giovedì 26 febbraio 2009

L'araldo di Postacqua (1 di n)

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Fu Lucia a trovare il corpo carbonizzato. Si recava in canonica, come tutti i giovedì, con una torta per Don Gaudenzio. Quel poveruomo doveva avere un fuoco dentro, nutrito dalla fede, che lo consumava. Le occhiaie incavate, gli zigomi sporgenti, le lunghe dita scheletriche. Non c’era da meravigliarsi che i bambini tendessero a nascondersi vedendolo arrivare.
Lucia esagerava sempre con burro e uova nella sua guerra personale contro la magrezza del sacerdote. Non aveva il coraggio di chiederlo apertamente, ma era convinta che Don Gaudenzio avesse di che patire da un aspetto emaciato che vanificava i tentativi di fraternizzare coi fedeli. Lucia lo vedeva come un uomo triste, abbattuto da un metabolismo accelerato, bisognoso di tutte quelle calorie che solo una brava cuoca può garantire.
Con in mano la crostata di mirtilli, ben incartata e con tanto di fiocco, Lucia uscì di casa alle dieci in punto del mattino. Attraversò l’aia badando di passare giusto oltre la curva di terra battuta che segnava il limite del territorio cagnesco. Infatti quando Cirillo sbucò fuori di corsa dal portico finì come al solito per ribaltarsi nella polvere, strattonato dalla catena. Percorsa Via della Torre, strada principale di Postacqua, passò di fronte alla bottega della signora Giulia stando bene attenta a guardare dall’altra parte e tirò dritto fino al piazzale della chiesa.
Il corpo era davanti alla scalinata. Si trovava in posizione china, accartocciato su se stesso. Sembrava inginocchiato, come in penitenza. Emanava un forte odore di lana bruciata e aveva una mano puntata verso il portone di rovere della chiesa, come a indicare un invisibile difetto.
Lucia rimase a fissare il cadavere a lungo, indecisa sul da farsi. Non aveva capito subito di cosa si trattasse. Si guardò in giro e quando realizzò di essere da sola e in presenza di un corpo umano carbonizzato finalmente reagì: si portò le mani alla bocca, lasciando cadere la torta, ed emise uno strillo con tutta la forza che le riuscì di trovare. Aspettò di veder apparire qualcuno, quindi svenne.
Curzio Malpeni non aveva mai parlato con un tono di voce normale in tutta la sua vita. Quello che secondo lui era un bisbiglio risultava udibile a un chilometro di distanza. Così quando arrivò di corsa nel piazzale della chiesa e vide perdere i sensi la signora Lucia Franchetti, l’eco del suo allarme fece sollevare in volo gli uccelli da tutti gli alberi di Postacqua. Giorgio si mise a cavalcioni sulle spalle il piccolo Ezechiele, decise che non aveva nient’altro di valore da portare con sé e scapicollò giù dalla scale. Bruno abbandonò la pizza in forno e uscì in strada senza preoccuparsi di levare il camice sporco di olio e farina. Bettina lasciò cadere il bicchiere che stava asciugando e incollò il naso al vetro della finestra, piegando il collo per riuscire a vedere in fondo alla strada. Le voci si stavano moltiplicando e c’era gente che correva avanti e indietro.
Se vi foste trovati seduti su una delle panchine del parco, avreste visto sopraggiungere, da soli o in piccoli gruppi, quasi tutti gli abitanti del piccolo Comune di Postacqua. Ecco Rino e Giacomo, i fratelli Bonimba, spaiati come zoccolo e ciabatta. Il primo alto e leggero come un soufflé, il secondo tozzo e pesante come una peperonata. Da Vicolo dell’Olmo arrivò Rita, la sarta, coi capelli color rame stretti in un crocchio sulla nuca e un portaspilli a forma di coccinella sul polso sinistro. Roberto, il meccanico, con un grosso cerotto attorno al pollice e le sue scarpe da lavoro preferite che hanno ormai quasi vent’anni. Arrivavano e si fermavano a guardare il cadavere ancora fumante che si raffreddava in ginocchio sull’acciottolato. Parlottavano fra di loro a bassa voce e stavano già nascendo delle teorie fantasiose che diventavano realtà passando di bocca in bocca.
“Si è dato fuoco con che cosa?”, chiese Anna.
“Non sento odore di benzina, forse ha usato dell’alcool”, rispose Maria, passando da un piede all’altro e torcendosi le mani per riattivare la circolazione.
“Gli hanno dato fuoco con gli alcolici”, riportò Dario all’uomo dietro di sé.
Per il momento era accaduto tutto e niente. Col tempo la selezione naturale avrebbe eliminato le informazioni evidentemente false e lasciato in vita solo quelle più probabili. La verità avrebbe potuto esserci oppure no nel ventaglio dei pettegolezzi sopravvissuti. La cosa non scandalizzerebbe nessuno perché tutti sanno che a Postacqua le notizie sono cose vive. Nascono e sono piccole e indifese, piene di forse e casomai. Poi assumono dei lineamenti più marcati che si porteranno dietro durante tutta la crescita. A un certo punto raggiungono l’apice della maturità e sono piene di particolari e ricche di attrattiva. Infine inaridiscono, perdono tutto il loro fascino e si trasformano in un mero, insignificante, evento forse vero o forse no, comunque accaduto tanto, troppo tempo fa perché valga la pena di parlarne.
E in questo vociferare collettivo, nello sforzo di dar vita a una nuova piccola gemma di Storia del paese, una sola voce copriva tutte le altre cercando senza successo di richiamare l’attenzione. Curzio Malpeni teneva sollevata la testa di Lucia e la particolare voce roboante di lui spremeva dalla povera signora espressioni di grande sofferenza.
“Come si sente?”, chiedeva Curzio dandole piccoli schiaffi sulle guance. E fra uno schiaffo e l’altro chiedeva aiuto, ordinava di chiamare ambulanze e forze dell’ordine, di portare un bicchiere d’acqua. La possente voce di Curzio non si poteva far a meno di udirla, ma solo il piccolo Ezechiele, appollaiato sulle spalle del padre, dava segno di averla intesa. Voltato in direzione di Curzio, sorrideva e batteva le manine, per poi indicare il cadavere e dare il suo contributo allo spargimento delle opinioni.
“Buhato coacol!”
“Chiamate qualcuno!”, tuonava Curzio.
“Moto, ciso, uoco!”, rispondeva Ezechiele.
Quando finalmente riprese i sensi, Lucia disse solo due frasi: “Stia zitto se non vuole che mi esploda la testa” e “Che fine ha fatto la mia torta?”
Le sirene dei carabinieri iniziarono a farsi sentire proprio mentre irrompevano nella piazza i ragazzini, con gran derapate sui copertoni lisi delle bici.

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