mercoledì 25 maggio 2011

Il crocevia dei sognatori (002)

Non poteva sopportare di starsene lì buono in attesa. Neanche un minuto di più, la fronte appoggiata al vetro, le mani aggrappate ai tendaggi, sforzandosi di tenere fuori dalla testa la voce di lei, il flusso incessante di parole che la bocca di lei macinava senza pause, al solo scopo di stordirlo, di abbatterne le difese in modo da afferrarlo con tentacoli fatti di suono e trascinarlo per i piedi, tirarselo dentro alla bocca e masticarlo vivo, obbligare il suo corpo a sprizzare fuori dai pori i sentimenti, i sogni, l'energia vitale, succhi densi e luminosi che lei avrebbe raccolto nello spazio fra guance e gengive, come uno scoiattolo preoccupato per l'inverno, la pelliccia che freme e trasporta sottopelle i brividi fino alla punta della coda, è così che le parole escono dalla bocca di lei, seduta sul letto da qualche parte, alle sue spalle, seduta composta a modulare la velocità del suono affinché riesca a trapanare l'attenzione, a provocare turbamento, ansia, senso di profonda disperazione. E adesso cosa faremo, Tom? Fa questo tipo di domande, la voce di lei. Non abbiamo un posto dove andare. Dice cose di questo genere, la voce di lei. È qualcosa da tener fuori allo stesso modo del vento settembrino, l'unico vento che porta la nebbia fra le mille cime pinose e spinge il Cacciatore a far ritorno al crocevia dei sognatori, arrampicarsi fino al tetto, entrare nella sua stanza pericolante, in bilico sul tetto d'ardesia della locanda, e gettarsi bocconi sulla branda, le mani premute sulle orecchie.

Tom? Dice la voce di lei. Mi stai ascoltando? E poi dice Cosa stai facendo? Dove credi di andare? E rimane sulla porta a guardarlo correre sotto la pioggia, sapendo che è tutto quel che le riesce di fare, sapendo di avercela messa tutta per farlo rimanere. Sulla destra vede lampeggiare le luci rosse e blu dei mezzi di soccorso, alcuni fanno rifornimento di carburante o di acqua, altri sostano in attesa di chiamate d'urgenza, altri permettono ai più stanchi di entrare al punto di ristoro per un boccone o di utilizzare una delle stanze per farsi una doccia, magari chiudere gli occhi qualche ora. La pioggia finalmente è arrivata, quando ormai non rimane più niente da proteggere, nessuno da salvare, le fiamme hanno avuto tutto il tempo di fare i loro comodi, hanno banchettato, hanno festeggiato, lasciando i pavimenti sporchi di cenere, la mobilia carbonizzata, le vittime dei loro scherzi crudeli sono pupazzi ritrovati con la mano tesa verso l'ultima speranza o in posizione fetale. Tom? Dice la voce di lei anche se lui è ormai troppo lontano, diretto verso la fila dei superstiti seduti in terra, sul marciapiede, dove una donna che fa la spola con tazze di caffè caldo indossa un grembiule troppo macchiato per qualunque sapone. Tom prende un telo cerato identico a quello indossato dai superstiti, un grezzo poncho decorato a fasce catarifrangenti, e si sente subito meglio, si sente a proprio agio, parte di qualcosa finalmente in grado di consolarlo.

Un superstite è a torso nudo, ha seguito la scena e ora osserva Tom come si guarda un corvo intento a beccare i resti di un suo simile. La difficoltà di leggere l'espressione del superstite è dovuta in parte alla benda che porta sull'occhio destro, che gli dà un aspetto da spilorcio e canaglia, accentuata dai rotoli di grasso a coprire la cintura e dalla generale tensione del corpo di chi è abituato a stare sulla difensiva. Il Guercio picchietta la lunga unghia del mignolo sul bordo del bicchiere di polistirolo che tiene fra le mani e sorride, ha l'aria soddisfatta di chi sta alla finestra e si gode non visto la scena dall'alto, sporgendosi per sbirciare oltre i limiti della cornice. La mente di Tom si rifiuta di credere che sia un sorriso, decide per lui che si tratta di una smorfia di disgusto, di rabbia, per via del dolore, della perdita, per colpa dell'incendio. Tom si sente chiamare, la voce non è come quella di lei, che ti penetra il cervello e lo fa a brandelli, no, è una voce di donna che lo chiama Ragazzo, gli dice Ehi ragazzo, che gli sembra di essere ancora a letto quando è la terza volta che mamma chiama. Però la donna non assomiglia alla mamma, indossa una retina fucsia su capelli grigi e grossi e rigidi come fil di ferro, ha gli avambracci muscolosi dei camionisti, la peluria scura sotto il naso della menopausa, gli dice Sveglia ragazzo, prendi questo, e gli consegna il caffè con la violenza trattenuta del ringraziami se non te lo tiro addosso.

Il Guercio strizza la palpebra e Tom non capisce se avrebbe strizzato anche quella dell'occhio mancante o se è un segnale di complicità. Il Guercio ammicca per la seconda volta, stacca una mano dal bicchiere e schiaffeggia il marciapiede, invitando Tom a sedersi lì accanto, lo tira per il gomito, gli circonda la schiena col braccio nudo e gli dice Lasciala perdere, la Capa è una vecchia acida, e attacca a parlargli come se lo conoscesse da sempre. Tom sente l'odore dell'alcol nel sudore e nell'alito del Guercio. Tom distoglie la faccia, si discosta fisicamente per avere il tempo di abituarsi, perché di stare in mezzo ai superstiti è ciò di cui ha bisogno e se per farlo deve sopportare un po' di puzza, ebbene, che sarà mai? Il Guercio estrae dalla tasca posteriore una fiaschetta e dice Vuoi dare sapore a quella roba che la Capa ci ha rifilato? E ammicca di nuovo, stavolta Tom non ha dubbi a riguardo, toglie il coperchio di plastica e allunga il bicchiere. Il Guercio è contrariato, non si aspettava che Tom accettasse l'offerta, infatti versa un quantitativo irrisorio di liquore e quando riavvita il tappo ammicca per la terza? la quarta? volta e batte l'unghia del mignolo sul cuoio decorato che avvolge e protegge il contenitore metallico. Dice Ottima qualità. Dice Un pezzo raro e prezioso sia dentro che fuori. Dice ti interessi di tesori e pezzi antichi? Tom scuote la testa. Il Guercio riprende a parlare, non è una voce che mastica, non è una voce che picchia, è una voce che culla, una voce che inganna.

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