (tossendo): Cosa? No, dille che può stare tranquilla.
BRENDA (ai fornelli, di spalle): Odio quando fate così.
TREVOR: Se ti droghi puoi dirlo, non siamo una famiglia da romanzo minimalista, dove nessuno dice niente di significativo e la trama si svolge, per così dire, nonostante la
JOSH: Papà.
TREVOR: volontà dei personaggi che rimangono come alienati rispetto a
JOSH (ad alta voce);: Papà!
BRENDA: Non alzare la voce con tuo padre.
Trevor fa un cenno a Brenda per dire che è tutto a posto, non gli serve supporto.
TREVOR: Non pensare che i tuoi genitori non sappiano come ci si sente.
Josh vede il Folletto entrare in cucina e mettersi in ascolto accarenzandosi il pizzetto sul mento, in posa da intellettuale.
JOSH: Non ti seguo.
TREVOR (sospira, alza gli occhi al cielo): Anche noi siamo stati giovani. Sai, anche ai nostri tempi giravano delle sostanze.
JOSH: Sostanze?
BRENDA (tira un calcio a Trevor sotto il tavolo): Trev, amore, vuoi dell'altro caffè?
Il Folletto avanza barcollando, con un sorriso ebete sulla faccia, mima il gesto di chi lecca una cartina arrotolandosi una sigaretta.
TREVOR: Di qualsiasi cosa tu voglia parlare, tuo padre è qui. E dico qualsiasi, se fossi in te ne approfitterei, l'avessi avuta io quest'opportunità. Non hai idea dei cambiamenti che ci sono stati nel giro di due generazioni, se fai un paragone tra i romanzi scritti prima e dopo la guerra, parlo della seconda mondiale ovviamente, ti acorgerai delle
JOSH: Scusa Papà, devo andare, è tardi.
TREVOR: Ci siamo intesi, figliolo? Hai capito cosa intendo?
BRENDA: Ha capito, ha capito. Sbrigati, Josh.
JOSH (si alza): Sostanze allucinogene anche?
Trevor spalanca gli occhi, Brenda si porta la mano alla bocca.
JOSH: Scherzavo, ci siete cascati.
BRENDA: Se solo ti azzardi a prendere robaccia che ti distrugge il cervello io
TREVOR: Calmati, stava scherzando.
Josh esce.
BRENDA (a voce alta): ti ammanetto al calorifero, ti mando in comunità, ti spacco le gambe, ti strangolo!
FOLLETTO: Vecchia balorda.
Esterno, ingresso della scuola, giorno.
Josh si sta allacciando le scarpe su una pachina. Il Folletto esce dalla cartella appoggiata in terra. La Fatina è di nuovo aggrappata ai capelli di Josh.
JOSH: Almeno a scuola, datemi tregua.
FOLLETTO: Ti basta dire 'Ok, vi aiuto” e nel giro di un paio di giorni sistemiamo tutto.
JOSH: Due giorni, sicuro?
FATINA: Di' di sì, di' di sì, ti prego ti prego ti prego.
FOLLETTO: Due giorni, garantito.
JOSH: Se mi lasciate solo vi prometto che ne discuteremo seriamente stasera.
Genny, la prima della classe, vestiti provocanti, famiglia altolocata, molto meno bella e simpatica di quanto creda di essere.
GENNY: Con chi stai parlando? Sei uno svitato, lo sai?
JOSH: Sto ripassando ad alta voce.
GENNY (spingendo il petto in fuori e spostando dietro l'orecchio una ciocca di capelli): E cosa stavi ripassando, sfigologia?
JOSH: Sempre meglio di pacchianeria.
GENNY (con un gesto sprezzante): Oh! Ridete, ha fatto una battuta.
JOSH: Che vuoi?
GENNY (fa spallucce): Niente, mi chiedevo se avevi già letto i risultati del test di fisica.
JOSH: Sono già usciti?
GENNY (sorride e sbatte le ciglia): Sì, e anche stavolta non mi ha battuto.
La fatina vola sulla nuca di Genny e le dà un pizzico.
GENNY (spaventata): Cos'è stato?
JOSH (dissimulando): Non so di cosa parli.
GENNY: Davvero, vedi un'ape sul mio collo? Sono allergica, potrei morire.
JOSH: Fammi vedere. Sì, sembrerebbe un'ape.
Genny lascia cadere i libri e corre via urlando.
FOLLETTO: Stasera allora ti spiego il piano.
JOSH: No, non ho detto che accetto, ho detto solo...
FATINA: Ti prego ti prego ti prego!
FOLLETTO: Si tratta solo di dettagli, vedrai, sarà una passeggiata.
JOSH: No, aspetta.
Il folletto è già lontano che fa ciao con la mano. La fatina è con lui e si volta diverse volte a lanciargli un bacio. Suona la campanella della prima ora di scuola.
Josh, adolescente, appassionato di scienze, difficoltà di socializzazione.
Josh si sveglia, si alza si stiracchia, rabbrividisce, e inizia a vestirsi. Alle sue spalle un folletto in equilibrio sulla testiera del letto lo imita in ogni gesto. Josh lo vede nello specchio.
JOSH: Smettila, non sei divertente.
Il folletto salta sul comò con un'acrobazia.
FOLLETTO: Strano, mi è sembrato di sentire una voce ma non vedo nessuno.
Josh continua a vestirsi, da un calzino sbuca una fatina che prende il volo. Il folletto prende una moneta dal mucchietto sul comò e cerca di colpire la fatina. La moneta colpisce Josh in fronte.
JOSH (molla i vestiti e si porta le mani alla fronte): Adesso basta! Che male. Questa cosa deve finire!
Brenda, la madre di Josh, donna in carriera, precisa e autoritaria.
BRENDA (dalla cucina): Che succede? Sbrigati che si fredda.
JOSH (bisbigliando): Trovatevi qualcun altro, io qua, nel mondo reale, ho una vita da portare avanti.
FOLLETTO (falsetto): Io ho una vita, gringo, fatti da parte.
La fatina atterra sulla testa di Josh e si aggrappa ai capelli, fa una linguaccia al folletto. Si pare la porta della camera e sporge all'interno la testa di Brenda.
BRENDA: Allora? Pensi di farcela entro Natale?
FOLLETTO: Come fai a sopportarla?
JOSH: Arrivo, ho mai fatto tardi?
FOLLETTO: Vattene via, vecchia balorda!
BRENDA: Se fosse per te faresti sempre tardi, caro.
JOSH: Ti ho già detto che arrivo, posso vestirmi senza testimoni?
Brenda si offende, sbatte la porta.
JOSH (bisbiglia): Non ti rivolgere a mia madre in quei termini, non è vecchia né balorda.
FOLLETTO: Se lo dici tu?
Josh continua a vestirsi. La fatina vola davanti allo specchio e si sistema i capelli.
JOSH: Ve ne andrete mai?
FOLLETTO e FATINA: No.
FOLLETTO (imitazione del padrino): Lo sai come funziona, mano lava mano, ci sono delle regole, tu non stai valutando con la dovuta attenzione i termini dell'accordo.
JOSH: Non c'è nessun accordo!
BRENDA: Parli anche da solo, ti sento!
FOLLETTO: Se non c'è è perché ci sarà presto.
Josh ride, scuotendo la testa.
FATINA (in ginocchio, sospesa in volo): Ci serve il tuo aiuto. Ti prego ti prego ti prego?
Jish esce dalla camera.
Interno, giorno, cucina di Brenda.
Josh si va a sedere davanti al piatto colmo di cibo. Uova, pancetta, frittelle, pane tostato, caraffa di succo d'arancia. Trevor, il padre di Josh, insegnante di letteratura, vestiti sempre stropicciati e stazzonati, un ciuffo di capelli sempre fuori posto, sta spiluccando senza appettito.
TREVOR: Josh?
JOSH (a bocca piena): Ciao papà.
TREVOR: Tua madre vuole sapere se ti droghi.
JOSH (tossendo): Cosa? No, dille che può stare tranquilla.
BRENDA (ai fornelli, di spalle): Odio quando fate così.
TREVOR: Se ti droghi puoi dirlo, non siamo una famiglia da romanzo minimalista, dove nessuno dice niente di significativo e la trama si svolge, per così dire, nonostante la
JOSH: Papà.
TREVOR: volontà dei personaggi che rimangono come alienati rispetto a
JOSH (ad alta voce);: Papà!
BRENDA: Non alzare la voce con tuo padre.
Trevor fa un cenno a Brenda per dire che è tutto a posto, non gli serve supporto.
TREVOR: Non pensare che i tuoi genitori non sappiano come ci si sente.
Josh vede il Folletto entrare in cucina e mettersi in ascolto accarenzandosi il pizzetto sul mento, in posa da intellettuale.
JOSH: Non ti seguo.
TREVOR (sospira, alza gli occhi al cielo): Anche noi siamo stati giovani. Sai, anche ai nostri tempi giravano delle sostanze.
JOSH: Sostanze?
BRENDA (tira un calcio a Trevor sotto il tavolo): Trev, amore, vuoi dell'altro caffè?
Il Folletto avanza barcollando, con un sorriso ebete sulla faccia, mima il gesto di chi lecca una cartina arrotolandosi una sigaretta.
TREVOR: Di qualsiasi cosa tu voglia parlare, tuo padre è qui. E dico qualsiasi, se fossi in te ne approfitterei, l'avessi avuta io quest'opportunità. Non hai idea dei cambiamenti che ci sono stati nel giro di due generazioni, se fai un paragone tra i romanzi scritti prima e dopo la guerra, parlo della seconda mondiale ovviamente, ti acorgerai delle
JOSH: Scusa Papà, devo andare, è tardi.
TREVOR: Ci siamo intesi, figliolo? Hai capito cosa intendo?
BRENDA: Ha capito, ha capito. Sbrigati, Josh.
JOSH (si alza): Sostanze allucinogene anche?
Trevor spalanca gli occhi, Brenda si porta la mano alla bocca.
JOSH: Scherzavo, ci siete cascati.
BRENDA: Se solo ti azzardi a prendere robaccia che ti distrugge il cervello io
TREVOR: Calmati, stava scherzando.
Josh esce.
BRENDA (a voce alta): ti ammanetto al calorifero, ti mando in comunità, ti spacco le gambe, ti strangolo!
FOLLETTO: Vecchia balorda.
Esterno, ingresso della scuola, giorno.
Josh si sta allacciando le scarpe su una pachina. Il Folletto esce dalla cartella appoggiata in terra. La Fatina è di nuovo aggrappata ai capelli di Josh.
JOSH: Almeno a scuola, datemi tregua.
FOLLETTO: Ti basta dire 'Ok, vi aiuto” e nel giro di un paio di giorni sistemiamo tutto.
JOSH: Due giorni, sicuro?
FATINA: Di' di sì, di' di sì, ti prego ti prego ti prego.
FOLLETTO: Due giorni, garantito.
JOSH: Se mi lasciate solo vi prometto che ne discuteremo seriamente stasera.
Genny, la prima della classe, vestiti provocanti, famiglia altolocata, molto meno bella e simpatica di quanto creda di essere.
GENNY: Con chi stai parlando? Sei uno svitato, lo sai?
JOSH: Sto ripassando ad alta voce.
GENNY (spingendo il petto in fuori e spostando dietro l'orecchio una ciocca di capelli): E cosa stavi ripassando, sfigologia?
JOSH: Sempre meglio di pacchianeria.
GENNY (con un gesto sprezzante): Oh! Ridete, ha fatto una battuta.
JOSH: Che vuoi?
GENNY (fa spallucce): Niente, mi chiedevo se avevi già letto i risultati del test di fisica.
JOSH: Sono già usciti?
GENNY (sorride e sbatte le ciglia): Sì, e anche stavolta non mi ha battuto.
La fatina vola sulla nuca di Genny e le dà un pizzico.
GENNY (spaventata): Cos'è stato?
JOSH (dissimulando): Non so di cosa parli.
GENNY: Davvero, vedi un'ape sul mio collo? Sono allergica, potrei morire.
JOSH: Fammi vedere. Sì, sembrerebbe un'ape.
Genny lascia cadere i libri e corre via urlando.
FOLLETTO: Stasera allora ti spiego il piano.
JOSH: No, non ho detto che accetto, ho detto solo...
FATINA: Ti prego ti prego ti prego!
FOLLETTO: Si tratta solo di dettagli, vedrai, sarà una passeggiata.
JOSH: No, aspetta.
Il folletto è già lontano che fa ciao con la mano. La fatina è con lui e si volta diverse volte a lanciargli un bacio. Suona la campanella della prima ora di scuola.

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lunedì 15 marzo 2010
Le cose che cambiano quando c'hai un figlio (23 di N)
Quando c'hai un figlio a un certo punto gli devi spiegare perché certe cose muoiono.
“Papa, il mio pesciolino è coperto di zucchero.”
“Non mi sembra zucchero, sono bollicine, puntini bianchi forse.”
“Puntini bianchi?”
“Temo che si sia ammalato.”
“Perché non muove più la bocca?”
“Occazzo.”
“Non si dice quella parola!”
“Hai ragione, m'è scappata, scusa.”
Fisso il pesce, è proprio morto. Sono stato tratto in inganno dall'idea che i pesci morti finissero a galla, a pancia all'aria. Questo pesce rosso, invece è morto in piedi, si direbbe che è di plastica se non fosse per i puntini bianchi come zucchero a velo e le pupille opache e torbide, tipiche degli animali morti.
“Papa?”
“Dimmi”
“Il mio pesciolino si è ammalato?”
“Credo sia morto.”
“Lo portiamo dal dottore?”
“No, è morto.”
Picchia con le dita contro la plastica della boccia piena d'acqua. Il pesce non si muove.
“Non è morto, vedi?”
“Ti ricordi i fiori che sono diventati secchi?”
“I fiori?”
“Sì, sono seccati, sono morti e li abbiamo buttati via, ti ricordi?”
“Ma non è un fiore, è il mio pesciolino!”
“Ti ricordi le formiche, le schiacciavi col dito e morivano, non si muovevano più, si rompevano, finivano le pile.”
Picchia con le dita sulla boccia.
“Ma i pesci non hanno le pile, Papa, cosa dici, sei impazzito?”
Mi siedo e cerco di riflettere. Lui picchia le dita sulla boccia e parla col pesce morto, dice forza pesciolino, dài che ce la fai, muovi le pinne.
“Se non lo buttiamo inizierà a puzzare.”
“Ma io gli ho dato da mangiare, vero?”
“Sì, non è colpa tua, non è colpa di nessuno.”
“E l'acqua, abbiamo cambiato l'acqua, eh? Eh?!? L'hai cambiata?”
“Sì, l'ho cambiata. Si è ammalato, capita.”
“Perché si è ammalato?”
“Non lo so, un difetto genetico, un principio di autocoscienza.”
“Un principo di atocorrenza?”
“Sì, esatto. Prin-ci-pio di auto-co-scien-za.”
Mi guarda come guarda qualcuno che cerca di fargli digerire idiozie.
“Era vecchio, stanco e molto malato.”
“Povero pesciolino. Scusa pesciolino se sei morto. Adesso Papa ti dà la medicina e vedrai che ti passa.”
Mi gratto la testa, guardo fuori dalla finestra, mi succhio le guance.
“Dai, Papa, ti aiuto, cosa facciamo?”
“Lo buttiamo nel water.”
“Nel water? Ma nel water si fa la pipì e la cacca!”
“Sì, ma i pesci morti se li butti nel water tornano nel mare.”
Mi guarda poco convinto.
“C'è un tubo per i pesci che girano a destra e raggiungono tutti i loro amici pesciolini nel mare.”
“Davvero?”
“No, era una specie di metafora, finirà dritto nelle fogne. È morto, non c'è altro da fare.”
Lo portiamo in bagno e rovesciamo l'acqua e il pesce nel water. Così come non è venuto a galla nella boccia, se ne va giù per lo scarico direttamente, senza bisogno di tirare l'acqua. Quando si sporge e vede che non c'è più anche se nessuno ha tirato l'acqua si mette a piangere. Forte.
Ci sono tantissimi tipo di pianto e quando c'hai un figlio impari a riconoscere decine di variazioni di pianto, da quello di sofferenza che esige la più grande attenzione a quello che è solo stanchezza e necessita il conforto di un abbraccio. Il pianto del cordoglio è un pianto a sé stante, il peggiore forse.
“Ma io, Papa, mi manca il mio pesciolino!”
“Lo so, ma è la natura.”
“La natura?”
“Sì, dopo un po' i pesci muoiono, è normale.”
“Ma perché è morto?”
“Era molto malato. C'è come un orologio e quando finisce il tempo i pesci muoiono.”
Dico spesso i pesci, sto cercando di limitare il fenomeno della morte ai pesci, ho il terrore che mi chieda se morirò anch'io, se morirà anche lui, che da questo momento in poi si sentirà in dovere di controllare ogni minuto che tutti siano ancora vivi.
“Mi manca il mio pesciolino.”
“Ne compriamo un altro, eh? C'è pieno di pesci, li vendono al chilo.”
“Ma io...”
“Che ideona ha avuto Papa, andiamo a prenderne un altro.”
Faccio quello che è eccitato e felice all'idea, ma non mi riesce molto bene.
La discussione su pesciolino e morte è proseguita per ore. Ho coinvolto il negoziante, gli ho detto spieghi al bambino perfavore perché il suo pesciolino è morto. Lo stress, dice il negoziante. Geniale. Lo stress, ripeto io, capito? Lo stress, ecco cos'è stato. Il bimbo fa spallucce, annuisce e sceglie un nuovo pesce rosso, più bianco che rosso, magari pensa che essendo già bianco e vivo, i puntini bianchi non potranno mai ammazzarlo. O forse sono io che lo penso al posto suo. Portiamo a casa il nuovo pesce e ogni tot controlla che sia vivo e mi fa rapporto.
“È ancora vivo, Papa.”
“Grandioso.”
“Non è morto, si muove.”
Intanto io sono lì che valuto il modo in cui ho affrontato la situazione. Non mi sembra turbato, non mi sembra traumatizzato. Forse tutto sommato è andata bene, ha interiorizzato senza ripercussioni psicologiche l'esistenza della morte. Invece io mi sento ancora male e non riesco a capire perché.
“Papa, il mio pesciolino è coperto di zucchero.”
“Non mi sembra zucchero, sono bollicine, puntini bianchi forse.”
“Puntini bianchi?”
“Temo che si sia ammalato.”
“Perché non muove più la bocca?”
“Occazzo.”
“Non si dice quella parola!”
“Hai ragione, m'è scappata, scusa.”
Fisso il pesce, è proprio morto. Sono stato tratto in inganno dall'idea che i pesci morti finissero a galla, a pancia all'aria. Questo pesce rosso, invece è morto in piedi, si direbbe che è di plastica se non fosse per i puntini bianchi come zucchero a velo e le pupille opache e torbide, tipiche degli animali morti.
“Papa?”
“Dimmi”
“Il mio pesciolino si è ammalato?”
“Credo sia morto.”
“Lo portiamo dal dottore?”
“No, è morto.”
Picchia con le dita contro la plastica della boccia piena d'acqua. Il pesce non si muove.
“Non è morto, vedi?”
“Ti ricordi i fiori che sono diventati secchi?”
“I fiori?”
“Sì, sono seccati, sono morti e li abbiamo buttati via, ti ricordi?”
“Ma non è un fiore, è il mio pesciolino!”
“Ti ricordi le formiche, le schiacciavi col dito e morivano, non si muovevano più, si rompevano, finivano le pile.”
Picchia con le dita sulla boccia.
“Ma i pesci non hanno le pile, Papa, cosa dici, sei impazzito?”
Mi siedo e cerco di riflettere. Lui picchia le dita sulla boccia e parla col pesce morto, dice forza pesciolino, dài che ce la fai, muovi le pinne.
“Se non lo buttiamo inizierà a puzzare.”
“Ma io gli ho dato da mangiare, vero?”
“Sì, non è colpa tua, non è colpa di nessuno.”
“E l'acqua, abbiamo cambiato l'acqua, eh? Eh?!? L'hai cambiata?”
“Sì, l'ho cambiata. Si è ammalato, capita.”
“Perché si è ammalato?”
“Non lo so, un difetto genetico, un principio di autocoscienza.”
“Un principo di atocorrenza?”
“Sì, esatto. Prin-ci-pio di auto-co-scien-za.”
Mi guarda come guarda qualcuno che cerca di fargli digerire idiozie.
“Era vecchio, stanco e molto malato.”
“Povero pesciolino. Scusa pesciolino se sei morto. Adesso Papa ti dà la medicina e vedrai che ti passa.”
Mi gratto la testa, guardo fuori dalla finestra, mi succhio le guance.
“Dai, Papa, ti aiuto, cosa facciamo?”
“Lo buttiamo nel water.”
“Nel water? Ma nel water si fa la pipì e la cacca!”
“Sì, ma i pesci morti se li butti nel water tornano nel mare.”
Mi guarda poco convinto.
“C'è un tubo per i pesci che girano a destra e raggiungono tutti i loro amici pesciolini nel mare.”
“Davvero?”
“No, era una specie di metafora, finirà dritto nelle fogne. È morto, non c'è altro da fare.”
Lo portiamo in bagno e rovesciamo l'acqua e il pesce nel water. Così come non è venuto a galla nella boccia, se ne va giù per lo scarico direttamente, senza bisogno di tirare l'acqua. Quando si sporge e vede che non c'è più anche se nessuno ha tirato l'acqua si mette a piangere. Forte.
Ci sono tantissimi tipo di pianto e quando c'hai un figlio impari a riconoscere decine di variazioni di pianto, da quello di sofferenza che esige la più grande attenzione a quello che è solo stanchezza e necessita il conforto di un abbraccio. Il pianto del cordoglio è un pianto a sé stante, il peggiore forse.
“Ma io, Papa, mi manca il mio pesciolino!”
“Lo so, ma è la natura.”
“La natura?”
“Sì, dopo un po' i pesci muoiono, è normale.”
“Ma perché è morto?”
“Era molto malato. C'è come un orologio e quando finisce il tempo i pesci muoiono.”
Dico spesso i pesci, sto cercando di limitare il fenomeno della morte ai pesci, ho il terrore che mi chieda se morirò anch'io, se morirà anche lui, che da questo momento in poi si sentirà in dovere di controllare ogni minuto che tutti siano ancora vivi.
“Mi manca il mio pesciolino.”
“Ne compriamo un altro, eh? C'è pieno di pesci, li vendono al chilo.”
“Ma io...”
“Che ideona ha avuto Papa, andiamo a prenderne un altro.”
Faccio quello che è eccitato e felice all'idea, ma non mi riesce molto bene.
La discussione su pesciolino e morte è proseguita per ore. Ho coinvolto il negoziante, gli ho detto spieghi al bambino perfavore perché il suo pesciolino è morto. Lo stress, dice il negoziante. Geniale. Lo stress, ripeto io, capito? Lo stress, ecco cos'è stato. Il bimbo fa spallucce, annuisce e sceglie un nuovo pesce rosso, più bianco che rosso, magari pensa che essendo già bianco e vivo, i puntini bianchi non potranno mai ammazzarlo. O forse sono io che lo penso al posto suo. Portiamo a casa il nuovo pesce e ogni tot controlla che sia vivo e mi fa rapporto.
“È ancora vivo, Papa.”
“Grandioso.”
“Non è morto, si muove.”
Intanto io sono lì che valuto il modo in cui ho affrontato la situazione. Non mi sembra turbato, non mi sembra traumatizzato. Forse tutto sommato è andata bene, ha interiorizzato senza ripercussioni psicologiche l'esistenza della morte. Invece io mi sento ancora male e non riesco a capire perché.
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venerdì 12 marzo 2010
Asilo.
Dall'asilo escono alle tre e mezza, ma alcuni pagano un extra e possono ritirare i figli più tardi. Quando è ora la strada si riempie di macchine e, se non fa troppo freddo, di biciclette con uno o più seggiolini omologati. Per rendere la cosa più letteraria posso inserire una considerazione altamente significativa sul senso della vita (i giovani che passano con la radio a tutto volume, il subwoofer nel baule che fa vibrare le otturazioni e ancora non capiscono che un giorno contribuiranno a creare il traffico davanti all'asilo che ora li disturba, del tutto insofferenti all'esistenza di fasce di età differenti da quella 15-25) o sui sentimenti del protagonista (continua a pensare che un giorno tutto questo ti mancherà, dice a se stesso), però sono le 5 del mattino e ho in sottofondo la colona sonora di Quake II, hard metal, per cui forse non è il caso.
All'asilo mentre aspetti vedi tante cose succedere e dopo un po' conosci tutti, di vista intendo anche se azzardi un cenno di saluto a coloro che incrociano il tuo sguardo e non lo spostano immediatamente. Per esempio c'è la giovane mamma che urta la macchina vicina parcheggiando e fa finta di niente, controlla che nessuno abbia notato l'incidente, passa di nascosto la mano sul piccolo sfriso al paraurti e probabilmente immagina giustificazioni col marito, il padre, l'assicuratore, il magistrato, l'onnipotente alla fine dei tempi.
Ci sono dei trucchi per il parcheggio che impari col l'esperienza. Se trovi posto perpendicolare al marciapiede non entrare del tutto, lascia fuori il culo della macchina di un metro, sennò ti bloccano, mettono le quattro frecce e ti tocca aspettare i loro comodi. Se la lasci mezza fuori non hanno posto per piazzartela dietro. Tieni un mazzo di vecchi scontrini di avvenuto pagamento, tira fuori quello con l'ora giusta e sistemalo in modo che non si veda la data, un euro risparmiato è un euro guadagnato, anche se in realtà non serve, i vigili lo sanno che è l'uscita dell'asilo e a quell'ora non si fanno vedere o chiudono un occhio.
Tra la gente che viene all'asilo io aspetto di vedere la cieca. Per rendere il tutto più letterario posso usare un linguaggio più complicato (i suoi piedi disturbavano il leggero strato di polvere che ricopriva il marciapiede per l'intera lunghezza e il suono di piccoli usignoli infreddoliti echeggiava sulla persiane scolorite della finestra alle sue spalle, decorata con tendine a macramè, quando i suoi pensieri virarono come d'incanto al lontano giorno di primavera in cui lui la prese per mano) ma solo le 5:23 e hard metal eccetera.
La cieca usa un bastone e lo muove come l'antenna di un insetto meccanico eppure a volte non basta, urta una bicicletta appoggiata contro il muro, mette il piede su una cartaccia. La cieca di solito porta gli occhiali scuri ma non sempre, quando non li porta si vede che tiene gli occhi socchiusi e ha le pupille perlacee. Guardo sempre la cieca che arriva all'asilo e penso che lei non può sapere se qualcuno la sta osservando. Non lo trovo triste, solo curioso, come uno specchio che non riflette. Guardo ogni passo che fa per scoprire che succede, se il bastone le segnalerà un ostacolo anche minimo come un'imperfezione dell'asfalto, il bordo di un tombino. La cieca sorride quando arriva vicino all'asilo, trova sempre qualcuno che la conosce, la salutano, parlano con lei. Non lo fanno perché è cieca, un sacco di gente come me sta solo attento a non finirle tra i piedi, dato che è cieca, così vicino a lei c'è solo gente che la conosce davvero.
Tutti gli altri che non hanno problemi di vista si ammucchiano uno addosso all'altro, aspettando che la bidella apra le porte. Per rendere tutto più letterario posso far succedere qualcosa di interessante per sviluppare una trama (una scenata di gelosia, un terremoto, l'apparizione dell'antagonista) ma sono le 5:38 eccetera. Una volta la cieca era in compagnia di un altro cieco, però non calmo come lei, un cieco che muoveva la testa intorno, come a inseguire i suoni con le orecchie, per appropriarsene, per esserci completamente. Anche lui aveva un bastone ma teneva gli occhi chiusi e il suo sorriso era strano come quello di chi non ha mai visto sorridere nessuno, neanche se stesso. Lui non mi piaceva osservarlo, non era come la cieca, non mi faceva pensare che dopotutto essere ciechi era solo questione di abitudine.
La cieca a volte ho la sensazione che sappia tutto, che mi farebbe un cenno di saluto se potessimo incrociare gli sguardi. Ci conosce tutti per la diversa puzza che abbiamo, per i rumori che facciamo, per la quantità d'aria che spostiamo. Ci osserva come noi osserviamo lei, solo che i ciechi siamo noi. Se ci fosse un modo di incrociare gli sguardi senza incrociare gli sguardi farebbe cenni di saluto a tutti quanti. Non credo di essere il solo a pensarlo dal momento che quasi tutti evitano di guardarla, come se in qualche modo lei ci vedesse e facesse solo finta per ridere delle nostre reazioni. Poi rischia di inciampare in un gradino e allora lo capisci che è cieca davvero e quando capita diventi un po' triste. Se invece arriva dritta in cima alle scale e non continua a salirle dopo che sono finiti i gradini pensi wow e sorridi.
Potrei rendere tutto più letterario ma 5:51, la musica è finita, tanto vale preparare la colazione, un paio d'ore e apre l'asilo.
All'asilo mentre aspetti vedi tante cose succedere e dopo un po' conosci tutti, di vista intendo anche se azzardi un cenno di saluto a coloro che incrociano il tuo sguardo e non lo spostano immediatamente. Per esempio c'è la giovane mamma che urta la macchina vicina parcheggiando e fa finta di niente, controlla che nessuno abbia notato l'incidente, passa di nascosto la mano sul piccolo sfriso al paraurti e probabilmente immagina giustificazioni col marito, il padre, l'assicuratore, il magistrato, l'onnipotente alla fine dei tempi.
Ci sono dei trucchi per il parcheggio che impari col l'esperienza. Se trovi posto perpendicolare al marciapiede non entrare del tutto, lascia fuori il culo della macchina di un metro, sennò ti bloccano, mettono le quattro frecce e ti tocca aspettare i loro comodi. Se la lasci mezza fuori non hanno posto per piazzartela dietro. Tieni un mazzo di vecchi scontrini di avvenuto pagamento, tira fuori quello con l'ora giusta e sistemalo in modo che non si veda la data, un euro risparmiato è un euro guadagnato, anche se in realtà non serve, i vigili lo sanno che è l'uscita dell'asilo e a quell'ora non si fanno vedere o chiudono un occhio.
Tra la gente che viene all'asilo io aspetto di vedere la cieca. Per rendere il tutto più letterario posso usare un linguaggio più complicato (i suoi piedi disturbavano il leggero strato di polvere che ricopriva il marciapiede per l'intera lunghezza e il suono di piccoli usignoli infreddoliti echeggiava sulla persiane scolorite della finestra alle sue spalle, decorata con tendine a macramè, quando i suoi pensieri virarono come d'incanto al lontano giorno di primavera in cui lui la prese per mano) ma solo le 5:23 e hard metal eccetera.
La cieca usa un bastone e lo muove come l'antenna di un insetto meccanico eppure a volte non basta, urta una bicicletta appoggiata contro il muro, mette il piede su una cartaccia. La cieca di solito porta gli occhiali scuri ma non sempre, quando non li porta si vede che tiene gli occhi socchiusi e ha le pupille perlacee. Guardo sempre la cieca che arriva all'asilo e penso che lei non può sapere se qualcuno la sta osservando. Non lo trovo triste, solo curioso, come uno specchio che non riflette. Guardo ogni passo che fa per scoprire che succede, se il bastone le segnalerà un ostacolo anche minimo come un'imperfezione dell'asfalto, il bordo di un tombino. La cieca sorride quando arriva vicino all'asilo, trova sempre qualcuno che la conosce, la salutano, parlano con lei. Non lo fanno perché è cieca, un sacco di gente come me sta solo attento a non finirle tra i piedi, dato che è cieca, così vicino a lei c'è solo gente che la conosce davvero.
Tutti gli altri che non hanno problemi di vista si ammucchiano uno addosso all'altro, aspettando che la bidella apra le porte. Per rendere tutto più letterario posso far succedere qualcosa di interessante per sviluppare una trama (una scenata di gelosia, un terremoto, l'apparizione dell'antagonista) ma sono le 5:38 eccetera. Una volta la cieca era in compagnia di un altro cieco, però non calmo come lei, un cieco che muoveva la testa intorno, come a inseguire i suoni con le orecchie, per appropriarsene, per esserci completamente. Anche lui aveva un bastone ma teneva gli occhi chiusi e il suo sorriso era strano come quello di chi non ha mai visto sorridere nessuno, neanche se stesso. Lui non mi piaceva osservarlo, non era come la cieca, non mi faceva pensare che dopotutto essere ciechi era solo questione di abitudine.
La cieca a volte ho la sensazione che sappia tutto, che mi farebbe un cenno di saluto se potessimo incrociare gli sguardi. Ci conosce tutti per la diversa puzza che abbiamo, per i rumori che facciamo, per la quantità d'aria che spostiamo. Ci osserva come noi osserviamo lei, solo che i ciechi siamo noi. Se ci fosse un modo di incrociare gli sguardi senza incrociare gli sguardi farebbe cenni di saluto a tutti quanti. Non credo di essere il solo a pensarlo dal momento che quasi tutti evitano di guardarla, come se in qualche modo lei ci vedesse e facesse solo finta per ridere delle nostre reazioni. Poi rischia di inciampare in un gradino e allora lo capisci che è cieca davvero e quando capita diventi un po' triste. Se invece arriva dritta in cima alle scale e non continua a salirle dopo che sono finiti i gradini pensi wow e sorridi.
Potrei rendere tutto più letterario ma 5:51, la musica è finita, tanto vale preparare la colazione, un paio d'ore e apre l'asilo.
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lunedì 8 marzo 2010
Mazzi di cotone verniciato.
Oggi è la festa dello steampunk, si regalano ingranaggi, bulloni, pezzi di cavo. I bambini fanno il giro dell'isolato bussando alle porte e ricevono cuscinetti a sfera, punte di trapano, rocchetti di stagno. Ogni dono è accompagnato da batuffoli di cotone verniciato e da una serie precisa di movimenti robotici per rievocare la storia del piromane Tepek. I puristi non hanno ancora trovato un accordo sul gesto finale della mano col fiammifero e ognuno lo interpreta come preferisce.
Non si sa nemmeno se fosse davvero un fiammifero o un vero e proprio accendino, costruito con frammenti di selce e olio di lino. La storia del piromane Tepek affascina anche per la quantità di buchi che rimangono tali nonostante le molte ricostruzioni , argute e precise, e le infinite analisi argomentate da generazioni di intellettuali.
La versione più accreditata, come tutti sanno, comincia così: “Tepek aprì la porta del capanno e disse - lasciati cullare dal papiro Rakit, sviluppato dai laboratori dell'Oasi Rahgar, chiedilo nei migliori bazaar - e il suo sguardo venne subito attirato dai batuffoli di cotone.” Adesso è impossibile per noi concepire un'opera letteraria che non contenga messaggi pubblicitari, ma ai quei tempi si trattava di una rivoluzione.
Il piromane Tepek, siamo così abituati a vedere la sua effigie nei poster della propaganda, la sua figura nelle statue promozionali che decorano le nostre città, a volte ci scordiamo che si tratta di una persona realmente esistita. Le riduzioni teatrali della sua storia che i nostri bambini recitano nei teatri scolastici non esprime al meglio la sua caratteristica psicotica. Tepek era troppo avanti per i suoi contemporanei, forse è tuttora avanti, al punto che ogni cinque o dieci anni ci ritroviamo a reinterpretare daccapo la sua immensa filosofia.
Oggi è la sua festa e i capanni da caccia allestiti nei vari distretti ci ricordano la potenza di una tecnologia orientata al benessere interiore, svincolata dai bisogni materiali. Se non fosse per Tepek non parleremmo di strumentazione estetica o mistica dell'assemblaggio casuale. È impossibile per noi immaginare l'assenza di inserti di velluto e radica a ratificare i livelli di trascendenza nei vari oggetti ad alto contenuto tecnologico. Eppure prima del rogo di Tepek arte e scienza erano separate, collegate solo da fragili connessioni di marketing.
Gli esperti ammettono che Tepek potrebbe oppure no aver tentato di fermare Fanir, l'amico malvagio, la nemesi, la serpe in seno. Ormai il capanno da caccia stava prendendo fuoco e gli antichi scritti non ci dicono se Fanir è rientrato perché teneva moltissimo alla sua fionda – una riproduzione borchiata in tungsteno con pirografie runiche è in esposizione permanente nella capitale – o per eliminare una prova della sua presenza sul luogo del crimine. Fanir è sopravvissuto, nessuno si è fatto male, alcuni sospettano che Fanir sia in realtà un'invenzione letteraria di Tepek per descrivere una parabola sul significato del rischio calcolato.
Il capanno per la caccia di frodo ai fagiani che brucia, simbolo di rinnovamento che ha poi messo radici nelle tradizioni fenicie e riecheggia nella liturgia di alcuni riti celtici. L'originale non è traducibile in maniera letterale ma il senso dell'invocazione di Tepek a Fanir è pressapoco “Fermati, non essere stupido, perché rinunciare alla fresca delicatezza della salsa Jeresh, ora anche in formato famiglia?” Fanir che riesce a recuperare l'artefatto, Tepek che viene accusato di tentato omicidio e minacciato per strada con una mannaia dal padre di Fanir.
Chiunque si sarebbe arreso a quel punto, ma non il piromane Tepek. Non passarono due anni dall'invenzione dello scarabeo digitale servoassistito che venne elogiato personalmente dal Faraone in una serie di eventi sponsorizzati sul Nilo dal sindacato armatori della marina fluviale. La storia dello sviluppo industriale e del progresso commerciale sarebbe qualcosa di incomprensibile se Tepek fosse stato raggiunto da un colpo di mannaia.
La festa di oggi vuole ricordarci il salvataggio della civiltà umana per mano del piromane Tepek, il primo uomo ad aver capito l'importanza strategica di una intelligente consulenza di marketing. Tra le frasi celebri che preferisco c'è quella incisa sul frontale della biblioteca della mia città: “Non importa stabilire se è vero, conta solo trovare un messaggio convincente e decorato con le tinture Sakhif, le uniche che resistono a ripetuti lavaggi ad alte temperature.”

Autore dell'oggetto nell'immagine: http://alexcf.com/blog/
Non si sa nemmeno se fosse davvero un fiammifero o un vero e proprio accendino, costruito con frammenti di selce e olio di lino. La storia del piromane Tepek affascina anche per la quantità di buchi che rimangono tali nonostante le molte ricostruzioni , argute e precise, e le infinite analisi argomentate da generazioni di intellettuali.
La versione più accreditata, come tutti sanno, comincia così: “Tepek aprì la porta del capanno e disse - lasciati cullare dal papiro Rakit, sviluppato dai laboratori dell'Oasi Rahgar, chiedilo nei migliori bazaar - e il suo sguardo venne subito attirato dai batuffoli di cotone.” Adesso è impossibile per noi concepire un'opera letteraria che non contenga messaggi pubblicitari, ma ai quei tempi si trattava di una rivoluzione.
Il piromane Tepek, siamo così abituati a vedere la sua effigie nei poster della propaganda, la sua figura nelle statue promozionali che decorano le nostre città, a volte ci scordiamo che si tratta di una persona realmente esistita. Le riduzioni teatrali della sua storia che i nostri bambini recitano nei teatri scolastici non esprime al meglio la sua caratteristica psicotica. Tepek era troppo avanti per i suoi contemporanei, forse è tuttora avanti, al punto che ogni cinque o dieci anni ci ritroviamo a reinterpretare daccapo la sua immensa filosofia.
Oggi è la sua festa e i capanni da caccia allestiti nei vari distretti ci ricordano la potenza di una tecnologia orientata al benessere interiore, svincolata dai bisogni materiali. Se non fosse per Tepek non parleremmo di strumentazione estetica o mistica dell'assemblaggio casuale. È impossibile per noi immaginare l'assenza di inserti di velluto e radica a ratificare i livelli di trascendenza nei vari oggetti ad alto contenuto tecnologico. Eppure prima del rogo di Tepek arte e scienza erano separate, collegate solo da fragili connessioni di marketing.
Gli esperti ammettono che Tepek potrebbe oppure no aver tentato di fermare Fanir, l'amico malvagio, la nemesi, la serpe in seno. Ormai il capanno da caccia stava prendendo fuoco e gli antichi scritti non ci dicono se Fanir è rientrato perché teneva moltissimo alla sua fionda – una riproduzione borchiata in tungsteno con pirografie runiche è in esposizione permanente nella capitale – o per eliminare una prova della sua presenza sul luogo del crimine. Fanir è sopravvissuto, nessuno si è fatto male, alcuni sospettano che Fanir sia in realtà un'invenzione letteraria di Tepek per descrivere una parabola sul significato del rischio calcolato.
Il capanno per la caccia di frodo ai fagiani che brucia, simbolo di rinnovamento che ha poi messo radici nelle tradizioni fenicie e riecheggia nella liturgia di alcuni riti celtici. L'originale non è traducibile in maniera letterale ma il senso dell'invocazione di Tepek a Fanir è pressapoco “Fermati, non essere stupido, perché rinunciare alla fresca delicatezza della salsa Jeresh, ora anche in formato famiglia?” Fanir che riesce a recuperare l'artefatto, Tepek che viene accusato di tentato omicidio e minacciato per strada con una mannaia dal padre di Fanir.
Chiunque si sarebbe arreso a quel punto, ma non il piromane Tepek. Non passarono due anni dall'invenzione dello scarabeo digitale servoassistito che venne elogiato personalmente dal Faraone in una serie di eventi sponsorizzati sul Nilo dal sindacato armatori della marina fluviale. La storia dello sviluppo industriale e del progresso commerciale sarebbe qualcosa di incomprensibile se Tepek fosse stato raggiunto da un colpo di mannaia.
La festa di oggi vuole ricordarci il salvataggio della civiltà umana per mano del piromane Tepek, il primo uomo ad aver capito l'importanza strategica di una intelligente consulenza di marketing. Tra le frasi celebri che preferisco c'è quella incisa sul frontale della biblioteca della mia città: “Non importa stabilire se è vero, conta solo trovare un messaggio convincente e decorato con le tinture Sakhif, le uniche che resistono a ripetuti lavaggi ad alte temperature.”

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venerdì 5 marzo 2010
Dimostrare che un dato numero è trascendente può essere molto difficile.
ce come se la matematica fosse qualcosa a sé e me lo dice convinto quando asserisce che c'è gente portata per materie umanistiche e gente portata per la matematica il che dal mio punto di vista è come affermare che si può fare a meno del pensiero o che si può pensare senza usare il cervello allora gli dico ascoltami bene perché te lo dico una volta sola la matematica viene prima di tutto la matematica sei tu che apri gli occhi per la prima volta la matematica è dentro di te la matematica è l'unico modo che ha Dio per esistere senza prenderti a calci tutto il tempo per farti sapere che c'è la matematica è astrazione non alzo la voce non uso un tono brutale cerco di essere gentile anche se lui scuote la testa con quel suo odioso sorriso ironico faccio finta di niente non mi arrabbio e concludo dicendo l'astrazione è la capacità di concepire di estrapolare di concettualizzare per cui non venirmi a parlare di predisposizione di attitudine di inclinazione per farmi credere che esista qualcosa di equiparabile alla matematica che esista un territorio al di fuori della matematica in cui vivono esseri che possono fare a meno della matematica è un atto di superbia che trovo non solo banale ma anche penoso tu puoi credere quello che vuoi ma la verità è che se tu ignori la matematica non vuol dire che la matematica ignora te semplicemente ti permette di vivere nonostante il tuo rifiuto perché alla matematica in sostanza non gliene frega niente di te non ha bisogno di te ecco perché qualunque cosa tu faccia non te ne potrai mai liberare magari riesci a illuderti per un po' che sei al di sopra che non ti serve che sei libero ma i tuoi sforzi sono destinati a
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Che fine ha fatto Wilson?
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giovedì 4 marzo 2010
Omikron.
Un gioco che si chiama 'The nomad soul'. Mi è venuto in mente e non so perché. All'inizio ricevi un messaggio da un universo parallelo che inizia con: “Ho molte cose da dirti e poco tempo per farlo.” Poi ti chiede se vuoi che la tua anima entri nel suo corpo e per giocare devi dire sì. Entri nel corpo di un abitante di Omikron il quale incontra subito un demone che vuole ucciderlo per prendersi la tua anima. Il demone lo sa che l'anima è la tua, di te che credevi fosse solo un gioco, se uccide il corpo del personaggio del gioco si prenderà la tua, di anima. Qui si ride per ignorare i brividi nella schiena.
Quando suona il telefono lui sa benissimo chi c'è dall'altra parte. C'è chi aspetta il trillo della sveglia e chi il trillo del telefono. A volte mentre aspetta che suoni il telefono si addormenta sul serio, dorme in quel modo che in parte è un sotterfugio e in parte un senso di colpa. E sogna di aspettare il trillo del telefono solo che non arriva mai e la notte si prolunga, il sole non sorgerà mai più, ci sarà solo un telefono che non suona e un uomo sdraiato nel buio, in attesa, che a quel punto vorrebbe dormire ma non ha più sonno.
Omikron è governato da un computer e in questo computer vive un essere senziente che si è sviluppato al suo interno come un virus. Questa specie di coscienza del computer combatte per emergere e predica il risveglio scrivendo e divulgando canzoni. Una rete eversiva clandestina distribuisce le canzoni del virus attuando una forma non violenta di ribellione intrisa di misticismo. Qui le cose si complicano perché le canzoni dell'essenza-virus che vive in incognito nei circuiti del computer che governa Omikron le canta David Bowie.
A volte si chiede se lei abbia capito l'importanza di quella telefonata nel cuore della notte. Forse continua a chiamarlo anche se non ne ha più bisogno, anche se potrebbe ficcarlo in un bauletto come ha fatto con le decine di piccole cose che rappresentano la sua infanzia. La molletta con i brillantini fucsia, la testa della bambola che ha trovato sulla spiaggia, il biglietto decorato con il disegno dell'incredibile Hulk che le ha regalato per San Valentino il suo primo spasimante, un frammento di passamaneria sottratto dalla cesta del cucito della nonna. Il santuario del tempo perduto, lo chiama, sapendo quanto suo padre odi Proust, l'uomo chiamato logorrea. Il padre che prima di addormentarsi immagina lei che prende il telefono e compone il numero.
David Bowie canta su Omikron. Su Omikron ci sono piccoli demoni che si nascondono nell'ombra, pronti a uccidere il corpo dell'omikroniano che ospita la tua anima. Puoi cambiare corpo ma i demoni lo sanno se ci sei tu lì dentro. Quando cambi corpo l'omikroniano diventa una bambola nelle tue mani e devi comportarti in modo da non destare sospetti. Diventi una donna, un vecchio, un bambino, è una sensazione strana, con tutti quei demoni che devi abbattere ogni volta a colpi di arti marziali. A volte ti chiedi 'Cosa ci faccio qua?' ma quando spegni il computer e torni nel mondo reale la domanda rimane, come se davvero la tua anima fosse imprigionata su Omikron.
Quando suona il telefono vuol dire che è tutto a posto, il pianeta è ancora nella sua orbita, lei sente ancora il bisogno di avere un padre o almeno il bisogno di far finta, nessuno finirà in quel cazzo di bauletto, non stanotte. Quando suona il telefono è una festa, un gioco di prestigio, una manifestazione di sentimenti che sanno di arcobaleno e macedonia. Lui aspetta sempre il secondo trillo, a volte il terzo. Non è tanto il rispondere, il far finta di essere ancora mezzo addormentato, lo sbuffare nell'alzarsi per andare da lei simulando rassegnazione. È il trillo, quel suono meraviglioso di chi ti sta cercando e tu sai chi è, lei sa che tu sai, tu sai che lei sa che tu sai. Anche se facciamo finta di no, spingendo Proust fuori dalla testa, fuori dalla stanza, fuori dall'universo, a esercitare la sua logorrea su Omikron.
Quando suona il telefono lui sa benissimo chi c'è dall'altra parte. C'è chi aspetta il trillo della sveglia e chi il trillo del telefono. A volte mentre aspetta che suoni il telefono si addormenta sul serio, dorme in quel modo che in parte è un sotterfugio e in parte un senso di colpa. E sogna di aspettare il trillo del telefono solo che non arriva mai e la notte si prolunga, il sole non sorgerà mai più, ci sarà solo un telefono che non suona e un uomo sdraiato nel buio, in attesa, che a quel punto vorrebbe dormire ma non ha più sonno.
Omikron è governato da un computer e in questo computer vive un essere senziente che si è sviluppato al suo interno come un virus. Questa specie di coscienza del computer combatte per emergere e predica il risveglio scrivendo e divulgando canzoni. Una rete eversiva clandestina distribuisce le canzoni del virus attuando una forma non violenta di ribellione intrisa di misticismo. Qui le cose si complicano perché le canzoni dell'essenza-virus che vive in incognito nei circuiti del computer che governa Omikron le canta David Bowie.
A volte si chiede se lei abbia capito l'importanza di quella telefonata nel cuore della notte. Forse continua a chiamarlo anche se non ne ha più bisogno, anche se potrebbe ficcarlo in un bauletto come ha fatto con le decine di piccole cose che rappresentano la sua infanzia. La molletta con i brillantini fucsia, la testa della bambola che ha trovato sulla spiaggia, il biglietto decorato con il disegno dell'incredibile Hulk che le ha regalato per San Valentino il suo primo spasimante, un frammento di passamaneria sottratto dalla cesta del cucito della nonna. Il santuario del tempo perduto, lo chiama, sapendo quanto suo padre odi Proust, l'uomo chiamato logorrea. Il padre che prima di addormentarsi immagina lei che prende il telefono e compone il numero.
David Bowie canta su Omikron. Su Omikron ci sono piccoli demoni che si nascondono nell'ombra, pronti a uccidere il corpo dell'omikroniano che ospita la tua anima. Puoi cambiare corpo ma i demoni lo sanno se ci sei tu lì dentro. Quando cambi corpo l'omikroniano diventa una bambola nelle tue mani e devi comportarti in modo da non destare sospetti. Diventi una donna, un vecchio, un bambino, è una sensazione strana, con tutti quei demoni che devi abbattere ogni volta a colpi di arti marziali. A volte ti chiedi 'Cosa ci faccio qua?' ma quando spegni il computer e torni nel mondo reale la domanda rimane, come se davvero la tua anima fosse imprigionata su Omikron.
Quando suona il telefono vuol dire che è tutto a posto, il pianeta è ancora nella sua orbita, lei sente ancora il bisogno di avere un padre o almeno il bisogno di far finta, nessuno finirà in quel cazzo di bauletto, non stanotte. Quando suona il telefono è una festa, un gioco di prestigio, una manifestazione di sentimenti che sanno di arcobaleno e macedonia. Lui aspetta sempre il secondo trillo, a volte il terzo. Non è tanto il rispondere, il far finta di essere ancora mezzo addormentato, lo sbuffare nell'alzarsi per andare da lei simulando rassegnazione. È il trillo, quel suono meraviglioso di chi ti sta cercando e tu sai chi è, lei sa che tu sai, tu sai che lei sa che tu sai. Anche se facciamo finta di no, spingendo Proust fuori dalla testa, fuori dalla stanza, fuori dall'universo, a esercitare la sua logorrea su Omikron.
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martedì 2 marzo 2010
Corrispondenza (2~N)
Caro Raffaele, ti mando un grazie per la risposta che ho trovato nella casella di internet, voglio vedere la faccia delle mie mogli quando vedranno che non sono preso per in giro dal solito bianco (loro ti chiamano il solito bianco ma io non sono razzista come te e come loro per quello io non ti chiamo bianco ti chiamo quello là).
Se ti stai chiedendo chi sono per via della tua memoria inferiore ti aiuto io ti dico sono Maichol, con la h, e ti sto usando per scrivere il mio libro nel modo giusto, senza gli errori che la gente smette di leggere e va perduta la storia mirabolante (questa è una parola che da quando l'ho trovata mi piace molto usarla). Ti ricordi adesso? Lo spero per te e anche per me.
Il libro va bene, ho prodotto due ulteriori pagine mirabolanti che ti attacco in fondo che me le mandi indietro con calma, se riesci prima di domani sarebbe un ideale, io intanto vado avanti così finisco prima e divento ricco prima e le mie mogli smettono prima di tentare di uccidermi mentre dormo. So che ti interessa sapere come stanno i figli e le bambine del tuo amico e ti dico tutto bene amico mio, hanno sempre fame ma stanno bene e sorridono.
Ti ho aspettato ieri ma dopo un po' ho capito che la memoria di quello là non ha funzionato e quasi venivo a prenderti nella tua bella casa ma ho incontrato Jorge e, ti ho parlato di Jorge? Lavora fuori dalla stazione nella notte e di giorno ha sonno ma è venuto lo stesso, la sua memoria è ottima. È perché tengo separato il lavoro dalla vita, mi dice, e voglio passarti il mirabolante segreto: - posso usare qua i due punti? - prova anche tu a non comprare quello che vendi e stabiliamo se migliori.
Mi devo scusare con quello là, non ti ho mai chiesto cosa vendi e questo non fa di te un buon amico di Maichol. Cosa vendi? Io vendo il mio libro, appena lo finisco. L'ho detto anche a Jorge, facendolo smettere un momento di suonare per la manifestazione. Gli ho detto preparati Jorge, sono n arrivo mirabolanti novità. Lui ha detto mira cosa? E ha detto anche bel tessuto, bel lenzuolo, peccato averlo rovinato con la vernice.
Se venivi alla manifestazione vincevo la mirabolante scommessa ma non fa niente, non ti devi sentire la colpa addosso, lo so che è solo per la via della memoria. I soldi che ho scommesso andavano nella tasca delle mie mogli lo stesso prima o dopo, ma non avrebbero riso di me, l'amico del bianco. Solo che i figli non facevano che dirmi dov'è quello là e le bambine hanno capito che ero un po' triste di non vederti da nessuna parte – non sono come le mie mogli, le bambine, non ancora – e ho dovuto dire la bugia che eri mescolato nella folla. Usare una tua frase e dire mescolato nella folla mi sembrava che c'eri, in qualche modo.
Poi abbiamo ballato e cantato e nessuno ha pensato più alla tua persona tranne il mirabolante Maichol – mi piace questo trucco di dire io come fosse un lui – Il mirabolante Michol si chiedeva come sarebbe se quello là cantasse e ballasse ma non ha espresso la sua pensata perché conosceva già la risposta delle mogli che pensano che il bianco non sia capace. Allora ti faccio una domanda dell'intimità, tu nel tuo intimo canti e balli. Se la risposta è no il tuo amico Maichol ti permette di dire a tua volta una bugia perché dobbiamo almeno ogni tanto sapere che le mie mogli sbagliano.
Non voglio insegnare a te come fare ma concentrati sulla parte in cui uno dei miei figli di mezzo mi chiede il perché delle cose quando io sto guardando le mie scarpe. Mi sembra la parte più mirabolante e vistosa, sopra tutto quando la moglie numero due grida e noi non la ascoltiamo fino a quando la cosa diventa impossibile e allora smettiamo. Se venivi alla manifestazione potevamo ballare insieme e far divertire i figli e ridere le bambine e arrabbiare le mogli. Però ti perdono come si fa con gli amici così puoi continuare a essere amico di Maichol e tutto alla fine vedrai che tutto andrà bene.
Se ti stai chiedendo chi sono per via della tua memoria inferiore ti aiuto io ti dico sono Maichol, con la h, e ti sto usando per scrivere il mio libro nel modo giusto, senza gli errori che la gente smette di leggere e va perduta la storia mirabolante (questa è una parola che da quando l'ho trovata mi piace molto usarla). Ti ricordi adesso? Lo spero per te e anche per me.
Il libro va bene, ho prodotto due ulteriori pagine mirabolanti che ti attacco in fondo che me le mandi indietro con calma, se riesci prima di domani sarebbe un ideale, io intanto vado avanti così finisco prima e divento ricco prima e le mie mogli smettono prima di tentare di uccidermi mentre dormo. So che ti interessa sapere come stanno i figli e le bambine del tuo amico e ti dico tutto bene amico mio, hanno sempre fame ma stanno bene e sorridono.
Ti ho aspettato ieri ma dopo un po' ho capito che la memoria di quello là non ha funzionato e quasi venivo a prenderti nella tua bella casa ma ho incontrato Jorge e, ti ho parlato di Jorge? Lavora fuori dalla stazione nella notte e di giorno ha sonno ma è venuto lo stesso, la sua memoria è ottima. È perché tengo separato il lavoro dalla vita, mi dice, e voglio passarti il mirabolante segreto: - posso usare qua i due punti? - prova anche tu a non comprare quello che vendi e stabiliamo se migliori.
Mi devo scusare con quello là, non ti ho mai chiesto cosa vendi e questo non fa di te un buon amico di Maichol. Cosa vendi? Io vendo il mio libro, appena lo finisco. L'ho detto anche a Jorge, facendolo smettere un momento di suonare per la manifestazione. Gli ho detto preparati Jorge, sono n arrivo mirabolanti novità. Lui ha detto mira cosa? E ha detto anche bel tessuto, bel lenzuolo, peccato averlo rovinato con la vernice.
Se venivi alla manifestazione vincevo la mirabolante scommessa ma non fa niente, non ti devi sentire la colpa addosso, lo so che è solo per la via della memoria. I soldi che ho scommesso andavano nella tasca delle mie mogli lo stesso prima o dopo, ma non avrebbero riso di me, l'amico del bianco. Solo che i figli non facevano che dirmi dov'è quello là e le bambine hanno capito che ero un po' triste di non vederti da nessuna parte – non sono come le mie mogli, le bambine, non ancora – e ho dovuto dire la bugia che eri mescolato nella folla. Usare una tua frase e dire mescolato nella folla mi sembrava che c'eri, in qualche modo.
Poi abbiamo ballato e cantato e nessuno ha pensato più alla tua persona tranne il mirabolante Maichol – mi piace questo trucco di dire io come fosse un lui – Il mirabolante Michol si chiedeva come sarebbe se quello là cantasse e ballasse ma non ha espresso la sua pensata perché conosceva già la risposta delle mogli che pensano che il bianco non sia capace. Allora ti faccio una domanda dell'intimità, tu nel tuo intimo canti e balli. Se la risposta è no il tuo amico Maichol ti permette di dire a tua volta una bugia perché dobbiamo almeno ogni tanto sapere che le mie mogli sbagliano.
Non voglio insegnare a te come fare ma concentrati sulla parte in cui uno dei miei figli di mezzo mi chiede il perché delle cose quando io sto guardando le mie scarpe. Mi sembra la parte più mirabolante e vistosa, sopra tutto quando la moglie numero due grida e noi non la ascoltiamo fino a quando la cosa diventa impossibile e allora smettiamo. Se venivi alla manifestazione potevamo ballare insieme e far divertire i figli e ridere le bambine e arrabbiare le mogli. Però ti perdono come si fa con gli amici così puoi continuare a essere amico di Maichol e tutto alla fine vedrai che tutto andrà bene.
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lunedì 1 marzo 2010
Si chiama pesce, pesce rosso.
Tanto ha insistito che alla fine ho dovuto portarcelo, al negozio degli animali. Ci sono anche due squaletti, in un acquario rotondo, e girano girano girano. Prendi in braccio il piccolo per farglieli vedere da vicino. I due squaletti realizzano un loop infinito e vanno in senso antiorario, sempre. Gli occhi non si muovono, la bocca si apre e si chiude in maniera quasi impercettibile, a ritmo regolare, le branchie svolazzano come lenzuola stese nella brezza. Mio figlio si stufa di guardare gli squali nel giro di pochissimo.
Andando al negozio di animali c'era una coppia di sposini in posa per le foto, nel giardino di un ristorante. Un hummer formato limousine, bianco, decorato con fiocchi di plastica, con l'adesivo della ditta di noleggio sul baule, posteggiato lì vicino. Chissà fra dieci anni, ho pensato. Mi capita di andare soprappensiero, credo sia tipico di chi ha la mania di scrivere per separare da sé tutto ciò che ha immaginato, per depurarsi e tenere segrete solo le cose vere, autentiche. L'idea che un giorno non sarà più possibile, che il demone ti butti fuori e tutto quello che hai si riduca a cosa immaginate, a un sogno ad occhi aperti.
“Vieni papa, guardiamo i pesci.”
Questa volta ne compreremo uno. Spero non voglia la tartarughina perché ne ho avuta una da piccolo e nessuno si accorse che era morta finché non iniziò a puzzare. Gli davo dei colpetti col dito per farla muovere ma non volevo svegliarla. Non ero più così' piccolo da non sapere che la realtà non era come la televisione, come i libri, come le storie che si raccontano i grandi per non alzare bandiera bianca e sdraiarsi in terra, in mezzo alla strada, cessando di insistere nell'aggiustare le cose. Ecco, pensavo, le tartarughe nella realtà dopo qualche giorno, quando ottengono di essere comprate e portate a casa, smettono di insistere, si sdraiano lì dove sono e dormono tutto il tempo.
Questi sposini che rimangono immobili nel giardino del ristorante specializzato in pranzi matrimoniali e roba simile. Agape svuotato di senso, come il lento ruotare di lancette a forma di squalo. Me li vedo tra dieci anni a guardare quelle foto e lui dirà a lei, o viceversa, ti ricordi l'hummer? Quale hummer? Non ti ricordi? Ah, la limousine dici, certo che me la ricordo. E si baceranno pieni di affetto e riconoscenza, penseranno al fotografo e si chiederanno che fine avrà fatto, come si chiamava? Forse dovremmo contattarlo, farci fare altre foto per il decimo anniversario. Hai ragione, caro o cara, e rinoleggiamo la macchina, rifacciamo tutto, che idea magnifica.
I pesci rossi non si possono scegliere, questo dice il cartello. Meno male che non vuole quelli tropicali, quelli strani, quelli di mille colori. È quando succede che gli va bene anche un misero pesce rosso, nemmeno gli è dato di sceglierlo, che mi si spezza il cuore solo a guardarlo. Mi sembra un essere molto più degno di me, che esprime una saggezza a me preclusa, un essere meritevole di qualsiasi sacrificio da parte mia. È contento, ride. Come lo chiamiamo, gli chiedo. E lui risponde come se fosse una domanda stupida. Lo chiamo pesce, pesce rosso. Non dare mai nome alle cose, traduce qualcosa dentro di me, e mi rendo conto di non sapere come si chiamasse la tartaruga.
Gli sposini raggiungeranno gli ospiti e partiranno i festeggiamenti. Canti, balli, risate. Non saranno di quelli che a lei fanno male i piedi e lui vorrebbe dar fuoco al locale, no, saranno perfetti. Tra dieci anni non sarà cambiato nulla, come in certi film, in certi libri, che vanno avanti come squaletti in un acquario rotondo per tutta la vita, e a un certo punto muoiono insieme, nello stesso momento, abbracciati, col sorriso sulle labbra. Nel loro mondo le tartarughe vanno a batteria, i pesci rossi ne scegli uno fra mille e quello diventerà speciale, avrà un nome tutto suo, sarà un pesce amato e quando si sposerà noleggerà a sua volta un hummer.
Andando al negozio di animali c'era una coppia di sposini in posa per le foto, nel giardino di un ristorante. Un hummer formato limousine, bianco, decorato con fiocchi di plastica, con l'adesivo della ditta di noleggio sul baule, posteggiato lì vicino. Chissà fra dieci anni, ho pensato. Mi capita di andare soprappensiero, credo sia tipico di chi ha la mania di scrivere per separare da sé tutto ciò che ha immaginato, per depurarsi e tenere segrete solo le cose vere, autentiche. L'idea che un giorno non sarà più possibile, che il demone ti butti fuori e tutto quello che hai si riduca a cosa immaginate, a un sogno ad occhi aperti.
“Vieni papa, guardiamo i pesci.”
Questa volta ne compreremo uno. Spero non voglia la tartarughina perché ne ho avuta una da piccolo e nessuno si accorse che era morta finché non iniziò a puzzare. Gli davo dei colpetti col dito per farla muovere ma non volevo svegliarla. Non ero più così' piccolo da non sapere che la realtà non era come la televisione, come i libri, come le storie che si raccontano i grandi per non alzare bandiera bianca e sdraiarsi in terra, in mezzo alla strada, cessando di insistere nell'aggiustare le cose. Ecco, pensavo, le tartarughe nella realtà dopo qualche giorno, quando ottengono di essere comprate e portate a casa, smettono di insistere, si sdraiano lì dove sono e dormono tutto il tempo.
Questi sposini che rimangono immobili nel giardino del ristorante specializzato in pranzi matrimoniali e roba simile. Agape svuotato di senso, come il lento ruotare di lancette a forma di squalo. Me li vedo tra dieci anni a guardare quelle foto e lui dirà a lei, o viceversa, ti ricordi l'hummer? Quale hummer? Non ti ricordi? Ah, la limousine dici, certo che me la ricordo. E si baceranno pieni di affetto e riconoscenza, penseranno al fotografo e si chiederanno che fine avrà fatto, come si chiamava? Forse dovremmo contattarlo, farci fare altre foto per il decimo anniversario. Hai ragione, caro o cara, e rinoleggiamo la macchina, rifacciamo tutto, che idea magnifica.
I pesci rossi non si possono scegliere, questo dice il cartello. Meno male che non vuole quelli tropicali, quelli strani, quelli di mille colori. È quando succede che gli va bene anche un misero pesce rosso, nemmeno gli è dato di sceglierlo, che mi si spezza il cuore solo a guardarlo. Mi sembra un essere molto più degno di me, che esprime una saggezza a me preclusa, un essere meritevole di qualsiasi sacrificio da parte mia. È contento, ride. Come lo chiamiamo, gli chiedo. E lui risponde come se fosse una domanda stupida. Lo chiamo pesce, pesce rosso. Non dare mai nome alle cose, traduce qualcosa dentro di me, e mi rendo conto di non sapere come si chiamasse la tartaruga.
Gli sposini raggiungeranno gli ospiti e partiranno i festeggiamenti. Canti, balli, risate. Non saranno di quelli che a lei fanno male i piedi e lui vorrebbe dar fuoco al locale, no, saranno perfetti. Tra dieci anni non sarà cambiato nulla, come in certi film, in certi libri, che vanno avanti come squaletti in un acquario rotondo per tutta la vita, e a un certo punto muoiono insieme, nello stesso momento, abbracciati, col sorriso sulle labbra. Nel loro mondo le tartarughe vanno a batteria, i pesci rossi ne scegli uno fra mille e quello diventerà speciale, avrà un nome tutto suo, sarà un pesce amato e quando si sposerà noleggerà a sua volta un hummer.

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jambo rafiki
A volte ricevo richieste di amicizia. Mi fa piacere quando succede perché io non conosco nessuno e non è che non ci dorma la notte al pensiero di non conoscere nessuno. C'è gente che ha qualcosa come centinaia di amici e mi appaiono come esseri mitici, a me che sembrano tantissimi anche dieci. Come si gestiscono cento amici, mi trovo a chiedermi quando ricevo una richiesta di amicizia da una persona che non ho mai visto in vita mia o, peggio, l'ho conosciuta e me la sono dimenticata. Immagino telefonate che si susseguono, appuntamenti a raffica, decine di dialoghi da sostenere, da quelli su argomenti frivoli a quelli molto più impegnativi. Gestire cento amici dev'essere peggio che lavorare in miniera.
Quando ricevo una nuova richiesta di amicizia per prima cosa mando un messaggio. Dico scusami non mi ricordo più di te. Rinfrescami la memoria, dico. Dico mi devi perdonare ma in questo momento non riesco proprio a trovarti nei miei ricordi. Nessuno mi risponde mai. Ha il coraggio di chiedere la mia amicizia, mica roba da poco, e non mi risponde nemmeno. Non so, dimmi che hai sbagliato persona, che mi hai preso per qualcun altro. Fai finta di avermi incontrato tanto tempo fa. Dimmi che non sai chi sono ma hai avuto come un'intuizione, qualcosa di inspiegabile ti ha spinto a desiderare di essermi amico. Qualcosa insomma, che non sia solo espressione di un errore casuale.
Per esempio ho ricevuto la richiesta di un giovanotto che si mostra in foto a torso nudo, sdraiato sul letto. Tra le informazioni al pubblico leggo che ha fatto la Bocconi, è scritto al gruppo dei pizzaioli, ed è un fan di manga giapponesi. Dove e quando avrò mai incontrato questo tizio in vita mia? Come mai si ricorda di me? Perché vuole essermi amico? Gli ho scritto il solito messaggio in cui esprimo la mia perplessità ma non mi ha risposto. È come essere circondati da muti che ti fissano. Una sensazione orribile.
Vedo che le poche persone che ho nella lista dei miei amici ogni giorno accettano nuove amicizie e resto interdetto. Mi chiedo e se stai accettando l'amicizia di un pazzo? Ha delle controindicazioni far figurare come amici degli sconosciuti oppure no? Ha dei lati positivi sfoggiare mille amici inventati? Gli amici servono solo per avere qualcuno che ti concima l'orto virtuale del giochino stupido, per partecipare a “se raggiungiamo un milione di iscritti mi faccio prete?”, a far sapere al maggior numero di persone possibile che sei fan del panzerotto?
Ieri ne è arrivata un'altra. Una ragazza che avrà almeno dieci anni meno di me. Relazione complicata, ama amare, è fan dei baci, dell'aperitivo e di Vasco. Le ho scritto che proprio non me lo ricordo chi sia. Detesto le relazioni complicate, trovo stucchevoli i giochi di parole e i sentimenti dozzinali, i baci non sono il mio passatempo preferito, l'aperitivo è una perdita di tempo e Vasco non lo ascolto più dal 1985. Forse c'è in giro uno che mi somiglia, con un nome simile al mio, e la sua vita è votata al conoscere gente nuova, alla socializzazione estrema. Magari si sta chiedendo perché la richiesta di amicizia di questa ragazza non gli è ancora arrivata. E la ragazza si è arrabbiata pensando guarda un po', sembrava uno così ammodo e adesso fa finta di non ricordarsi di me.
Così ho pensato di modificare il messaggio standard. Ci aggiungo guarda c'è stato un errore, può darsi che tu stia cercando il tizio simpatico che mi somiglia. Non me la sento di assumermi l'impegno di un'amicizia sapendo che la persona che cerchi è qualcun altro. Se ci siamo conosciuti e non mi ricordo di te forse c'è un motivo. Se invece non ci conosciamo dovremmo prima almeno scambiarci un paio di messaggi per capire se un'amicizia anche delle più superficiali è possibile. Se invece davvero vendete tappeti, allora Buon Natale.
Quando ricevo una nuova richiesta di amicizia per prima cosa mando un messaggio. Dico scusami non mi ricordo più di te. Rinfrescami la memoria, dico. Dico mi devi perdonare ma in questo momento non riesco proprio a trovarti nei miei ricordi. Nessuno mi risponde mai. Ha il coraggio di chiedere la mia amicizia, mica roba da poco, e non mi risponde nemmeno. Non so, dimmi che hai sbagliato persona, che mi hai preso per qualcun altro. Fai finta di avermi incontrato tanto tempo fa. Dimmi che non sai chi sono ma hai avuto come un'intuizione, qualcosa di inspiegabile ti ha spinto a desiderare di essermi amico. Qualcosa insomma, che non sia solo espressione di un errore casuale.
Per esempio ho ricevuto la richiesta di un giovanotto che si mostra in foto a torso nudo, sdraiato sul letto. Tra le informazioni al pubblico leggo che ha fatto la Bocconi, è scritto al gruppo dei pizzaioli, ed è un fan di manga giapponesi. Dove e quando avrò mai incontrato questo tizio in vita mia? Come mai si ricorda di me? Perché vuole essermi amico? Gli ho scritto il solito messaggio in cui esprimo la mia perplessità ma non mi ha risposto. È come essere circondati da muti che ti fissano. Una sensazione orribile.
Vedo che le poche persone che ho nella lista dei miei amici ogni giorno accettano nuove amicizie e resto interdetto. Mi chiedo e se stai accettando l'amicizia di un pazzo? Ha delle controindicazioni far figurare come amici degli sconosciuti oppure no? Ha dei lati positivi sfoggiare mille amici inventati? Gli amici servono solo per avere qualcuno che ti concima l'orto virtuale del giochino stupido, per partecipare a “se raggiungiamo un milione di iscritti mi faccio prete?”, a far sapere al maggior numero di persone possibile che sei fan del panzerotto?
Ieri ne è arrivata un'altra. Una ragazza che avrà almeno dieci anni meno di me. Relazione complicata, ama amare, è fan dei baci, dell'aperitivo e di Vasco. Le ho scritto che proprio non me lo ricordo chi sia. Detesto le relazioni complicate, trovo stucchevoli i giochi di parole e i sentimenti dozzinali, i baci non sono il mio passatempo preferito, l'aperitivo è una perdita di tempo e Vasco non lo ascolto più dal 1985. Forse c'è in giro uno che mi somiglia, con un nome simile al mio, e la sua vita è votata al conoscere gente nuova, alla socializzazione estrema. Magari si sta chiedendo perché la richiesta di amicizia di questa ragazza non gli è ancora arrivata. E la ragazza si è arrabbiata pensando guarda un po', sembrava uno così ammodo e adesso fa finta di non ricordarsi di me.
Così ho pensato di modificare il messaggio standard. Ci aggiungo guarda c'è stato un errore, può darsi che tu stia cercando il tizio simpatico che mi somiglia. Non me la sento di assumermi l'impegno di un'amicizia sapendo che la persona che cerchi è qualcun altro. Se ci siamo conosciuti e non mi ricordo di te forse c'è un motivo. Se invece non ci conosciamo dovremmo prima almeno scambiarci un paio di messaggi per capire se un'amicizia anche delle più superficiali è possibile. Se invece davvero vendete tappeti, allora Buon Natale.
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