martedì 24 febbraio 2009

Ridammela.

"For strength from Truth divided and from Just,
Illaudable, naught merits but dispraise
And ignominie, yet to glorie aspires
Vain glorious, and through infamie seeks fame:
Therfore Eternal silence be thir doome."

("Paradise lost", J. Milton, Book 6 v. 381 - 385)


Usava vernici speciali, immuni alle negligenze e ai solventi clorati. Le lettere sembravano bruciare nel buio, stilate da mani compassate con l’ansia del millimetro. Gli altri graffiti al contrario sbiadivano, mostravano sbuffi e colate.
Cominciarono a saltarmi nelle pupille mentre la zaffata di cordite impregnava la stanza. Non sono scritte che attendono docili le occhiate sfuggenti. Rimangono uncinate alla retina come riflessi solari e quando pensi di essertene liberato riemergono in altre forme, con altre parole, su differenti superfici, perseguitandoti negli incubi.
La prima apparve sul muro, in diagonale, sopra la macchia vermiglia ancora lucida di sangue. Gridava “Ridammela!” in caratteri cubitali azzurri con riverberi argentati e sfumatura in nero. Pensavo fosse lì anche in precedenza, ignaro che apparissero dal nulla all’improvviso.
Per un momento pensai a un’estrema forma di insolenza del cadavere di Sara, in grado di vantare prepotenza con messaggi post mortem. Oppure una misteriosa forma di premonizione che l’avesse indotta a rivendicare la vita che non gli avevo ancora tolto per mezzo di un prematuro epitaffio.
In seguito le scritte apparvero ovunque. Su muri, vetrine, strade, porte, specchi, passanti.
Non possiedo un carattere irrequieto e difficilmente gli eventi riescono a sconvolgermi. Se così non fosse difficilmente riuscirei a condurre proficuamente il mio lavoro. Lo specialista cui mi rivolsi, dopo aver realizzato di essere il solo a notarle, imputò il difetto visivo allo stress e mi prescrisse dei calmanti. Decisi di rinnovare la mia totale sfiducia nella classe medica; credevo di poter dimostrare la mia resistenza in una sfida alla pazienza reciproca.
Le scritte apparivano luccicanti e stucchevoli anche sul soffitto della mia camera da letto senza che mi scomponessi o mostrassi insofferenza. Semplicemente le ignoravo.
Presi ad assumere controvoglia i medicinali quando rischiai un incidente stradale. Lo stress usò il parabrezza come sfondo e la visibilità divenne nulla.
Eppure l’artista perseguitava il mio campo visivo con segnali estranei al subconscio. Non avevo idea di cosa potesse significare un “Non dovevi credermi.” sul parabrezza. Mentre le gomme stridevano sull’asfalto e i clacson altrui oltraggiavano la manovra insensata, le parole mutarono una ad una, in maniera indescrivibile, come se un pennello incorporeo si premurasse di colpire le mie retine in modo casuale, senza rispettare alcun metodo, fino a comporre l’ormai frequente “Ridammela”.
Solo adesso, mentre svito il silenziatore, comprendo l’origine del fenomeno. L’ultima vittima giace mollemente di fronte a me, tenuta composta dai lacci con cui l’ho assicurata alla sedia.
Non sono un assassino privo di scrupoli, che lavora dietro compenso senza fare domande. Ci dev’essere movente e mi accerto che sia fondato. È stupefacente quanto una calibro nove puntata in fronte stimoli la gente a dire la verità. La maggior parte trova conforto nel potersi confessare prima di morire, come se facesse qualche differenza. Quel che metto in atto è offrire alle vittime la possibilità di liberarsi dal peso di menzogne nascoste faticosamente, spesso per lunghissimi periodi.
Posso restare anche per ore in piedi, con la pistola in pugno, ad aspettare. Di solito lo sfogo arriva nei primi dieci minuti. Tutto quel che devo fare è chiedere “Sei colpevole?”.
Si potrebbe pensare che sia facile mentire, ma non è così quando si ha la certezza di non potersela cavare. Perché io mi informo prima di chiedere. Accerto i moventi, indago sui presupposti, verifico le condizioni. Mi presento preparato agli appuntamenti. E quanto arrivo è troppo tardi per mentire.
Una sola volta ho agito pur essendo nel dubbio. Una volta sola la mia voce può aver mostrato un tono incerto nel porgere l’ultima domanda. Quella sola volta è stata sufficiente per giustiziare una bugiarda. Così bugiarda da mentire perfino sulla propria colpevolezza, da mentire a se stessa sul fatto di potermi obbligare a ridargliela, come se non esistesse l’irreparabile.
Sono tornato nel bosco dove ho seppellito la salma di Sara parecchie volte da quando ebbero inizio i graffiti. Gridavo “Cos’è che vuoi?” e “Ridarti cosa?”. Non avevo capito che la domanda giusta era un’altra.
Oggi ho preso il badile e l’ho tirata fuori e ho appoggiato contro un albero il sacco di plastica contenente il corpo esanime. Con i capelli ritti sulla nuca ho forzato la gola ad emettere suono.
“Sei colpevole?”
Potrei giurare di aver sentito distintamente un no, e per infiniti secondi ne ho sentita l’eco col terrore che non finisse mai. L’ho lasciata lì dov’era, seduta nel sacco a guardare la propria tomba, e sono fuggito.
Dopo un inferno di tormentata pazienza, finalmente non vedo più le scritte.

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