mercoledì 6 ottobre 2010

Mr Nobody

Alcuni mi chiamano Craft (Can't Remember A Fucking Thing), dice il protagonista all'inizio del film, l'unico uomo sulla Terra che la tecnologia non ha reso immortale, l'ultimo uomo che sperimenterà la morte. Proprio la sua mortalità lo rende degno di attenzione, ogni istante della sua vita viene registrato e riprodotto su tutti i televisori perché la gente è curiosa di capire cosa si pensa e si prova a vivere nella consapevolezza di avere un tempo limitato di fronte a sé.

Un film che pone interrogativi filosofici, che vuole indagare il significato del tempo per avere la scusa di proporre in filigrana riflessioni ontologiche: l'essere, il divenire, la volontà, l'amore, cosa c'è prima e dopo la vita, principio originario e universi multipli e significato del tutto. Un obiettivo così elevato potrebbe sfociare in un minestrone insipido e stucchevole, ma nel caso specifico il risultato è apprezzabile. A parte la sovrabbondanza di scene drammatiche legate a vicende sentimentali che sfiorano la ridondanza e l'appiattimento su tematiche e pruriti adolescenziali, si deve ammettere che sono anch'esse necessarie come collante narrativo e contribuiscono a spezzare la tensione mentale che trascinerebbe la trama in un labirinto sterilmente cervellotico.

Il cardine attorno al quale gira la storia è una singola scelta che segna il confine tra un prima fatto di sicurezze, di serenità, di teorico proseguimento di una condizione prenatale idilliaca, e un dopo, fatto di bivii, di strade senza uscita, il delta frastagliato di un fiume in cui ogni ramo è vita vissuta a scapito di qualsiasi altra possibile, di cui ci resta ignoto quanto più desiderabile o meno potrebbe essere. In questo percorso l'autore vuole aggiungere anche lo zampino del caso, visualizzato però nella forma meccanica della teoria del caos, dove è sempre possibile supporre una matematica dell'iterazione nell'apparenza del fortuito, senza che questo possa fornire certezze, rendere immuni dal bisogno di quel mistero fondante che autorizza la fede.

Il signor Craft viene indotto a ricordare il suo passato tramite l'ipnosi, a indicare che il protagonista non sta fantasticando e quindi siamo tenuti a prendere per autentica la sua rievocazione almeno nella misura e nei parametri in cui è reale e veritiera all'interno della sua testimonianza. L'autore ci mostra paradossi, iperboli, antinomie, in una giostra di riflessioni che scivolano sopra, dentro, attraverso la storia senza mai porsi alla nostra attenzione con urgenza o prepotenza. Riflessioni sottotono che danno struttura e densità a una storia che risulta banale a chi non sappia cogliere i riferimenti, le allusioni, gli inviti a una metalettura.

Un punto focale è rappresentato dal dilemma in cui si trova il protagonista nel punto sopracitato, al confine con l'illuminazione, o con la caduta, laddove esplode l'innesco che ci proietta fuori dal giardino dell'infanzia innocente e ci lancia nell'inferno della maturità a bordo del primo vero, incancellabile, insuperabile, senso di colpa della nostra vita. Qui sboccia e si dipana la comprensione dell'irrimediabilità insita in ogni scelta, anche la più piccola ed erroneamente trascurabile. La situazione è resa nella forma tragica e archetipica, mettendo il protagonista nella condizione di dover scegliere tra la morte (in senso figurato) del padre e quella della madre.

Da qui procedono dilemmi simili, come la scelta del tipo di amore in cui credere e al quale sacrificarsi, oppure il coraggio di affrontare i nostri limiti (nel film identificata nell'acqua, nella paura/bisogno di affrontare e vincere l'acqua, nuotare o annegare nel tentativo), il mantenimento delle promesse più ambiziose e irrealistiche che ci vengano strappate (l'Isacco biblico qui inserito nell'assurdo proposito di spargere le ceneri di una persona su Marte).

E infine il premio, l'aldilà, che viene proposto nel film come conclusione espressiva del gioco di un dio bambino che ha di fronte a sé diverse opzioni tutte sbagliate come quelle del protagonista quando deve scegliere tra padre e madre. Eppure ecco il colpo di genio, la terza via, l'uscita di servizio. Il protagonista bambino non sceglie nessuno dei due e se ne va da solo. Il dio bambino si esprime in un universo che smette di espandersi e inizia a comprimersi, così facendo inverte il corso del tempo e distrugge tutto quello che è stato, elimina così facendo il dilemma e, forse, compie in questo modo il sacrificio più estremo annichilendo se stesso.

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